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Biologia, medicina e tecnica: i pericoli di una genetica “liberale”.

In cammino verso l’autodistruzione dell’umanità?

4.3. Biologia, medicina e tecnica: i pericoli di una genetica “liberale”.

Per concludere questa breve rassegna sugli aspetti più inquietanti e “catastrofici” della nostra situazione attuale che Gadamer prende in considerazione, vorrei infine accennare ad alcune questioni riguardanti i problemi generati dall’applicazione delle scoperte scientifiche in campo medico. Ora, in realtà bisogna sottolineare che l’interesse di Gadamer per le tematiche connesse agli sviluppi della medicina moderna è molto vasto, come documentato dai numerosi saggi composti nell’arco di circa trent’anni ed infine raccolti nel volume Über die Verborgenheit der Gesundheit del 1993. Tuttavia, non è qui possibile affrontare qui nel dettaglio ogni singolo aspetto del confronto gadameriano con queste tematiche, per cui mi limiterò a dire che, in generale, quello che sembra preoccuparlo è il crescente diffondersi, anche in ambito medico (e, in special modo, in ambito psicologico e psichiatrico) di una tendenza alla razionalizzazione, tecnicizzazione e burocratizzazione che, a suo giudizio, conduce alla rimozione della complessità del processo del «curare» – e qui Gadamer sfrutta l’affinità etimologica tra i termini Behandlung (curare) e Hand (mano) per evidenziare l’importanza del «palpare [e] tastare con la mano il corpo del malato» – ed alla sua sostituzione con un mero «imporre prescrizioni [e] scrivere ricette» (ÜVG, 139-140 / DNS, 118-119). Alla fine, scrive Gadamer con malcelata ironia, si diventa solo un «caso particolare di una qualche patologia» e, «entrando in una clinica, si [perde] il proprio nome per ricevere un numero» (ÜVG, 142 / DNS, 120)!

Premesso ciò, vorrei quindi segnalare l’interesse specifico mostrato dal filosofo di Marburgo, soprattutto nei suoi ultimi anni di vita e di lavoro, per i problemi connessi ai fenomeni del nascere e del morire che sono sorti nella nostra società tecnologica. Partendo proprio da quest’ultimo punto (ossia, dal morire), è infatti interessante notare come Gadamer richiami l’attenzione su quell’«inquietante problema del nostro mondo»

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Sulla natura e su poche altre cose. Una intervista a Hans-Georg Gadamer, cit., pp. 217-218.

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rappresentato dal «prolungamento della vita con mezzi artificiali (Sterbensverlängerung)»: ossia, dal fatto che «un medico di oggi [possa] mantenere in vita per un tempo infinitamente lungo una funzione vegetativa dell’organismo sostenendola insensatamente con procedimenti meccanici» (GW 4, 226 / RES, 82). In questo modo, grazie agli «enormi progressi tecnologici che spesso permettono di conservare la vita artificialmente», e grazie ai «moderni narcotizzanti che tolgono alla persona sofferente il possesso di sé», paradossalmente «l’allungamento della vita si trasforma in fondo in un prolungamento della morte (die Lebensverlängerung wird am

Ende zur Sterbensverlängerung) [e] la morte stessa diventa una sentenza correlata alla

decisione del medico curante» (GW 4, 289 / DNS, 70)118. Con ciò, ovviamente, Gadamer non intende dire che gli sforzi della medicina moderna per prolungare la vita e, ove ciò non sia possibile, per rendere l’agonia e il decesso del paziente meno angosciosi e dolorosi, non siano in sé assolutamente legittimi ed umanamente del tutto comprensibili (anzi, encomiabili). Quello che lo preoccupa è piuttosto la tendenza complessiva, che egli ritiene di poter scorgere nella nostra epoca, ad una vera e propria «rimozione sistematica della morte»: tendenza di cui la riduzione dell’uomo «ad una componente di un processo meccanico [tramite] il mantenimento delle funzioni vegetative dell’organismo [e] il carattere davvero anonimo della morte nelle cliniche moderne (tatsächliche Anonymisierung des Sterbens in den modernen Kliniken)» costituiscono solamente le manifestazioni forse più appariscenti (GW 4, 226 / DNS, 70).

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In questo senso, osserva Gadamer in un’altra occasione, in virtù delle «odierne risorse tecnologiche» che consentono il «prolungamento artificiale della vita (künstliche Lebensverlängerung)» e il «mantenimento dei processi vegetativi artificiali dell’organismo», persino «il senso dello stesso giuramento ippocratico risulta completamente rovesciato», giacché adesso il compito del medico non sembra più consistere nel salvare la vita bensì nel decidere «quando si debba lasciare morire un uomo» (H. G. Gadamer, Freiheit und Verantwortung der Wissenschaft, in E. Teufel (a cura di), Schriftenreihe

der CDU-Fraktion im Landtag von Baden-Württemberg, vol. 16, Stuttgart 1986, pp. 26-27). A questo

proposito, mi sembra interessante notare come la stessa introduzione, alla fine degli anni Sessanta, del criterio della morte cerebrale da parte della cosiddetta «Commissione di Harvard sulla morte cerebrale» – in luogo della «definizione classica [della] morte [come] “cessazione permanente della circolazione dei fluidi corporei vitali”» – sia stata pesantemente condizionata dalle nuove possibilità di tenere in vita per un periodo di tempo indefinito «un gran numero di pazienti […] in coma irreversibile […] attaccati a respiratori», ed alla necessità di “trasformarli” da «peso sempre più difficilmente tollerabile per le risorse degli ospedali» in «mezzo per salvare altre vite umane» mediante il «reperimento degli organi per i trapianti» (P. Singer, Ripensare la vita, il Saggiatore, Milano 1996, pp. 40-42).

