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Razionalità ed irrazionalità della modernità: alcune interpretazioni.

Un (modesto) tentativo di “correzione” del cammino della modernità.

3.1. Razionalità ed irrazionalità della modernità: alcune interpretazioni.

Come ho già cercato di accennare in precedenza, con la sua diagnosi critica sul disagio della modernità Gadamer viene ad inserirsi in un’importante linea teorica che ha attraversato l’intera filosofia del Novecento, impegnando lungamente e duramente le energie di alcuni tra i maggiori pensatori contemporanei. Mi riferisco cioè a quello che è stato giustamente definito un vero e proprio «punto di vista comune [del] pensiero continentale», consistente nell’interpretazione dell’«attitudine calcolante, strumentale [e] classificatoria» che caratterizzerebbe la filosofia e la scienza moderna come un autentica «minaccia […] per quella […] razionalità non strumentale ma estetica, etica, religiosa, esistenziale, che è alla base delle manifestazioni non scientifiche della cultura umana»160.

Ora, in primo luogo, mi sembra assolutamente indubbia – e, per certi versi, anche decisamente scontata – la convergenza tra il discorso critico sulla modernità di Gadamer e quello del suo maestro Heidegger, il quale com’è noto individua proprio nel «pensiero meramente calcolante (bloss rechnendes Denken)» votato all’«assicurazione calcolabile degli oggetti (berechenbare Sicherstellung der Gegenstände)»161 la forma di razionalità tipica del mondo moderno. Un mondo che, a giudizio del filosofo di Meßkirch, risulta ormai pressoché «completamente dominato dalla volontà di sapere della scienza moderna», la quale si inserisce «in modo sempre più decisivo […] in tutte le forme di organizzazione della vita [ed] è sul punto di estendere [la sua] potenza su tutto il globo terrestre»162. Ma ritengo anche si possa dire che il semplice uso, da parte di Gadamer, della categoria della Zweckrationalität, lo ponga in qualche in modo nelle vicinanze

160

F. D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Cortina, Milano 1997, p. 32.

161

M. Heidegger, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, pp. 204-205.

162

dell’analisi della modernità proposta da Max Weber. Com’è noto, infatti, in Wirtschaft

und Gesellschaft questi propone «una tipologia generalissima […] secondo cui […]

ogni azione può essere ricondotta principalmente all’uno o all’altro di quattro tipi ideali: […] azione tradizionale / affettiva / razionale rispetto al valore / strumentalmente razionale»163. Quindi, nella Vorbemerkung al primo volume dei Gesammelte Aufsätze

zur Religionssoziologie, egli evidenzia come proprio quest’ultimo tipo di agire razionale

sia alla base «della razionalizzazione come processo dominante dell’età moderna» e costituisca addirittura la vera e propria «vocazione dell’Occidente»164. Secondo Weber, cioè, la «razionalizzazione intellettualistica a opera della scienza e della tecnica» rappresenta «la frazione più importante» del moderno «processo di intellettualizzazione [e] disincantamento del mondo», fondato sull’idea di «dominare […] tutte le cose mediante un calcolo razionale»165 e destinato a sfociare nella formazione di sistemi burocratici nell’ambito di ogni tipo di organizzazione.

Ora, può risultare interessante come una certa prossimità con queste tesi sia stata ammessa dallo stesso Gadamer (seppure soltanto attraverso alcuni sporadici accenni), il quale infatti ha apertamente riconosciuto al sociologo di Erfurt non soltanto il merito di aver «preconizzato già all’inizio del [XX] secolo il destino del progressivo disincanto del mondo come destino della crescente burocratizzazione (wachsende

Bürokratisierung)» (LT, 115 / ET, 87), ma anche la capacità di aver esercitato una

straordinaria influenza sugli sviluppi successivi della filosofia novecentesca, dal momento che «in ultima analisi» – come afferma Silvio Vietta nei suoi colloqui con

