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l’intuizione fondamentale di Gadamer.

2.1. I tratti fondamentali dell’esperienza ermeneutica.

Ora, il punto di partenza obbligato per una tale riflessione è sicuramente rappresentato dal paragrafo sul Concetto di esperienza e l’essenza dell’esperienza

ermeneutica posto alla fine della seconda parte di Verità e metodo, nel quale il filosofo

276

Ovviamente, una tale operazione non ha mancato di suscitare dubbi e perplessità, e così – ad esempio – ci si è chiesti se «l’universalità» che Gadamer ha sempre rivendicato alla propria «concezione ermeneutica dell’esperienza e della comprensione [risulti] compatibile con l’eterogeneità dei suoi oggetti» (D. Weberman, Is Hermeneutics Really Universal despite the Heterogeneity of its Objects?, in M. Wischke – M. Hofer (a cura di), Gadamer verstehen / Understanding Gadamer, cit., p. 35). Ad ogni modo, quel che mi sembra importante sottolineare è il fatto che il carattere universale della riflessione ermeneutica non vada affatto scambiato con un suo presunto carattere assoluto (il quale, date le premesse fondamentali del discorso gadameriano circa la finitezza del comprendere umano, risulta assolutamente inconcepibile). Universalità ed assolutezza, cioè, sono due cose ben distinte e separate. Come ha giustamente notato Rüdiger Bubner, «il carattere universalistico dell’ermeneutica, che si potrebbe definire la sua tendenza alla intergrazione totale, [rappresenta] l’esatto contrario di una rinnovata pretesa di

assolutezza della filosofia. L’universo del senso non costituisce assolutamente il campo autentico della

filosofia, ma limita piuttosto radicalmente la sua presunta autonomia» (R. Bubner, «La filosofia è il

proprio tempo, appreso col pensiero», in AA.VV., Ermeneutica e critica dell’ideologia, cit., p. 233). 277

F. Bianco, Pensare l’interpretazione. Temi e figure dell’ermeneutica contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 110.

tedesco cerca di chiarire «la struttura generale dell’esperienza (die allgemeine Struktur

der Erfahrung)» e, in particolare, dell’«esperienza ermeneutica (hermeneutische Erfahrung)». Qui Gadamer esordisce con la brusca affermazione secondo cui «il

concetto di esperienza – per quanto ciò possa suonare paradossale – [è] da annoverare tra i meno chiari che possediamo» (GW 1, 352 / VM, 715). Anzi, ribadisce Gadamer oltre trent’anni dopo in un’intervista, «il concetto di esperienza è davvero quello meno conosciuto di tutta la nostra filosofia, e questo […] perché essa innalza a paradigma le cosiddette scienze empiriche che prendono le mosse dall’esperimento (die sogenannten

Erfahrungswissenschaften im Ausgang von Experiment) [e] lasciano il posto solo a

un’esperienza in cui si ottengono risposte “metodologicamente” garantite alle domande. Ma la nostra vita nel suo complesso non è così» (HÄP, 32 / DCG, 34). In altre parole, il fenomeno che Gadamer ravvisa in età moderna è quello di un “appiattimento” del concetto di «esperienza» su quello di «esperimento», con l’assunzione «unilaterale [ed] esclusiva del criterio teleologico della conoscenza» e la conseguente «esclusione critica [dei] momenti dell’esperienza concreta che non sono teleologicamente ordinati allo scopo della scienza» (GW 1, 355 / VM, 721). Momenti che, per contro, egli intende assolutamente recuperare. «Noi siamo di certo oltremodo coscienti dei privilegi della dimostrazione assicurata logicamente della scienza» – precisa Gadamer nel saggio

Hermeneutik auf der Spur – «ma noi conosciamo anche […] altre esperienze rispetto a

quella della scienza (andere Erfahrungen als die der Wissenschaft) [e] a tutto ciò va lasciato il suo diritto» (GW 10, 172 / ERM, 337)278.

