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Un (modesto) tentativo di “correzione” del cammino della modernità.

3.2. Contro il fatalismo e la filosofia della storia.

Alla fine di tutto questo discorso, mi sembra dunque che possa essere sostanzialmente accolta l’interpretazione proposta dallo stesso Habermas nel famoso saggio sull’Urbanizzazione della provincia heideggeriana, nel quale «l’ermeneutica di

173

S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 101-105.

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Ivi, p. 116. Il fatto che, secondo Habermas, «le patologie del mondo moderno nascono [da una] “colonizzazione del mondo della vita”» ad opera della razionalità strumentale tecnico-scientifica che tende sempre più «a proporsi come modello unico» (Ivi, pp. 116-117), mi sembra in qualche modo ricondurlo nelle vicinanze di Gadamer, a dispetto delle polemiche sorte tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta a proposito del rapporto tra ermeneutica e critica dell’ideologia. In questo senso, è stato infatti notato che le teorie dei due filosofi possono considerarsi come «due modi di concepire […] il ruolo della ragione nell’epoca post-metafisica, il suo potere critico, i suoi limiti, le sue possibilità, le sue prospettive, […] all’interno di una [stessa] forma peculiare […] di razionalità pratica e

comunicativa» (A. De Simone, Il paradigma ermeneutico della ragione. Gadamer e Habermas, in

Gadamer» – con la sua diffidenza verso «quel concetto di “conoscenza metodologicamente oggettiva” che vorrebbe riservare alle sole scienze sperimentali il monopolio della facoltà umana del conoscere», e con la sua preoccupazione per la «colonizzazione del mondo vitale» messa in atto «ai nostri giorni […] da parte degli imperativi di un’incontrollata crescita economica [e] di una settorializzazione formalizzata e giuridificata della società» – viene letta come una «lettura della modernità [che] coniuga […] la critica heideggeriana della tecnica […] con una critica della ragione strumentale che ha origini diverse»175 (precisamente, nel pensiero di Weber prima, e nella sua ripresa e prosecuzione da parte dei Francofortesi poi). Tutta questa serie di analogie tra Gadamer e alcuni altri pensatori fondamentali del Novecento consente sicuramente di far luce su alcuni aspetti del discorso filosofico gadameriano e, soprattutto, sulla sua appartenenza al contesto problematico relativo alla lettura della modernità attraverso la lente della razionalità strumentale e del «pensiero calcolante». Tuttavia, la constatazione di tali indubbie affinità non deve condurre a mio giudizio ad un’affrettata assimilazione tra le diverse forme di discorso critico intorno alla modernità. In particolare, mi sembra opportuno sottolineare come il discorso gadameriano non vada confuso con quello di altri eminenti critici della modernità che, traendo per certi versi le estreme conseguenze dalla diagnosi critica sulla condizione presente, hanno «spinto sempre più lontano [la] critica della modernità» sino ad arrivare a forme di «critica globale e radicale» e di «denuncia [di un] presunto potere assoluto», se non proprio ad una vera e propria «ossessione della crisi»176.

Inoltre, come ho già avuto modo di accennare, il tema della “crisi della modernità” risulta sempre strettamente intrecciato a quello della “crisi della ragione”: un tema che, com’è noto, attraversa praticamente per intero la storia della filosofia e della cultura del XX secolo. Infatti, se il pensiero d’inizio secolo è stato fortemente segnato da quello che è stato efficacemente definito il paradigma della «razionalizzazione distruttiva»177, alla fine del secolo – come ha polemicamente rilevato

175

J. Habermas, Profili politico-filosofici, Guerini, Milano 2000, pp. 257-261.

176

A. Touraine, Critica della modernità, cit., pp. 193-195.

177

F. Papa, Razionalizzazione distruttiva, Guida, Napoli 1990. Con questa calzante espressione, l’autrice identifica infatti la «tendenza [di pensiero] che, nell’età della crisi» (cioè, nei primi decenni del Novecento) ha accomunato un’intera «generazione di intellettuali diversificata all’interno quanto alle prospettive», la quale in buona sostanza coglieva nel «rovesciamento radicale dello sviluppo in distruzione e morte […] l’esito più vistoso […] di un’idea di ragione e di progresso legata all’illuminismo, alla scienza, alla tecnica, al capitalismo» (Ivi, pp. 8-9).