163

G. Poggi, Incontro con Max Weber, il Mulino, Bologna 2004, pp. 61-62.

164

Ivi, p. 92. Nella suddetta Vorbemerkung, si legge infatti: «proprio qui, in terra d’Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali – almeno come ci piace raffigurarceli – si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali. […] Solo in Occidente, […] lo sviluppo scientifico [e] quello artistico, […] quello politico [e] quello economico […] hanno imboccato […] una forma specifica di razionalizzazione» che si caratterizza per un rapporto imperioso con la realtà e per una tenenza all’estensione universale (M. Weber, Sociologia delle religioni, Utet, Torino 1976, vol. 1, pp. 89- 101). Secondo Weber, pertanto, «quello che è peculiare all’Occidente è un certo tipo di razionalità caratterizzato dall’intento di […] controllare, manipolare, modificare [e] asservire la realtà, […] e di rendere per quanto possibile prevedibili e calcolabili i risultati dell’agire»: un «tipo di razionalità» che, a suo giudizio, «è [il] più incline […] a ispirare un progetto di razionalizzazione», ossia una «tendenza a privilegiare sistematicamente, in tutti gli aspetti della società e della cultura, modalità di pensiero e di azione di carattere razionale» (G. Poggi, Incontro con Max Weber, cit., pp. 65, 92-93).

165

M. Weber, La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano 2006, pp. 19-21.

Gadamer, ricevendo l’approvazione del filosofo tedesco – «l’intera critica della ragione e della razionalità (Vernunft- und Rationalitätskritik) del XX secolo risulta orientata sul concetto weberiano di razionalità» (IG, 49 / AC, 45)166. In effetti, si può dire che Weber rappresenti per certi versi il punto di partenza obbligato per una breve ricognizione su questi temi, dal momento che proprio partendo dalle sue analisi «molti autori», in seguito, hanno proposto «una generale lettura della modernità, filtrata attraverso le lenti del concetto di “razionalità rispetto allo scopo” [o] “razionalità strumentale”», che ha finito col trasformare «modernità e razionalità strumentale [in] un tutt’uno»167. Ossia, col «far coincidere la modernità con lo sviluppo […] onnicomprensivo di una modalità di azione e di organizzazione istituzionale coincidente con [tale] razionalità, […] al punto che ogni male della modernità» è stato ricondotto in ultima analisi alla «razionalità strumentale e [alla] logica di dominio a essa connessa»168.

166

A questo proposito, può risultate interessante anche notare come Gadamer dichiari talvolta che, «prima dell’incontro con Heidegger, la figura principale della [sua] giovinezza fu [proprio] Max Weber», la cui «sociologia avalutativa […] rappresentava una sorta di fanatismo scientifico» e costituì «la grande provocazione sotto la quale [egli] intrapres[e] i [suoi] primi passi» (Interview with Hans-Georg Gadamer, in «Theory, Culture & Society», cit., p. 31). Inoltre, in altre occasioni Gadamer riconosce insieme al suo interlocutore come la stessa «critica del pensiero calcolante (Kritik des rechnenden Denkens)» avanzata da Heidegger vada per certi versi «in una direzione simile alla rappresentazione della razionalità occidentale proposta da Weber» (IG, 49 / AC, 44). Sulle eventuali, possibili affinità riscontrabili tra Heidegger e Weber sul problema del destino della moderità, si veda anche R. Safranski, Heidegger e il

suo tempo, TEA, Milano 2001, secondo il quale il famoso saggio Die Zeit des Weltbildes, «riprendendo e

rovesciando i pensieri di Max Weber sul mondo disincantato dei moderni», avrebbe invece dischiuso lo spazio per la discussione sul «nostro “incanto” determinato dal mondo della tecnica» (Ivi, p. 359).

