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In cammino verso l’autodistruzione dell’umanità?

4.1. Lo spettro della guerra totale.

Come sappiamo, oltre che dalla diffusa percezione di una crisi dei valori tradizionali e di una concomitante incapacità di sostituirli con nuovi valori, oltre che dal timore suscitato dal carattere autoritario di vari regimi politici sparsi in tutti i continenti e dall’incapacità dei regimi democratici di sottrarsi ad uno “scadimento” nella massificazione e burocratizzazione, oltre che dal terribile monito rappresentato da tragedie quali la Shoah ed altri non meno agghiaccianti (per quanto forse meno noti o, comunque, meno studiati) genocidi perpetrati nel corso del XX secolo97: oltre che da

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Non a caso, il Novecento è stato anche emblematicamente definito come le Siècle des génocides, proprio per sottolineare il fatto che, nonostante «le pratiche di sterminio [abbiano] una storia lunga», nonostante «l’antichità [sia] piena di massacri più o meno programmati dai poteri politici» e nonostante «queste violenze non [cessino] nel Medioevo e nell’età moderna»: nonostante tutto ciò, resta il fatto che

tutto ciò, «l’aspetto minaccioso [del] mondo contemporaneo» è anche stato rappresentato – e ovviamente continua ad esserlo – dalla «possibilità di una guerra nucleare», che può addirittura essere intesa come «il più immediato e catastrofico di tutti i possibili pericoli globali»98 che ci minacciano.

Sotto questo punto di vista, si può dire che il Novecento è stato anche, tra le altre cose, un secolo tormentato, terrorizzato e forse ossessionato dal grande trauma generato dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki mediante l’uso bellico dell’energia atomica. Evidentemente, di un tale terrore paralizzante anche la filosofia, in qualche modo, si è dovuta fare carico. A tal riguardo, ad esempio, vengono in mente «le considerazioni di Jaspers su La bomba atomica e il destino dell’uomo» concernenti sia il fatto «che la bomba atomica può interrompere questo destino» – trattandosi «non [di] un problema fra gli altri, ma [del] problema dell’essere e del non-essere» –, sia il fatto «che la qualità del mezzo (la bomba) oltrepassa di gran lunga qualsiasi scopo storico ci si dovesse proporre con [il suo] impiego», dal momento che ciò «che quel mezzo lascerebbe sul campo sarebbe null’altro che la sepoltura della storia»99. Ma è soprattutto il nome di Günther Anders, vero e proprio «profeta della disperazione» tormentato dall’incubo di una catastrofe atomica, quello che viene alla mente in questi casi, dal momento che, com’è noto, il suo pensiero pressoché interamente segnato dall’evento della «distruzione atomica delle città giapponesi», inteso come «inizio di un’era», superamento di «una nuova soglia», raggiungimento dello «stadio del “cannibalismo postcivilizzato”, […] sorta di “anno zero” per l’umanità, la quale scopriva per la prima volta la possibilità concreta del suo annientamento»100.

Ora, mi sembra interessante notare come una consapevolezza per certi versi simile – anche se ovviamente molto meno accentuata rispetto ad Anders e, forse, allo stesso Jaspers – solchi anche gli scritti di Gadamer, nei quali ricorre in maniera insistente il riferimento al «fantasma che mozza il fiato dell’autodistruzione dell’umanità intera (Selbstzerstörung der gesamten Menschheit) per l’impiego sbagliato dell’energia

«le caratteristiche specifiche [delle] politiche intenzionalmente omicide [del] XX secolo […] sono evidentemente ben diverse dalle precedenti politiche di massacro», e che «la propensione al genocidio cresce indubbiamente sul terreno preparato dalle logiche di violenza nate dal XIX secolo o dalla Grande Guerra, ma dipende comunque quasi sempre dalle razionalità individuali e collettive proprie del XX secolo» (B. Bruneteau, Il secolo dei genocidi, il Mulino, Bologna 2005, pp. 19-20, 243).

98

A. Giddens, Le conseguenze della modernità, cit., pp. 125-127.

99

U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000, p. 684.

