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La «logica dell’homo oeconomicus» e la schiavitù dei falsi bisogni.

Le patologie del «mondo amministrato».

2.1. La «logica dell’homo oeconomicus» e la schiavitù dei falsi bisogni.

Gli scritti e le interviste degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, ci mostrano infatti un Gadamer molto attento all’intrecciarsi, nella nostra epoca, di una serie di preoccupanti dinamiche economiche, politiche e sociali. La prima cosa che egli nota è il fatto che «le leggi dei processi tecnici e economici [siano] la vera figura dominante (Herrschaftsfigur) dei nostri giorni» (LT, 112 / ET, 85) e che il mondo contemporaneo si nutra oggi del sogno illusorio di «una sorta di religione economica planetaria (eine

Art Religion der Weltwirtschaft)» o di «un sistema razionale utilitaristico (ein rationales System der Nützlichkeit)» in grado di regolare «il nostro vivere-insieme su questo

pianeta» (GW 10, 237 / ERM, 465), quando invece è sotto gli occhi di tutti il fatto che l’imperante «logica dell’homo oeconomicus», lungi dal tendere ad «un’equa distribuzione delle ricchezze», produca al contrario «crescenti diseguaglianze» (EE, XI). Gadamer, cioè, si rende perfettamente conto del fatto che viviamo «nell’epoca delle multinazionali e dell’economia planetaria» (E, 10 / EE, 6), in un’epoca cioè nella quale

«gli interessi di potere economici [spesso] si impongono contro [gli stessi] principi democratici e sociali dello Stato di diritto» (LT, 51 / ET, 45).

Ma oltre a ciò, quello che preoccupa maggiormente il filosofo tedesco riguardo al ruolo preponderante rivestito dai fattori economici nel complesso della nostra esistenza è l’inarrestabile tendenza, propria della nostra epoca, alla riduzione dell’umanità ad un popolo di meri produttori e consumatori. Ossia, l’entrata dell’umanità «in un circolo vizioso di produzione e consumo (in einen Teufelskreis von Produktion und Konsum)» nel quale essa «si estranea sempre di più dal proprio essere» (VZW, 22 / RES, 39)44. Ora, Gadamer si interroga su entrambi i lati di questo fenomeno, ossia sia sull’incessante tendenza al produrre che sull’irrefrenabile impulso a consumare. Per quanto riguarda il primo aspetto, nel saggio Vereinsamung als Symptom von

Selbstentfremdung egli nota con un certo sarcasmo come il lavoro sia diventato il

«nuovo dio della nostra epoca, […] l’ultimo dio mondano della tradizione politeistica a trovare onore presso di noi», ma anche come esso diventi «sempre più estraneo [e] non ci appaia più come il nostro lavoro», provocando così un’autentica «estraniazione dell’uomo nel mondo (Fremdwerden der Menschen in der Welt)» (LT, 128 / ET, 96)45.

44

Nel sottolineare questo aspetto, mi sembra che Gadamer venga in qualche modo a trovarsi nelle vicinanze di Hannah Arendt, la quale parimenti lamenta l’attuale riduzione dell’uomo ad «animal

laborans, stretto nella morsa del ciclo produzione-consumo» (S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 293). Il riferimento è ovviamente alla tripartizione delle

attività umane fondamentali – lavorare, operare, agire, cui corrispondono rispettivamente le figure dell’animal laborans, dell’homo faber e dello zoon politikon – sviluppata in The Human Condition, dove si scorge appunto nel mondo contemporaneo «la vittoria dell’animal laborans», il passaggio all’«ultimo stadio della società del lavoro, la società degli impiegati [che] richiede ai suoi membri […] di adagiarsi in un attonito, “tranquillizzato”, tipo funzionale di comportamento, […] nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto» (H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994, p. 240).

