• Non ci sono risultati.

metodico-scientifica ed i «limiti dell’oggettivabilità».

1.1. Il senso della Destruktion in Gadamer.

Prima di procedere ad una tale analisi, però, credo si debba dire che Gadamer, in realtà, solitamente impiega il termine Destruktion in un’accezione almeno parzialmente diversa da quella cui si sta qui accennando, e comunque sempre in riferimento all’origine heideggeriana del termine. Com’è noto, «nelle lezioni del semestre invernale del 1919-20 Problemi fondamentali della fenomenologia» tenute a Friburgo, Heidegger propone un “metodo” «che qui, per la prima volta, viene esplicitamente chiamato la “distruzione fenomenologico-critica”, vale a dire l’attuazione di un confronto non solo con le posizioni assunte da singoli pensatori, ma anche, più in generale, con le tendenze fondamentali della filosofia dell’epoca»233. Tale “metodo” viene quindi ripreso e sviluppato «nel corso tenuto a Marburgo nel semestre estivo del 1927», anch’esso «intitolato appunto I problemi fondamentali della fenomenologia», dove il filosofo di Meßkirch «elabora tre “strutture metodiche” dell’ontologia: […] come punto di partenza, una riduzione fenomenologica», quindi «una seconda istanza, […] che Heidegger chiama una costruzione fenomenologica», ed infine per l’appunto una «terza struttura metodica […] che risponde al nome di distruzione fenomenologica» e che consiste in «una “decostruzione critica di quei concetti che ci sono stati tramandati”, [la

232

Questo punto è stato giustamente sottolineato da Jean Grondin, il quale ha evidenziato come «nell’ermeneutica di Gadamer ne vada […] proprio dei limiti dell’oggettivazione (Grenzen der

Objektivierung)» e di quegli aspetti dell’«umano comprendere, comportarsi e sentire (menschliches Verstehen, Verhalten, Fühlen)» i quali hanno a che fare «più con forme specifiche di inserimento nelle

tradizioni [e] nella ritualità della vita che col pianificare [e] il controllare» (J. Grondin, Von Heidegger zu

Gadamer. Unterwegs zur Hermeneutik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2001, p. 125). 233

A. Fabris, L’«ermeneutica della fatticità» nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, cit., pp. 75-80.

quale] giunga sino “alle fonti da cui essi sono scaturiti”»234. Il termine però acquista una vera notorietà e legittimità filosofica nel momento in cui Heidegger (in quello stesso 1927) lo impiega nel § 6 di Sein und Zeit – intitolato per l’appunto Il compito di una

distruzione della storia dell’ontologia – in cui si spiega che, «se il problema dell’essere

stesso deve venire in chiaro quanto alla propria storia autentica, [allora] è necessario che una tradizione consolidata sia resa nuovamente fluida e che i veli da essa accumulati siano rimossi»235. Compito che Heidegger, per l’appunto, definisce col nome di una «distruzione del contenuto tradizionale dell’ontologia antica […] da compiersi sotto la guida del problema dell’essere, fino a risalire alle esperienze originarie in cui furono raggiunte quelle prime determinazioni dell’essere che fecero successivamente da guida»236.

Ora, come si può vedere dalla lettura dei numerosi saggi in cui Gadamer riprende la categoria heideggeriana della Destruktion, il significato fondamentale al quale egli tiene fermo è proprio quello di una «demolizione dalla mira sicura (bedeutete

zielsichere Abbau), [di] una demolizione di strati sovrapposti fino a ritornare alle

esperienze originarie di pensiero (ursprüngliche Denkerfahrungen)», insomma di una «messa allo scoperto della provenienza della nostra concettualità (Freilegung der

Herkunft unserer Begrifflichkeit)» (GW 10, 17-23 / ERM, 31-43). In particolare, in più

d’una occasione Gadamer mette in guardia dal fraintendimento consistente nello scambiare la «distruzione» di cui parla Heidegger con «devastazione e nichilismo (Zerstörung und Nihilismus)», là dove invece si tratta di «una demolizione per la messa allo scoperto (Abbau zur Freilegung)» che va «esercitata sui concetti con i quali la filosofia contemporanea coltiva il pensiero» (GW 10, 65 / ERM, 127)237. Sotto questo

234

C. Esposito, Il periodo di Marburgo (19123-28) ed «Essere e tempo»: dalla fenomenologia

all’ontologia fondamentale, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, cit., pp. 127-128. 235

M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 6, p. 41.

236

Ibid.

237

Gadamer fa questa precisazione soprattutto perché ritiene che, con la diffusione dell’«uso della parola [Destruktion] in altre lingue», essa abbia progressivamente assunto un «suono negativo di “devastazione”» che originariamente non possedeva (GW 10, 132-133 / ERM, 257-259). In particolare, tale appunto critico viene mosso nei confronti di Derrida, il quale secondo Gadamer avrebbe sentito nel termine «“distruzione” […] soltanto “devastazione”» (GW 10, 133 / ERM, 259), intraprendendo così un cammino «dalla distruzione alla decostruzione (von der Destruktion zur Dekonstruktion)» che, sebbene presenti «chiare comunanze che danno da pensare» con le «parole d’ordine» heideggeriane della

punto di vista, pertanto, Gadamer riconduce apertamente «il compito della filosofia come distruzione» – quale egli stesso ebbe modo di apprendere durante gli anni di studio con Heidegger – «al principio fenomenologico fondamentale […] di risalire alle cose stesse (auf die Sachen selbst zurückgehen)» (GW 10, 350 / ERM, 689), e gli assegna una valenza profondamente critica nei confronti di quelle stratificazioni linguistiche e concettuali che impediscono una visione chiara e corretta dei fenomeni.

Chiaramente, tutto questo discorso assume un’importanza centrale ai fini di un’analisi critica della cultura moderna tesa a mostrare come l’adozione acritica e generalizzata del vocabolario e della metodologia scientifica comporti in ultima analisi proprio un “occultamento” e una mancata comprensione di fenomeni per loro natura “sfuggenti” a tale tipo di inquadramento. È in questo senso, dunque, che nel titolo di questo capitolo ho scelto di parlare di una «distruzione» dell’impostazione tecnico- scientifica e di un’evidenziazione, da parte di Gadamer, di quelli che egli considera i «limiti dell’oggettivabilità». Per il filosofo di Marburgo, infatti, si tratta di mostrare in

primo luogo come la concettualità, la terminologia e l’impostazione proprie della

filosofia e della scienza moderna nascondano in sé una serie di importanti ipoteche metafisiche; in secondo luogo, come in alcuni casi importanti l’adozione generalizzata di una tale impostazione conduca inevitabilmente ad aporie, fraintendimenti ed incomprensioni; infine, come da tali “fallimenti” si debba trarre la conclusione secondo cui vi sono ambiti di realtà “recalcitranti” a venir misurati, padroneggiati e spiegati in termini naturalistici o, più in generale, metodico-scientifici.