167

A. Ferrara – M. Rosati, Affreschi della modernità, cit., pp. 150-151.

168

Ibid. Chiaramente, spesso tali ricostruzioni della modernità incentrate sul pervasivo predominio della razionalità strumentale risultano permeate da un forte pessimismo, talvolta sfociante in vero e proprio fatalismo. Infatti, come ha notato Marshall Barman (per la verità, in maniera decisamente polemica) «i critici della modernità del ventesimo secolo [hanno] compreso i modi in cui la tecnologia e l’organizzazione sociale moderne [determinano] il destino dell’uomo, ma» rispetto alle «grandi menti critiche del diciannovesimo secolo» hanno smarrito la fiducia nella «capacità [degli] individui moderni […] di rendersi conto di questo destino [e] una volta riusciti in ciò di combatterlo». Si è assistito così ad «una serie angosciosa e pressoché infinita di variazioni sugli argomenti weberiani della gabbia d’acciaio», a cominciare dagli «atteggiamenti intellettuali di Ortega, Spengler, Maurras, T. S. Eliot e Allen Tate», passando per «il modello “a una dimensione”» dei Francofortesi i quali «proclamava[no] che non era possibile alcun cambiamento», sino ad arrivare alle «tecnologie moderne di potere» descritte da Foucault, il quale «intesse una ragnatela, una gabbia d’acciaio molto più resistente di qualsiasi materiale Weber possa mai aver immaginato, in cui nessuna forma di vita può penetrare, [in cui] la libertà non esiste [e]

In particolare, questo tipo di discorso è stato ripreso e portato avanti «dal pensiero della Scuola di Francoforte, che conosceva […] la sua massima affermazione [negli] stessi anni» in cui veniva pubblicato Verità e metodo, e la cui posizione riguardo alla «crescente affermazione della scienza» basata sulla matematizzazione del mondo e sul predominio della razionalità strumentale è stata giustamente riconosciuta come «non lontana da quella dell’Husserl della Crisi delle scienze europee o [da quella] di Gadamer»169. Particolarmente vicino al filosofo di Marburgo, in questo senso, mi sembra il discorso condotto da Max Horkheimer in Eclipse of Reason, il cui «intento è quello di esaminare il concetto di razionalità che sta alla base della contemporanea cultura industriale» e di evidenziare il «profondo mutamento avvenuto negli ultimi secoli nel pensiero occidentale» con la riduzione della razionalità a mera «ragione soggettiva [in quanto] capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine»170. Secondo Horkheimer, soprattutto, «il fatto che la ragione [venga] ridotta a puro strumento» comporta inevitabilmente una sua «umiliazione [e] neutralizzazione»: anzi, finisce col «distruggere la sostanza stessa della ragione» e col condurre ad una «situazione di razionalità irrazionale»171 che, a suo giudizio, caratterizzerebbe proprio la nostra epoca.

Si tratta di una diagnosi critica molto nota e molto importante, la quale presenta non poche affinità – ma anche non poche differenze, soprattutto per quanto riguarda il pessimismo radicale che anima gli studi dei Francofortesi – con quella di Gadamer, secondo il quale parimenti si assiste oggi ad «una svalutazione del concetto stesso di ragione (eine Abwertung des Begriffs von Vernunft selber)», ridotta ormai alla «capacità di trovare i mezzi adatti al raggiungimento di scopi dati (Findung der rechten Mittel zu

gegebenen Zwecken) la cui ragionevolezza non viene neppure dimostrata» (GW 8, 167,

SE, 83). Così, alla fine, «la razionalità del moderno apparato di civilizzazione» finisce col configurarsi «nel suo nucleo ultimo [come] una razionale irrazionalità (eine

rationale Unvernunft), [come] una sorta di rivolta dei mezzi contro il predominio dei

fini» (GW 8, 167 / SE, 83). E del resto, come ho già avuto modo di ricordare, in alcune occasioni lo stesso Gadamer accenna chiaramente all’esistenza di un’affinità tra i temi

ogni forma di intervento critico suona a vuoto perché il critico e la critica stessi sono […] “un ingranaggio [della] macchina panoptica”» (M. Berman, L’esperienza della modernità, cit., pp. 40-47).

169

C. Gentili, Ermeneutica e metodica, Marietti, Genova 1996, p. 34.

170

M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 2000, pp. 9- 13.

171

della «tensione tra “verità e metodo” e [della] “perdita della ragione” (Eclipse of

reason) […] in un’epoca in cui la scienza esercita sempre di più il dominio sulla natura

e l’amministrazione della vita comune dell’uomo (Verwaltung des menschlichen

Zusammenlebens), […] sviluppando la potenza di un autentico accecamento (die Macht einer echten Verblendung)» (GW 2, 251).