278

Bisogna dire che l’insoddisfazione per il moderno «concetto di esperienza […] chiaramente dominato dall’empirismo e dalla teoria della scienza» e la ricerca di «un concetto di esperienza più comprensivo e dotato di un’applicazione più ampia (ein weiter gefasster und umgreifend ansetzender

Erfahrungsbegriff)» non rappresentano una peculiarità del pensiero gadameriano, bensì piuttosto una

caratteristica di buona parte della filosofia del Novecento, tanto che a questo proposito si è persino parlato di una vera e propria «fame di esperienza (Erfahrungshunger)» diffusasi nel pensiero contemporaneo, in particolare «dalla fine degli anni Sessanta» (J. Früchtl, Ästhetische Erfahrung und moralisches Urteil.

Eine Rehabilitierung, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1996, pp. 33-35). Volendo citare degli esempi di

ripensamento del concetto di esperienza in qualche modo vicini a Gadamer, si potrebbero menzionare ancora una volta i nomi di Heidegger – il quale «contrappone infatti all’Erlebnis [o] “esperienza vissuta” […] il termine Erfahrung» per sottolineare che «la vera esperienza è apertura a (e incontro con) un’alterità che […] ci trasforma» e, quindi, «una sorta di viaggio», come indicato dal «fahren, cioè “andare”, “viaggiare” [che] risuona in erfahren» (L. Amoroso, Arte, poesia e linguaggio, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, cit., pp. 204-205) – e Adorno – il quale muove parimenti una dura critica all’«affermazione [moderna] di un modello angusto di conoscenza scientifica cui dovrebbe sottostare

Secondo il procedimento di ricostruzione storico-concettuale che gli è consono, Gadamer ripercorre allora «la storia [del] concetto di esperienza», osservando «come col sorgere dell’età moderna “esperienza” non ha più il significato del greco empeiria» ma si trasforma nella «pratica dell’experimentum», nell’«ordine che risulta dall’experimentum effettuato all’interno di un progetto guidato da un metodo. […] La nozione di esperienza ermeneutica si indirizza [dunque] contro questa concezione oggettivante dell’esperienza» e presta «attenzione non tanto alle esperienze che ciascuno “ha”, quanto alle esperienze che ciascuno “fa” coinvolgendo se stesso»279. Una volta chiarito «il fatto che l’esperienza non [è] solamente l’esperienza delle scienze sperimentali (die Erfahrung der Erfahrungswissenschaften)» (GW 10, 360 / ERM, 709), che per «comprendere l’esperienza adeguatamente bisogna liberarsi da un astratto ideale costruttivo (von einem abstrakten Konstruktionsideal)» (ÜVG, 169 / DNS, 143), e che «è necessario pensare il concetto di esperienza in maniera più ampia» (GW 1, 103 / VM, 219) rispetto al modo in cui essa è stata concepita in epoca moderna: una volta chiarito ciò, nel prosieguo del succitato paragrafo di Verità e metodo Gadamer passa quindi in rassegna alcuni caratteri fondamentali dell’esperienza intesa in senso ermeneutico ed extrametodico.

In primo luogo, facendo riferimento agli Analitici secondi – e, in particolare, all’«immagine aristotelica dell’esercito in fuga» quale metafora del costituirsi dell’«universalità dell’esperienza» a partire dalle «singole […] molteplici osservazioni che un osservatore fa» – Gadamer mette in evidenza «la peculiare apertura (eigentümliche Offenheit) che caratterizza l’acquisizione dell’esperienza, che si verifica