Si inserisce poi in questo quadro più ampio anche la sua critica al fenomeno, per certi versi analogo ed anch’esso tipico della nostra civiltà, della “rimozione” dell’esperienza del dolore, sul quale verte il suo ultimo intervento pubblico (11 Novembre 2000) intitolato per l’appunto molto semplicemente Schmerz. In breve, la tesi di Gadamer è che, sebbene «il tentativo di liberarsi dai gravi dolori appartenga da tempo immemorabile alle esperienze del vivere umano», e sebbene sia chiaro che «senza la moderna chimica non potremmo disporre di numerosi mezzi e metodi» per combattere il dolore, ciò nondimeno il fatto che «il dolore comprenda (umgreift), per così dire, la nostra intera vita e ci sfidi costantemente» non va inteso solamente come una condanna, ma anche come «una grande chance […] di “venire finalmente a capo” del destino che ci è imposto (endlich mit dem “fertig zu werden”, was uns aufgegeben ist), [della] dimensione autentica della vita [che] diviene intuibile proprio nel dolore» (S, 22-29)119.

Dai problemi connessi alla morte passiamo infine a quelli connessi alla nascita: più precisamente, «alle possibilità di coltivare l’uomo (Möglichkeiten der

Menschenzüchtung) che sono sorte nella genetica dell’ereditarietà» (GW 2, 159 / EMU,

171), alle «enormi trasformazioni (gewaltige Veränderungen)» provocate dalla «moderna ricerca genetica» ed al «possibile abuso della tecnologia genetica (möglicher

Mißbrauch der Gen-Technik)»120. Sin dalla metà degli anni Sessanta, infatti, Gadamer ha scorto in quelli che potremmo definire i rischi di una genetica troppo “liberale”121 una sfida importante (anzi, decisiva) per l’uomo contemporaneo, mostrandosi estremamente preoccupato dal «gioco alla creazione (Schöpferspiel)» praticato da «genetisti tecnologi (Gen-Technologen)» incapaci di capire «fino a che punto ci si possa spingere con le tecnologie genetiche prima che esse diventino realmente pericolose»122. Chiaramente, si tratta di un campo nel quale può risultare molto difficile distinguere tra previsioni veritiere e speculazioni “fantascientifiche”, tra timori concreti e catastrofismi

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Anche su questo punto, peraltro, mi sembra che sussistano delle affinità tra il discorso di Gadamer e quello di Jonas, il quale in maniera per certi versi analoga nel saggio Peso e benedizione della mortalità invita a considerare il dolore, la malattia e persino la morte (oltre che ovviamente come un «peso») anche come una «benedizione», come la «semplice verità della nostra finitezza» (H. Jonas, Tecnica, medicina

ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997, p. 220). 120

H. G. Gadamer, Freiheit und Verantwortung der Wissenschaft, cit., pp. 18-26.

121

Il riferimento, ovviamente, è al fortunato libro di J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di

una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, in particolare pp. 19-74 (capitolo I rischi di una genetica liberale. La discussione sull’autocomprensione etica del genere).

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«Traditionen sind der Wissenschaft oftmals weit überlegen». Ein Gespräch mit dem Heidelberger

immotivati, e di ciò Gadamer sembra in qualche modo rendersi conto, visto che nei suoi scritti non vengono quasi mai evocate previsioni apocalittiche per il futuro o fantasmi di un Brave New World fondato su una qualche forma di totalitarismo “genetico”123. Ciò non toglie, però, che egli definisca «stupefacenti […] i possibili interventi nella nostra costituzione antropologica (die möglichen Eingriffe in unsere anthropologische

Ausstattung) che la biologia potrebbe realizzare concretamente in un tempo non troppo

lontano», avvertendo che forse «oggi come oggi non siamo ancora nemmeno in grado di capire quali possibilità distruttive (Zerstörungsmöglichkeiten) siano in mano a tali enormi potenze (Grossmächte)» (IG, 42 / AC, 37).

Ovviamente, su questioni così delicate e radicalmente nuove, per certi versi senza precedenti nella storia dell’intero genere umano, nessuno è in grado di fornire facili risposte o di intravedere soluzioni immediate, e di ciò Gadamer mi sembra assolutamente consapevole, per cui in questo caso la sua reticenza ad esprimersi su possibili risposte e soluzioni ai quesiti che ci allarmano può forse ritenersi più giustificata che in altre occasioni. Ad ogni modo, obbedendo ad una sorta di sentimento di prudenza e di cautela, per l’immediato presente egli sembra proporre che «nel caso della tecnologia genetica venga impedito a termini di legge ciò che l’opinione pubblica considera odioso e inaccettabile» (E, 153 / EE, 124), nell’attesa che, in futuro, «intorno alla tecnologia genetica nell’ambito della ricerca biologica» si disponga finalmente di «un’etica filosofica quale quella che la coscienza del tempo richiede» (GW 10, 371 / ERM, 731).

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L’unica occasione in cui Gadamer evoca apertamente lo spettro di «una sorta di superuomo (eine Art

Übermensch) [creato] per via genetica» che potrebbe trasformare «la nostra società […] in un sistema di

api operaie al servizio di simili fuchi», è forse rappresentata dal riferimento al «simposio CIBA sulle possibilità di manipolazioni in campo genetico» (GW 4, 226 / RES, 81). Cioè al convegno organizzato a Londra nel 1963 dalla multinazionale svizzera chimico-farmaceutica CIBA, durante il quale venne apertamente difesa la legittimità di applicare le nuove conoscenze biomolecolari e le tecniche per il controllo biologico della riproduzione in vista di un miglioramento della specie umana.