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atomica» (LT, 52 / ET, 45)101. «Per la prima volta», scrive infatti Gadamer, «ci troviamo a disporre di un arsenale bellico (ein Waffenarsenal) il cui impiego non promette la vittoria a nessuno, ma significherebbe solamente il suicidio collettivo dell’intera civiltà umana (kollektiver Selbstmord der menschlichen Zivilisation)» (E, 11 / EE, 6). E così, se un tempo «i rapporti di forza (Machtverhältnisse) tra le nazioni […] potevano trovare una loro soluzione [anche] attraverso la guerra, oggi la situazione è ben diversa, ed è impossibile pensare di risolvere in questo modo una tale crisi», giacché una guerra «condotta con le armi atomiche» rischierebbe di trasformarsi in «una specie di suicidio di massa» (HE, 27 / RP, 33). In una situazione del genere – «in cui tutto è dominato dal timore reciproco di conflitti bellici (gegenseitige Furcht von

kriegerischen Auseinandersetzungen)», perché un «tentativo incontrollato [di] misurare

le proprie forze» equivarrebbe «a un tentativo di suicidio pienamente riuscito» – «come sarà possibile salvare l’umanità da se stessa?» si chiede angosciato Gadamer (GW 8, 339 / L, 73). Evidentemente, di fronte a quesiti del genere nessuno può pretendere di disporre di risposte semplici o immediate, e nessuno ne è più consapevole di Gadamer, il quale infatti, se chiamato ad esprimersi su questo argomento, si limita semplicemente a rimandare alle «straordinarie forze emozionali» che possono aiutare a «tenere in ordine il mondo, come per esempio l’angoscia, la paura»102. «Finora nient’altro ci ha garantito la pace», afferma infatti il filosofo di Verità e metodo, «se non il fatto che entrambe le potenze [U.S.A. e U.R.S.S.] hanno avuto paura l’una dell’altra», e che ciò pertanto ha condotto a una «limitazione nell’uso dei mezzi di autodistruzione»103.

Tuttavia, come ben sappiamo, con la fine della guerra fredda si è assistito (e tuttora si assiste) ad un profondo, incessante e per certi versi imprevedibile mutamento degli equilibri geopolitici, e paradossalmente si può forse dire che la fine della netta contrapposizione tra due grandi blocchi ideologici dotati di una spaventosa potenza

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A conferma dell’importanza di questo tema in Gadamer, basti ricordare non soltanto le numerose occasioni in cui esso ritorna nei suoi scritti, ma anche la seguente ammissione dello stesso filosofo tedesco, il quale dichiara di avere «costantemente dinanzi agli occhi questo sconcertante processo» che, «se […] dovesse compiersi», condurrebbe «la storia del mondo […] alla sua fine» (Che cosa rimane?

Intervista a Hans-Georg Gadamer, cit., p. 52, corsivo mio). 102

Gespräch mit Hans-Georg Gadamer, in «Sinn und Form», 43/3, 1991, p. 492.

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Ibid. Ovviamente, aggiunge Gadamer subito dopo, «la paura non rappresenta di per sé una soluzione per tutti questi problemi, però rappresenta un presupposto fondamentale (eine Grundvoraussetzung)» perché ci si sforzi di trovare una soluzione: obbedendo alla paura «c’è forse una possibilità di impedire il suicidio collettivo dell’umanità (den kollektiven Selbstmord der Menschheit)» (Ivi, pp. 495-496).

bellica abbia lasciato il posto ad una situazione per certi versi persino più pericolosa, perché priva di qualsivoglia “ordine” a livello internazionale104. Per dirla con Clifford Geertz, cioè, «al “mondo in blocchi contrapposti” con il quale, nel bene e nel male, eravamo abituati a confrontarci, si è sostituito un “mondo in frammenti” [che] pare sicuramente caratterizzato da un’idea più pluralistica dei rapporti fra i popoli», ma la cui «forma resta per lo più vaga, come del resto vaghi, irregolari e pericolosamente deresponsabilizzati […] paiono essere i rapporti che i diversi “frammenti” hanno instaurato fra loro»: in questo senso, «ovunque si volga lo sguardo pare giustificata l’impressione […] di avere a che fare con “schegge impazzite” o comunque di disordine generalizzato», e «non possono non destare preoccupazioni i recenti e violenti conflitti nazionalistici [ed] “il moltiplicarsi degli aspiranti all’egemonia su base regionale”, causata dalla dispersione degli arsenali nucleari»105.