Jürgen Habermas – «la critica totalizzante [o] radicale della ragione è divenuta quasi di moda»178. Ora, pur tenendo conto della vis polemica indubbiamente presente nella ricostruzione habermasiana – la quale ne rende per certi versi dubbia la piena attendibilità ed “obiettività” –, ciò che qui ci interessa è semplicemente il fatto che la posizione di Gadamer non sia mai arrivata a tali “picchi” di «critica totalizzante» della razionalità moderna e, soprattutto, che essa abbia sempre puntato non tanto a rinvenire un «Altro dalla ragione» (considerata comunque come di per sé violenta e tirannica), quanto piuttosto a recuperare la ricchezza delle diverse forme di sapere e di esperienza e la varietà delle «vie della ragione»179.

Ma il punto che qui mi preme maggiormente sottolineare è rappresentato dal fatto che, in non poche occasioni, una siffatta critica radicale della modernità e della razionalità sia infine sfociata in visioni tragicamente pessimistiche dell’intero corso della storia, sino all’elaborazione di vere e proprie filosofie della storia “negative”. Come ha scritto Karl Löwith, infatti, «a partire dalla metà del [XIX] secolo, la struttura della storia europea non si configura più negli spiriti lungimiranti secondo lo schema del

progresso, ma secondo quello della decadenza [e] nell’ambito della letteratura e della

filosofia europee si assiste [così] a una serie ininterrotta di critiche alla civiltà e di autocritiche»180. Il caso più eclatante, in questo senso, è probabilmente rappresentato dal

Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler – un testo che, come abbiamo ricordato

nella prima parte del nostro lavoro, ha sicuramente esercitato una profonda influenza sulla generazione di Gadamer –, nel quale si espone infatti una «vera e propria filosofia della storia e della crisi a curvatura scettico-nichilistica, […] dai toni cupi e apocalittici», secondo la quale «la forza vitale della civiltà occidentale […] sarebbe entrata nella fase del suo tramonto» e ciò «non per caso, ma per una ineluttabile

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J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 303. Com’è noto, ciò che Habermas contesta è il fatto che, sulla base di una serie di letture genealogico-decostruttive in vario modo ispirate alle “ermeneutiche del sospetto” di Marx, Nietzsche e Freud, si sia diffusa «una radicale critica della ragione che non protesta soltanto contro la deformazione dell’intelletto a ragione strumentale, ma che equipara bensì, in generale, ragione e repressione, per poi cercare rifugio, in modo fatalistico o estatico, in qualcosa di totalmente altro» (J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 13).

179

Mutuo quest’espressione da Enrico Berti, il quale non a caso indica proprio nell’«ermeneutica gadameriana […] uno dei più convincenti tentativi compiuti dal pensiero contemporaneo per configurare una alternativa alla razionalità scientifica», senza con ciò ricadere nella «crisi generale della razionalità» (E. Berti, Le vie della ragione, il Mulino, Bologna 1987, pp. 17-29).

180

necessità che sta scritta nei ritmi vitali della storia» e che «non concede la libertà di scegliere o rifiutare», ma impone semplicemente e duramente di «accettare questo destino […] a chi è preso nella ruota della storia universale»181.

Ma ritengo che possano rientrare in questo schema almeno in parte (e, comunque, sempre a patto di tenere presenti la specificità ed originalità delle loro tesi, delle quali è qui possibile offrire soltanto una rapida schematizzazione) anche le prospettive dischiuse da due autori che, come abbiamo appena visto, si trovano piuttosto vicini alla mentalità e alla posizione filosofica di Gadamer. Mi riferisco a Martin Heidegger e Theodor W. Adorno, i quali nonostante le ben note frizioni e rivalità reciproche si trovano però in qualche modo accomunati non soltanto dalla critica ad una modernità unilateralmente dominata dal rechnendes Denken e dalla Zweckrationalität, ma anche dallo sviluppo di una concezione lineare e per certi versi “deterministica” della storia (in quanto retta da una sorta di “perversa” logica immanente), il cui telos non è più rappresentato dal progressivo superamento di una condizione di “negatività” sino al conseguimento di una conciliazione dei dissidi e delle conflittualità, bensì al contrario da un incessante approfondirsi ed aggravarsi della crisi, sino allo sbocco conclusivo nella catastrofe totale rappresentata proprio dalla nostra epoca182.