l’intera conoscenza» e di un «concetto di esperienza limitata […] che vincola l’esperienza stessa e la sua variabilità all’invarianza di una filosofia scientista che stabilisce già a priori ciò che dovrà conoscere» (A. Cicatello, Dialettica negativa e logica della parvenza. Saggio su Theodor W. Adorno, il Melangolo, Genova 2001, pp. 80-81). Nell’ambito di una tradizione piuttosto diversa come quella del pragmatismo americano – soprattutto per quanto riguarda il rapporto con «le scienze di successo» che, secondo molti pragmatisti, «la filosofia [dovrebbe] imitare […] piuttosto che criticarle» – si può segnalare il significativo tentativo operato da «John Dewey [che] spese gran parte della sua carriera filosofica a formulare e rifinire […] un concetto di esperienza assai diverso da quello ricevuto in eredità dalla tradizione filosofica» e, in particolare, dalla «tradizione cartesiana (compresi gli empiristi britannici)»: un nuovo concetto di esperienza inteso, in estrema sintesi, «come uno dei tre tipi possibili di transizioni

naturali (azioni che accadono naturalmente in cui i componenti e gli elementi implicati condizionano e

insieme sono condizionati dal coordinamento complessivo delle medesime)» (J. P. Murphy, Il

pragmatismo, il Mulino, Bologna 1997, pp. 97-99). 279

in occasioni diverse, improvvisamente, in modo imprevedibile»: cioè, «l’accadere dell’esperienza come un evento su cui nessuno ha potere (das Zustandekommen der

Erfahrung als ein Geschehen, dessen niemand Herr ist), […] ma in cui tutto si ordina

insieme in una maniera che sfugge alla comprensione» (GW 1, 357-358 / VM, 725- 727). In secondo luogo, poi, facendo riferimento alla Fenomenologia dello spirito – e traendo anche spunto dall’originale lettura fornitane da Heidegger nel saggio Hegels

Begriff der Erfahrung – Gadamer sottolinea «la negatività dell’esperienza (die Negativität der Erfahrung)», ossia il fatto che «l’esperienza autentica [sia] sempre

un’esperienza negativa [in cui] ci si accorge che le cose non sono come credevamo, […] un movimento dialettico» caratterizzato dalla «struttura di un rovesciamento della coscienza (Struktur eine Umkehrung des Bewußtseins)» (GW 1, 359-360 / VM, 729- 731). In terzo luogo, infine, facendo riferimento al Prometeo incatenato di Eschilo e alla sua nota formula «imparare attraverso la sofferenza (pathei-mathos)», Gadamer pone in luce «un terzo momento costitutivo dell’esperienza» rappresentato dalla sua «intima storicità (innere Geschichtlichkeit)» e, soprattutto, dalla sua dolorosità. Ovvero, il fatto che «l’esperienza come tale nel suo insieme non è qualcosa a cui qualcuno possa sottrarsi [ma] qualcosa che appartiene all’essenza storica dell’uomo, [che] comporta necessariamente una molteplicità di delusioni e solo attraverso queste può essere acquistata», insomma qualcosa che pone l’uomo di fronte ai «limiti di ogni previsione e [alla] insicurezza di ogni progetto», rendendolo così «cosciente della propria finitezza (Endlichkeit)» (GW 1, 362-363 / VM, 735-737)280.

280

In realtà, riguardo all’apporto di Aristotele e Hegel alla «teoria dell’esperienza ermeneutica», bisogna dire che Gadamer – pur traendo indubbiamente spunto da loro per evidenziare alcune caratteristiche dell’esperienza che la rendono irriducibile al moderno punto di vista metodologico-scientifico – mette in luce anche alcuni motivi di profonda distanza tra la sua concezione e quella di questi grandi pensatori. Così, ad esempio, egli rimprovera allo Stagirita di aver considerato l’esperienza «in base a presupposti semplificativi [e] solo in vista del suo risultato», cioè «solo in riferimento alla […] vera universalità del concetto e [alla] possibilità della scienza», finendo così inevitabilmente col non render adeguatamente giustizia alla sua inesausta processualità e «negatività» (GW 1, 358-359 / VM, 727-729). Per quanto riguarda Hegel, poi, il rimprovero di Gadamer riguarda il fatto di aver «pensato in anticipo […] l’essenza dell’esperienza […] sul modello di un momento in cui l’esperienza è superata», ovvero sul modello del «superamento di ogni esperienza […] che si attua in modo definitivo nel sapere assoluto, [nella] “scienza”, [nella] certezza di sé nel sapere, […] nell’assoluta autocoscienza della filosofia» (GW 1, 361 / VM, 733). Ma «la dialettica dell’esperienza (die Dialektik der Erfahrung)» – chiarisce Gadamer – trova «il suo compimento […] in quell’apertura all’esperienza (Offenheit für Erfahrung) che è prodotta