45

Significativamente, in questo saggio Gadamer si richiama sia al «lamento per [la] autoalienazione dell’uomo» contenuto nelle «grandiose lettere di Schiller Sull’educazione estetica dell’uomo [che] parlano della macchina dello Stato, morta e senz’anima, in cui ognuno agisce come un ingranaggio», sia alla critica di Marx alla «forma di economia capitalistica», la quale riconduce «l’autoalienazione dell’uomo (Selbstentfremdung des Menschen) all’artificialità dei rapporti di produzione, al carattere di feticcio attribuito al denaro e al carattere di merce del lavoro umano» (LT, 129 / ET, 97). Secondo Gadamer, se «allora l’autoalienazione dell’uomo era riferita a una determinata situazione di classe e significava lo sfruttamento del proletariato da parte dell’imprenditore», oggi ci troviamo in «condizioni molto mutate», nelle quali tuttavia «il problema si è rinnovato»: perlomeno limitatamente al mondo occidentale, infatti, «non si può più parlare di autoalienazione […] nel senso che una classe venga

Non meno grave, peraltro, appare la situazione per quanto riguarda lato della vita dell’homo oeconomicus, quello cioè del consumo. Non soltanto, infatti, si assiste anche qui ad una sorta di “glorificazione” del consumare in quanto tale – analoga, in un certo senso, alla “idolatrazione” del produrre in quanto tale –, ma oltre a ciò l’aspetto preoccupante per Gadamer è rappresentato dal fatto che gli stessi bisogni umani, lungi dall’essere ormai spontanei o naturali, vengano sempre più influenzati ed indirizzati (se non addirittura prodotti a tavolino) secondo precisi interessi di produzione e di vendita.

Chiaramente, il fenomeno che Gadamer prende di mira è quello della «creazione di falsi bisogni attraverso la pubblicità (künstliche Erzeugung von Bedürfnissen durch

die moderne Reklame)» (GW 4, 256 / DNS, 25), dell’«organizzazione forzata della

vendita e del consumo» e, quindi, dell’invasione da parte di un «flusso [di] desideri consumistici indotti» (LT, 131 / ET, 98). Ora, pur tenendo conto delle ovvie differenze relative alle rispettive prospettive filosofiche e soprattutto politiche, mi sembra interessante notate come una tale insistenza sulla massiccia diffusione nel «mondo amministrato» di falsi bisogni indotti artificialmente e sull’«influsso [del] sistema economico mondiale (System der Weltwirtschaft)» che non risparmia «alcun ambito della nostra vita [e] si estende dalla cosiddetta vita familiare fino alla cosiddetta industria culturale» (LT, 117 / ET, 88) conduca in qualche modo Gadamer nelle vicinanze dei pensatori della Scuola di Francoforte. Basti pensare, infatti, agli studi di Horkheimer e Adorno sui meccanismi della Kulturindustrie, ma anche a certi aspetti dell’analisi marcusiana della «società a una dimensione», la quale si apre proprio con la differenziazione «tra bisogni veri e bisogni falsi» e con la constatazione che «la maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono […] vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari», ossia «appartengono [alla] categoria dei falsi bisogni»46. Lo stesso Gadamer, del resto, ha ammesso di aver «sempre ravvisato un’intera serie di corrispondenze [con] Adorno e Horkheimer» (HÄP, 71 / DCG, 84), la cui Dialettica

dell’illuminismo a suo giudizio «coglie il vero stato delle cose (trifft die wahre Sachlage)» (GW 8, 185 / SE, 101) riguardo allo «spirito di cieca conformità alle regole

che pervade la nostra civiltà tecnoscientifica»47.

sfruttata da un’altra», ma ciò non toglie che anche nel «moderno Stato sociale del benessere (moderner

Wohlfahrts- und Sozialstaat) […] ciò che esperiamo» è una nuova forma di «autoalienazione, […] una

particolare mancanza di libertà di noi tutti» (LT, 130 / ET, 97).

46

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, p. 19.

47

H. G. Gadamer, Reply to David Detmer, in L. E. Hahn (a cura di), The Philosophy of Hans-Georg