181

F. Volpi, Il nichilismo, cit., pp. 67-68. Come ho già avuto modo di accennare, peraltro, Gadamer non esita a prendere le distanze dalle ricostruzioni spengleriane relative ai “necessari” ritmi che regolerebbero la nascita, la crescita e la decadenza delle civiltà, definendo senza mezzi termini Il tramonto

dell’Occidente come un «romanzo di scienza e fantasia storico-mondiale» (GW 2, 480 / VM 2, 458) ed il

suo autore come un «geniale dilettante» (GW 10, 209 / ERM, 411), dotato di una «fantasia sovradimensionata [ed] un’evidente carenza di critica e autocontrollo» (GW 10, 49 / ERM, 95).

182

Proprio su questo tema, è possibile rinvenire «profonde affinità» tra due pensatori come Heidegger e Adorno, sotto molti aspetti notevolmente distanti tra loro e anzi, com’è noto, apertamente “rivali”. Come è stato giustamente notato, infatti, «è stata sempre una delle obiezioni ricorrenti della teoria critica, il fatto che Heidegger avesse mitizzato e mistificato il corso del mondo, sottraendolo in linea di principio e in quanto destino dell’essere all’agire intenzionale dell’uomo»; tuttavia, «nella Dialettica dell’illuminismo […] l’ambito specifico della teoria della società [viene] esteso a un ambito di storia universale [in cui] la relazione di assoluto accecamento di ragione e dominio» sovrasta sempre «l’agire intenzionale degli uomini», realizzandosi «senza il loro sapere [ma] attraverso il loro agire». In questo modo, «attraverso la loro totalizzazione, nel senso della filosofia della storia, di un modello di ricostruzione originariamente proprio della teoria della società, Horkheimer e Adorno approdano alla fine a quella mitizzazione e

mistificazione del corso del mondo, che costantemente rimproveravano a Heidegger» (H. Schnädelbach, Fare filosofia dopo Heidegger e Adorno, in L. Cortella – M. Ruggenini – A. Bellan (a cura di), Adorno e Heidegger. Soggettività, arte, esistenza, Donzelli, Roma 2005, pp. 189-190, corsivi miei).

Per Heidegger infatti, soprattutto nella seconda fase del suo pensiero (quella cioè successiva alla Kehre), la storia viene ad assumere i tratti di una «storia dell’essere (Seinsgeschichte)» intesa come «storia di decadenza (Verfallsgeschichte)», la cui origine viene scorta nella filosofia dei Greci183 ed il cui sbocco “necessario” – in quanto conseguenza di un «oblio dell’essere (Seinsvergessenheit)» che, col passare degli anni, Heidegger concepisce sempre meno come il frutto di un errore umano e sempre più come una sorta di misterioso “destino” – viene ravvisato nel disperato nichilismo dell’attuale civiltà della tecnica, dal quale «ormai solo un dio può salvarci»184. Sotto

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In un primo momento, nello scritto sulla Dottrina platonica della verità Heidegger afferma che «per i Greci, agli inizi, la velatezza (Verborgenheit), intesa come un velarsi, domina l’essenza dell’essere, [e] la verità significa inizialmente ciò che è strappato a una velatezza», laddove con Platone «l’essenza della verità abbandona il tratto fondamentale della sveltezza, […] si trasferisce nell’essenza dell’idea [e] diventa orthotes, correttezza dell’apprensione e dell’asserzione», dando così inizio all’«oblio dell’essere» perdurante sino ai nostri giorni (M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1994, pp. 178-185). In seguito, invece, nel saggio La fine della filosofia e il compito del pensiero egli ritiene di poter ravvisare l’origine dell’«oblio dell’essere» già nella speculazione dei Presocratici e spiega che «l’affermazione di un mutamento d’essenza della verità, cioè dalla non-ascosità alla giustezza, esatttezza (von der

Unverborgenheit zur Richtigkeit) non è più sostenibile», in quanto «si deve riconoscere che l’aletheia, la

non ascosità (Unverborgenheit) […] fu esperita immediatamente e solo come orthotes, come esattezza del rappresentare e giustezza dell’enunciare» (M. Heidegger, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1987, p. 185).