Riassumendo, si può convenire che «il risultato di questa prima parte del capitolo [sia] considerevole: Gadamer ha confutato il modello induttivo dell’esperienza, sottoposto a revisione quello dialettico e imboccato una strada autonoma» che mette capo al riconoscimento dell’«intima storicità dell’esperienza [che] si articola in tre caratteristiche fondamentali: incontrollabilità, negatività e finitezza»281. A questo punto, quindi, egli passa ad analizzare «l’esperienza ermeneutica» e ci dice che essa rappresenta «una forma autentica dell’esperienza (eine echte Erfahrungsform)», la quale fondamentalmente «ha a che fare con la tradizione (Überlieferung)» e la cui «modalità più elevata (höchste Weise)» è costituita «dalla coscienza della determinazione storica (wirkungsgeschichtliches Bewußtsein)» (GW 1, 363-367 / VM, 737-745). Ora, ciò che colpisce immediatamente in questo discorso è la brusca “limitazione” che Gadamer sembra imprimere al senso ed alla portata dell’esperienza ermeneutica, nel momento in cui la vincola inesorabilmente al procedere delle scienze dello spirito e al rapporto con i testi tramandati.

Tuttavia, se effettivamente in questo punto l’«ermeneutica universale (universale

Hermeneutik)» di Gadamer – la quale, come abbiamo già detto, mira ad abbracciare

«tutto l’insieme del rapporto dell’uomo col mondo (das allgemeine Weltverhältnis des

Menschen)» – sembra improvvisamente “retrocedere” verso un’ermeneutica rivolta alle

sole Geisteswissenschaften, bisogna anche dire che l’analisi condotta subito dopo, nel medesimo capitolo di Verità e metodo, a proposito delle tre possibilità di rapporto con la tradizione (oggettivismo storico, coscienza storica e coscienza della determinazione storica) si fonda per intero sull’analogia con tre modalità di dialogo con l’altro o «esperienza del tu (Erfahrung des Du)» (GW 1, 364, 480 / VM, 739, 969). Ciò, evidentemente, prelude al discorso svolto da Gadamer nei capitoli immediatamente successivi sull’«originario movimento del dialogo (ursprüngliche Bewegung des

Gesprächs)» quale autentico «fenomeno ermeneutico», e consente di ricomprendere

l’esperienza ermeneutica che «ha a che fare con la tradizione» all’interno dell’orizzonte più ampio dell’esperienza linguistico-dialogica.

Subito dopo, allora, Gadamer passa ad esaminare i fenomeni del «primato ermeneutico della domanda» e della «logica di domanda e risposta», i quali – oltre a

dall’esperienza stessa», per cui se ne deve concludere che anche Hegel «non rende giustizia alla coscienza ermeneutica» (GW 1, 361 / VM, 733).