Nel mutato scacchiere politico internazionale, infatti, non è affatto detto che ci si possa ancora attenere alla flebile garanzia rappresentata dalla paura reciproca degli avversari, e negli ultimi anni della sua vita anche Gadamer sembra esserne reso conto, giungendo così a domandarsi con evidente preoccupazione: «come possiamo prevedere che non verrà un altro pazzo [come Hitler]?»106. A suo giudizio, «in una situazione mondiale [così] compromessa», in cui non solo «le potenze altamente industrializzate

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Come è stato giustamente notato, il fatto che «l’equilibrio del terrore mantenuto dalle due superpotenze nucleari [abbia] perso la sua ragion d’essere» ha implicato ovviamente «cambiamenti […] positivi e promettenti» ma anche «cambiamenti più inquietanti, […] nuove inquietudini e insicurezze. […] Il mondo dominato dalle due superpotenze e da un tale dominio costretto allo stallo ha lasciato il posto a un mondo controllato da un solo paese», e ciò «ha liberato i demoni nuovi o in passato represse del separatismo e del nazionalismo, e nuovi conflitti etnici e razziali, […] nuove disuguaglianze e nuovi rancori». Così, «agli occhi di molti osservatori ciò che ha preso il posto del vecchio mondo non è un nuovo sistema armonioso di stati liberali, ma un “nuovo disordine mondiale”» (K. Kumar, Le nuove

teorie del mondo contemporaneo, cit., p. 272). 105

A. Pirni, Filosofia pratica e sfera pubblica, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 84-85. Il riferimento è soprattutto al saggio di Clifford Geertz, Eine Welt in Stücken , in cui si legge: «il mondo in cui abbiamo vissuto dopo Teheran e Postdam, anzi dopo Sedan e Port Arthur – un mondo di potenza compatte e di blocchi rivali, di formazione e costituzione di nuove marcoalleanze – non esiste più. […] Un modello assai più pluralistico dei rapporti tra i popoli del globo sta per nascere, ma la sua forma resta vaga e irregolare, frammentata e pericolosamente indistinta»: quello che affiora, insomma, non è l’«immagine di un nuovo ordine del mondo» ma, al contrario, una diffusa «sensazione di dispersione e di particolarismo, di complessità e di mancanza di un centro» (C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica

alla fine del ventesimo secolo, il Mulino, Bologna 1999, pp. 14-15). 106

dispongono di un arsenale di bombe atomiche [ma] probabilmente anche paesi come l’Iran», forse sarà necessario sfiorare la catastrofe di un conflitto atomico affinché si raggiunga un nuovo equilibro: «l’intesa si realizzerà attraverso l’intimidazione»107. Quindi, Gadamer prosegue con l’affermazione a dir poco sorprendente (se non proprio sconcertante) secondo cui «non c’è una fabbrica atomica che non possa essere facilmente distrutta da un aereo [ed] è auspicabile che un giorno un folle riesca a farlo, senza per questo incendiare il mondo; allora crederò perfino al governo del mondo», spiega Gadamer, «prima no. […] Di fatto non siamo molto lontani da una cosa simile, […] questo me lo aspetto davvero forse già nel secolo a venire»108! «Che qualcuno cominci», si legge in un’intervista di qualche anno più tardi, «sia questo Hussein o qualche altro, è forse inevitabile. Se questo succederà, allora dovremo imparare la lezione, e forse si potrà arrivare con successo a un’organizzazione che controlli effettivamente il background tecnologico e industriale della produzione di armi chimiche» (UD, 144-145).