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A sostegno di una tale lettura, si possono citare alcuni passi particolarmente eloquenti. Ad esempio: «il

destino […] determina l’essenza di ogni storia. La storia non è […] il puro e semplice compiersi

dell’attività umana, [bensì] invio di un destino. […] L’uomo è governato dal destino del disvelamento, […] l’essenza della tecnica moderna consiste nell’im-posizione [e] questa appartiene al destino del disvelamento» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., pp. 18-19, corsivi miei). Oppure: «il pensiero essenziale […] risponde all’esigenza dell’essere, […] si prodiga nella salvaguardia della verità dell’essere per l’ente, […] pone attenzione ai lenti segnali di ciò che sfugge a ogni calcolo, e riconosce in essi

l’imprevedibile avvento dell’ineluttabile» (M. Heidegger, Segnavia, cit., pp. 263-265, corsivo mio).

Oppure ancora: «nell’imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato, il soggettivismo dell’uomo raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano della uniformità organizzata e per installarsi in essa. […] L’uomo non può svincolarsi da questo destino (Geschick) della sua essenza moderna, né può sospenderlo con una decisione sovrana» (M. Heidegger,

Sentieri interrotti, cit., p. 97 n, corsivo mio). Infine: «il tramonto della verità dell’essente accade necessariamente [e] le conseguenze di questo avvenimento sono i fatti della storia universale di questo secolo. […] Le “guerre mondiali” [e] le pretese di dominio dei capi […] sono la conseguenza necessaria

[…] dell’abbandono dell’essere, […] del fatto che l’essente è passato nel modo d’essere dell’erramento (Irrnis). […] Nessun semplice agire cambierà la condizione del mondo perché l’essere in quanto efficacia e azione rende ogni essente impenetrabile all’evento (Ereignis)» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., pp. 46-65). Bisogna anche dire, però, che Heidegger invita sempre a tenere rigorosamente distinti i termini

questo punto di vista, pertanto, «il risultato cui Heidegger perviene è non solo che

l’essere è la storia dell’essere, ma che la storia è nichilismo» e che è «dunque [il]

nichilismo che domina il suo destino»: ossia, che «l’essere è la storia della sua

necessaria assenza, del suo irrimediabile fare difetto», del suo «sottrarsi (Entzug) e

restare-via (Ausbleiben)»185.

Per quanto riguarda Adorno, invece, si può dire che «l’ardita tesi avanzata [nella]

Dialettica dell’illuminismo» consista nell’avanzamento del «sospetto che […] il

progetto dell’Illuminismo fosse […] destinato fin dall’inizio a farci precipitare in un mondo kafkiano [e] a portare ad Auschwitz e Hiroshima»: ovvero, che esso «fosse

destinato a ritorcersi contro se stesso e a trasformare la ricerca dell’emancipazione

umana in un sistema di oppressione universale», a causa della «logica di dominio e di oppressione […] che si nasconde dietro alla razionalità dell’Illuminismo»186. A partire da una tale concezione di fondo, risulta perciò comprensibile perché Adorno, nei suoi scritti, adoperi a più riprese espressioni estremamente dure ed impietose quali: «corso

inevitabile della storia», «logica della storia [che] è distruttiva», «forze storiche

oggettive», «inevitabilità della prigionia [che] è nella logica della storia», «fatalità che individua gli uomini solo per meglio schiacciarli», «violenza arcaica che […] guida

silenziosamente ogni passo», «assurdità [che] si perpetua e si riproduce mediante se

stessa», «corso del mondo [che] è sconvolto», «odierna cultura di massa [che] è

storicamente necessaria», «macchina infernale che è la storia». In Mimima moralia,

addirittura, egli scrive a questo proposito che nella «violenza cieca e disordinata» dei primordi «era già teleologicamente implicita la violenza scientificamente organizzata di oggi»187. E quasi vent’anni dopo, nella Negative Dialektik, egli dichiara esplicitamente

Geschick e Schicksal e, in questo senso, precisa che le sue «affermazioni significano qualcosa di diverso

dai discorsi spesso ripetuti secondo i quali la tecnica è il fato (Schicksal) della nostra epoca, dove fato significa l’inevitabilità di un processo immodificabile» (Ivi, pp. 18-19).