281

G. Bonanni, Che cos’è un’esperienza ermeneutica?, in M. Gardini – G. Matteucci (a cura di),

chiarire quale modello di comprensione storico-testuale abbia in mente il filosofo tedesco – immettono direttamente nel tema del «linguaggio come mezzo dell’esperienza ermeneutica (Sprache als Medium der hermeneutischen Erfahrung)». Ed il «processo [della] fusione di orizzonti (Horizontverschmelzung)» – che in precedenza, nella seconda sezione di Verità e metodo, era stato introdotto come «compito della coscienza della determinazione storica» – viene adesso riconosciuto come «la forma propria del

dialogo, nel quale viene ad espressione un “oggetto” che non è mio o dell’autore, ma

qualcosa di comune che ci unisce (eine gemeinsame Sache)» (GW 1, 312, 392 / VM, 635, 793)282. Così, il discorso gadameriano sull’esperienza – dopo la chiarificazione dei suoi tratti di apertura illimitata e incontrollabile, negatività e dialetticità, storicità e finitezza – sembra trovare il suo “culmine” nella terza parte di Verità e metodo, con il riconoscimento della «linguisticità dell’esperienza che l’uomo ha del mondo (Sprachlichkeit der menschlichen Welterfahrung)» (GW 1, 472 / VM, 953), della «originaria dialogicità (ursprüngliche Dialogik) dell’umano stare al mondo» (GW 2, 505 / VM 2, 490)283.

Per illustrare la propria concezione dell’esperienza pre- ed extra-scientifica, Gadamer ricorre anche al modello del gioco. Com’è noto, tale modello viene

282

A questo proposito, può risultare interessante segnalare una modifica apportata da Gadamer al testo. Come ha notato Donatella Di Cesare, infatti, se il testo originale di Verità e metodo parlava effettivamente di un «compito (Aufgabe)» del wirkungsgeschichtliches Bewußtsein, «nell’ultima edizione rivista di Verità e metodo, quella del 1986, […] questa parola che si presta a numerosi fraintendimenti – e spinge molti a parlare erroneamente di un “compito del comprendere”, come se per l’ermeneutica il comprendere fosse un esercizio metodologico o un dovere morale – viene sostituita con la parola “veglia”, “vigilanza”, Wachheit», per cui si può dire che «essere vigile è il modo che l’ermeneutica filosofica sceglie per dire essere cosciente» (D. Di Cesare, Gadamer, cit., p. 133).

283

Lo stesso Gadamer, in una nota aggiunta successivamente al testo di Verità e metodo, chiarisce che la “restrizione” imposta al concetto di esperienza ermeneutica col limitarla alla «situazione particolare delle scienze dello spirito» è da superare proprio mediante «l’allargamento al linguaggio e al dialogo (Ausweitung auf Sprache und Gespräch)» (GW 1, 317 n / VM, 645 n), che consente di comprendere tale esperienza in tutta la sua universalità in quanto fondata sul «particolare fenomeno dell’altro […] che spezza la mia egocentricità (der Andere, der meine Ichzentrierheit bricht) offrendomi qualcosa da comprendere […] nel dialogo » (GW 2, 9 / VM 2, 501). In effetti, dopo Verità e metodo Gadamer ha sempre più identificato l’essenza dell’«esperienza ermeneutica» con la prassi dialogica e l’intesa intersoggettiva, affermando che «il comportamento ermeneutico (hermeneutisches Verhalten) [consiste] nel fatto che l’altro vi appare anzitutto come l’altro» (E, 28 / EE, 20) e che l’«esperienza ermeneutica» coincide in fondo col «presupposto della condizione umana» secondo cui «l’altro non ha soltanto dei diritti, ma potrebbe anche avere ragione» (ÜVG, 109 / DNS, 91).

primariamente e principalmente adottato nella prima parte di Verità e metodo nel contesto di una discussione sull’esperienza estetica e l’incontro con l’arte; tuttavia, va anche notato come esso sia stato impiegato dal filosofo tedesco nel corso della sua lunga carriera anche in relazione ad ambiti e problemi differenti da quelli estetici, sino a diventare la «metafora [di] designazione emblematica dell’esperienza ermeneutica, […] la nozione» che consente di «comprendere lo statuto ermeneutico della verità (o la verità di cui si tratta nell’esperienza ermeneutica)»284. Come è stato giustamente notato, infatti, «pur ricevendo concreta formulazione in contesti che sono prevalentemente dedicati all’esame di questioni di carattere estetico, il tema del gioco» – in qualità di metafora dell’«autentica esperienza [che] modifica realmente colui che la fa» – «finisce per assumere un ruolo centrale, di modello, per il nostro rapporto non solo con l’opera d’arte, ma anche con la tradizione, con il linguaggio e con l’essere», e può dunque «svolgere un ruolo di guida e di orientamento attraverso le diverse e complesse tematiche abbracciate dall’ermeneutica gadameriana»285.