Si tratta inoltre di una diagnosi critica che, nei decenni successivi, è stata ripresa ed approfondita da altri pensatori, talvolta passando anche attraverso una parziale revisione o una vera e propria “radicalizzazione” delle tesi originarie. Basti pensare, per esempio, a certi momenti dell’opera di Michel Foucault in cui forse è possibile scorgere una qualche forma di “filiazione” – seppure probabilmente inconsapevole, e comunque intrecciata all’apporto proveniente da esperienze e motivi di pensiero differenti – dal discorso francofortese sul problematico rapporto tra modernità e razionalità. Nel senso che anch’egli dedica minuziose e approfondite analisi al «volto “feroce” della modernità, [alla] specificità delle sue tecniche di dominio» ed alla sua «razionalità […] improntata a un principio produttivistico ed efficientistico»: un’analisi «che coincide in larga misura con l’idea francofortese della razionalità strumentale» ed approda infine al ritratto di una «società disciplinare» che, in linea estremamente generale, può anche essere interpretata come una “evoluzione” della «weberiana gabbia d’acciao e [della] società totalmente amministrata di Adorno e Horkheimer»172.

172

A. Ferrara – M. Rosati, Affreschi della modernità, cit., pp. 159-161. Com’è noto, è principalmente negli «scritti foucaultiani degli anni Settanta» – ad esempio Surveiller et punir e La Volonté de savoir – che «il riferimento al potere, o meglio alle relazioni di potere, [diventa] costante» e va a sfociare nella descrizione del costituirsi, «tra XVIII e XIX secolo», di «una società perfettamente organizzata, attraversata cioè in ogni sua parte da quell’istanza di normalizzazone che caratterizza il potere-sapere moderno.» (S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 87-106). In breve, secondo Foucault «nelle società moderne […] il nesso potere-sapere attraversa l’intera gamma delle relazioni sociali, […] il potere è sparso dappertutto [ed] è immanente a ogni altra forma di relazione sociale»: si diffondono «livelli di verità e metodi di verifica strettamente imparentati con la conoscenza scientifica, […] discipline tendenti al controllo minuzioso della vita degli individui [e] ad un processo di assoggettamento costante [che] tende a standardizzare la singolarità all’interno di un sistema di uguaglianze formali» (Ivi, pp. 90-101). «Il regime disciplinare» che ne risulta «comporta così la diffusione generalizzata di un principio di sorveglianza […] che investe la costituzione dell’individuo e prende in carico tutta l’organizzazione della sua vita», e quel che viene a costituirsi è dunque una vera e propria «nuova anatomia politica», fondata su un «funzionamento [che] si rende anonimo e automatico [e] viene a diffondersi ovunque nell’organizzazione sociale», rendendo estremamente problematica la ricerca di spazi “liberi” per l’emancipazione (Ivi, pp. 102-108).

Da ultimo, si può dire che la «linea di pensiero che passa per Max Weber e per la Scuola di Francoforte» metta capo alla monumentale Theorie des kommunikativen

Handelns (1981) di Jürgen Habermas, «continuatore critico [di tale] linea di pensiero»,

il quale ha parimenti giudicato «inseparabile […] l’analisi della modernità, delle sue patologie e dei suoi fattori di crisi […] da quella della razionalità e della razionalizzazione», ma ha altresì ritenuto di poter individuare un «deficit [nelle] teorie della modernità sviluppate tanto da Max Weber quanto da Horkheimer e Adorno» dovuto al «fatto che a esse [mancherebbe] un concetto sufficientemente differenziato e articolato della razionalità»173. Per Habermas, infatti, se è vero che «la crisi del progetto moderno nasce perché […] lo sviluppo della razionalità sistemica finisce per compiersi a spese di quello della razionalità comunicativa», ciò nondimeno «la razionalità tecnico- scientifica [o] sistemica non può essere negata astrattamente o subita pessimisticamente, [bensì] dev’essere piuttosto riconosciuta nella sua legittimità [e] circoscritta all’ambito che le è legittimo»: sotto questo punto di vista, pertanto, «l’interpretazione che Habermas delinea delle patologie della modernità […] si colloca in uno stretto rapporto, [sia] di continuità [che] di frattura, con la lettura weberiana e con quella primo- francofortese della modernità»174.