185

M. Ruggenini, L’essenza della tecnica e il nichilismo, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza,Roma-Bari 2002, pp. 237-238.

186

D. Harvey, La crisi della modernità, cit., pp. 26-27 (corsivi miei). In questo senso, è stato giustamente affermato che «la dialettica dell’illuminismo è innanzitutto una filosofia della storia», in quanto «essa tenta di identificare i diversi stadi [della] egemonia dell’azione strumentale, e ognuno di essi è analizzato come sviluppo e conseguenza necessaria del precedente», con «il culmine di questo processo» individuato «nella società amministrata del XX secolo, nella sua triplice versione della società di massa americana, della regressione nazista e della pianificazione globale a sfondo autoritario dello Stato sovietico» (A. Ferrara – M. Rosati, Affreschi della modernità, cit., p. 68, corsivi miei).

187

che la «storia universale conduce […] dalla fionda alla megabomba [e] termina nella minaccia totale dell’umanità organizzata contro gli uomini organizzati»: ragion per cui «lo spirito universale [va] identificato come la catastrofe permanente»188!

Ora, se mi sono brevemente soffermato su queste autorevoli – per quanto senza dubbio anche estreme e molto discutibili – letture della crisi della modernità, è semplicemente per evidenziare come Gadamer, per quanto si trovi effettivamente vicino a posizioni di questo genere sul piano della diagnosi critica e dell’interpretazione del moderno, sembri invece distanziarsene in maniera netta ed inequivocabile nel momento in cui da tali diagnosi si cerca di desumere una visione complessiva del presente, del passato e persino del futuro improntata ad un pessimismo generale e, soprattutto, incentrata su una qualche idea di corso “inevitabile” della storia. In primo luogo infatti, come abbiamo già avuto modo di vedere, Gadamer si mostra refrattario per principio a condividere qualsiasi atteggiamento intellettuale votato al pessimismo radicale e alla disperazione (quale è indubbiamente quello assunto molte volte dai pensatori della Scuola di Francoforte, non a caso sarcasticamente ribattezzata da György Lukács «il Grand Hotel Abisso»). In secondo luogo, inoltre, egli non sembra condividere con Adorno, Heidegger e tanti altri protagonisti della filosofia contemporanea la sfiducia complessiva nella razionalità, dovuta al (presunto) nesso intrinseco tra quest’ultima e la violenza, il potere, la brama di dominio e di assoggettamento189. Infine, mi sembra

188

Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 286. A questo proposito, si veda anche lo sferzante giudizio espresso da Adorno nell’importante saggio Fortschritt del 1962, in cui si legge che «il corso del mondo [e] il progresso, dalla fionda alla bomba atomica, non [sono] che una risata infernale» (Th. W. Adorno, Parole chiave: modelli critici, Milano, SugarCo, 1974, p. 52)!

189

In alcune occasioni, anzi, Gadamer mostra di voler prendere cautamente ma chiaramente le distanze dal «sospetto radicale» e dal «nuovo concetto di interpretazione […] sviluppato nella critica dell’ideologia, nella psicoanalisi e [soprattutto] nel pensiero direttamente o indirettamente ispirato dal lavoro di Nietzsche», affermando che «è troppo netta la dicotomia» tra la sua «ermeneutica filosofica» e le varie forme di «ermeneutica del sospetto (per dirla con Ricoeur)», e che a suo giudizio «non vi è alcun modo per riconciliarle» (H. G. Gadamer, The Hermeneutics of Suspicion, in G. Shapiro – A. Sica (a cura di), Hermeneutics. Questions and Prospects, The University of Massachusetts Press, Amherst 1984, p. 58). Come si legge ancora in un altro saggio, «ci troviamo di fronte a due estremi: da un lato, c’è l’interpretazione nel senso di Nietzsche [o] di Marx e Freud», ossia nel senso dello «smascheramento di significati fittizi; […] dall’altro, c’è l’esperienza vitale dei processi comunicativi, lo sviluppo effettivo della vita quotidiana», in cui non c’è «posto per l’interpretazione smascherante» (H. G. Gadamer, The