284

J. Greisch, Le phénomene du jeu et les enjeux ontologiques de l’herméneutique, in «Revue Internationale de Philosophie», 3, 2000, pp. 449-462. A testimonianza dell’ampiezza del tema del gioco in Gadamer, si può notare come egli ricorra a tale paradigma esplicativo già nel saggio Goethe und die

sittliche Welt (1949) al fine di specificare «la maniera in cui [Goethe] in genere incontra il mondo e

risponde ad esso»: proprio «l’elemento giocoso (das Spielerische) della sua poesia» – scrive infatti Gadamer – «è ciò che a parecchi, educati sul gesto linguistico di Hölderlin o di Rilke, teso fino al profetico, poteva apparire […] irrispettoso» (GW 9, 75 / IP, 59). Ritroviamo quindi il concetto di gioco nel saggio Verstehen und Spiel (1961), in cui Gadamer – pur rendendosi conto che «può apparire sorprendente un confronto tra la serietà della fede e la gratuità del gioco» – assume proprio tale concetto come modello per impostare «una nuova riflessione sul rapporto in cui stanno reciprocamente la fede e l’intendere (Beziehung zwischen Glauben und Verstehen)» (GW 2, 128 / VM 2, 82). Infine, nel saggio

Grenzen der Sprache (1985), nell’ambito di una discussione sull’apprendimento del linguaggio, viene

evocato il «gioco di reciproco affiatamento (Sich-Einspielen-miteinander)» tra adulto e bambino che «permette di gettare un ponte tra la forma di comunicazione non ancora semanticamente articolata e la comunicazione verbale»: dunque, «il gioco [come] una sorta di dialogo prelinguistico (vorsprachlicher

Dialog)» (GW 8, 357 / L, 66). 285

G. Qualizza, Il gioco in Gadamer tra rischio e simmetria, in «Fenomenologia e società», 15/1, 1992, pp. 150-154. Sulla base di considerazioni per certi versi analoghe a queste, altri interpreti hanno però avanzato dure critiche all’utilizzo che Gadamer fa del concetto di gioco in Verità e metodo e nei suoi scritti di estetica, contestando il fatto che l’applicazione dei «concetti di gioco e di verità [sia] così generale» da non riuscire a «render produttiva la differenza tra il comprendere estetico e non-estetico (Differenz zwischen dem ästhetischen und dem nichtästhetischen Verstehen)» (R. Sonderegger, Für eine

Ästhetik des Spiels. Hermeneutik, Dekonstruktion und der Eigensinn der Kunst, Suhrkamp, Frankfurt a.

Vediamo dunque un po’ più da vicino qual è effettivamente la concezione gadameriana del gioco. Nel paragrafo Der Begriff des Spiels contenuto in Wahrheit und

Methode, Gadamer si premura per prima cosa di prendere le distanze dal «significato

soggettivistico che […] tale concetto […] ha presso Kant e Schiller, e che domina tutta l’estetica e l’antropologia moderne», mirando piuttosto ad esplicitare quello che egli chiama «il senso mediale del giocare (der mediale Sinn von Spielen)» (GW 1, 107-110 / VM, 227-233)286. Spiega infatti Gadamer: «il giocare non vuol essere considerato in generale come un’attività esercitata da qualcuno» ma piuttosto come un «movimento ludico (Spielbewegung) [che] si dà come da se stesso (wie von selbst ergibt) [e] va come da sé (wie von selbst geht). […] Così diciamo per esempio che qualcosa in una certa situazione o in un certo luogo “gioca”, che qualcosa si svolge (sich abspielt), che qualcosa è in gioco» (GW 1, 109-110 / VM, 231-233). In maniera piuttosto provocatoria, poco più avanti Gadamer aggiunge persino che «il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma […] il gioco stesso», in quanto esso «ha infatti una sua essenza propria, indipendente dalla coscienza di coloro che giocano. […] È il gioco che ha in sua balìa il giocatore, lo irretisce nel gioco, lo fa stare al gioco (den Spieler in seinen

Bann schlägt, ihn ins Spiel verstrickt, im Spiele hält). […] Il gioco non ha il suo essere

nella coscienza o nell’atteggiamento del giocatore, ma piuttosto è esso a trarre chi gioca nel proprio ambito e a riempirlo del proprio spirito. Il giocatore avverte il gioco come una realtà che lo trascende (eine ihn übertreffende Wirklichkeit)» (GW 1, 108-115 / VM, 229-243).

ricorderebbe troppo «l’accadere dialogico della verità (das dialogische Wahrheitsgeschehen)» e ciò darebbe luogo al sospetto che «il gioco», anziché «una categoria centrale dell’estetica [rappresenti] una categoria centrale dell’ermeneutica generale», incapace in quanto tale di render giustizia alla «dinamica specifica dell’estetico (Eigendynamik des Ästhetischen)» (Ivi, pp. 19-30).

286

Il riferimento di Gadamer, chiaramente, è alle nozioni di «libero gioco delle facoltà conoscitive (freies

Spiel der Erkenntnißvermögen)» e di «istinto del gioco (Spieltrieb)», introdotte rispettivamente nella Kritik der Urteilskraft e nei Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen. In entrambi i casi,

secondo Gadamer, «il concetto di gioco» viene per così dire “confinato” nell’ambito di una «considerazione [sul] “ruolo del soggetto” in riferimento alla costruzione dell’esperienza estetica»: considerazione che in ultima analisi, a suo giudizio, finisce con lo scorgere «nell’incontro con l’opera d’arte un semplice rapimento o un incantamento (bloße Entrückung oder Verzauberung), […] qualcosa come un mondo sostitutivo o di sogno (Ersatz- oder Traumwelt) in cui possiamo dimenticare noi stessi, […] una semplice liberazione dalla pressione della realtà (bloße Befreiung vom Druck der Wirklichkeit) e il godimento di una tale libertà fittizia» (GW 8, 90-92 / AB, 181-184).

Ora, in realtà chiaramente Gadamer non crede affatto che le dinamiche che si instaurano nell’incontro con l’arte, la storia, la tradizione e negli altri contesti esperienziali che qui ci interessano, siano dinamiche assolutamente prive di soggetto, dominate cioè da un accadere oggettivo che nega la centralità dell’individuo e riduce quest’ultimo alla passività. Ciò, infatti, sarebbe assolutamente in contrasto con il senso complessivo della filosofia gadameriana che, come abbiamo visto alla fine della seconda sezione di questo lavoro, consiste fondamentalmente proprio in un recupero “umanistico” della centralità della persona, della sua autonomia e, dunque, anche della sua responsabilità nell’agire. Piuttosto, quel che egli intende segnalare è semplicemente il fatto che, in tali contesti esperienziali, ci si trovi implicati in dinamiche non standardizzabili secondo regole, metodi o tecniche, né pienamente padroneggiabili o riconducibili alla sicurezza della coscienza soggettiva, ma al contrario imprevedibili e aperte, oltrepassanti il ristretto campo della propria volontà di pianificazione e, dunque, implicanti un’autentica disponibilità a lasciarsi coinvolgere nell’evento di senso che è “in gioco”287.

Come ho già accennato, Gadamer impiega spesso il concetto di gioco – oltre che