Conflict of Interpretations, in R. Bruzina – B. Wilshire (a cura di), Phenomenology: dialogues and bridges, State University of New York Press, Albany 1982, pp. 299-303). «Come possiamo sperare di

importante notare come il filosofo di Verità e metodo si sia sempre mostrato piuttosto scettico nei confronti di ogni tentativo di elaborare una concezione filosofica della storia – sia essa di tipo progressista o “catastrofista”, improntata all’ottimismo o viceversa al pessimismo – che pretenda di cogliere il significato ultimo e nascosto del divenire storico e di abbracciare così quest’ultimo nella sua totalità con un unico sguardo, formandosene per così dire una visione globale ed “unificata”.

In tale pretesa, infatti, egli scorge non soltanto un’esperienza assolutamente eterogenea rispetto alla nostra effettiva modalità di relazionarci agli eventi storici – la quale non coglie mai il senso assoluto della storia ma solo prospettive parziali e limitate, e per giunta spesso in maniera caotica e confusa – ma anche un gesto di hybris, consistente nel tentativo dell’uomo di elevarsi al di sopra della propria ineliminabile finitezza e condizionatezza per conseguire una specie di conoscenza storica “assoluta” che invece, secondo Gadamer, ci è costituzionalmente preclusa190. In questo senso, in

Verità e metodo egli sottolinea come «l’interprete della storia [sia] sempre esposto al

rischio di ipostatizzare il contesto di eventi entro il quale egli riconosce un senso (den

Zusammenhang, in dem er einen Sinn erkennt)» (GW 1, 377 / VM, 765). Per Gadamer,

infatti, «la storia [si] costituisce» di un’«infinita rete di motivazioni (unendliches

Geflecht von Motivationen) [che] raggiunge solo occasionalmente e per brevi tratti il

carattere della chiara conformità a un piano (die Helligkeit des Planmässigen)» (GW 1, 377 / VM, 765). Ragion per cui, «voler applicare questa esperienza alla totalità della storia significa operare una estrapolazione con la quale contrasta nettamente tutta la

all’eredità culturale che si forma e si trasforma nel corso di un processo di mediazione?», si domanda Gadamer: la sua risposta è che bisogna semplicemente «accettare l’esistenza di due atteggiamenti diversi e piuttosto inconciliabili tra loro» (Ivi, pp. 300-301).

190

Chiaramente, l’archetipo (per così dire) di una tale considerazione filosofica della storia è rappresentato da Hegel, la cui ambizione di «descrivere le cose […] dal punto di vista della provvidenza della storia universale (auf dem Standpunkt der weltgeschichtlichen Vorsehung)» presuppone la sua identificazione «di fatto [con] una possibilità astorica dello spirito (eine ungeschichtliche Möglichkeit des

Geistes)», in qualità di «colui che comprende e porta a compimento la storia, al di fuori della propria

storicità» (GW 4, 386-388 / DH, 111-113). In questo modo però, secondo Gadamer, «la filosofia della storia di Hegel rimase impigliata [in una] contraddizione insolubile (unlösbarer Widerspruch)», e quindi «se si [vuole] prendere sul serio la storicità» essa va abbandonata (al pari di tutte le prospettive filosofiche cariche di una siffatta ambizione smisurata): così, alla fine Gadamer si assume il compito di fare l’«avvocato della “cattiva infinità” (Anwalt der “schlechten Unendlichkeit”), per la quale la fine è sempre di là da venire» (GW 4, 465 / DH, 157).

nostra esperienza storica (eine gewaltige Extrapolation, der unsere Erfahrung der

Geschichte strikte widerspricht)» (GW 1, 378 / VM, 767).

In aggiunta a ciò, mi sembra anche interessante notare come Gadamer in qualche modo accolga l’insegnamento fondamentale di Karl Löwith, secondo cui «la moderna