Capitolo 4. Le origini evolutive del dispositivo morale
4.3 Biologia della morale
Come racconta Simon Blackburn, il natale del 1977, anno che avevo visto la pubblicazio- ne di Ethics, Mackie trova sotto l'albero una copia de Il gene egoista37 di Richard Dawkins, libro che era uscito l'anno precedente. Come si legge sempre nel Memorial address38 com- posto a seguito della morte dell'amico, Mackie rimase entusiasta dalla lettura, tanto da comporre in poco tempo un articolo39 ispirato dal lavoro dello zoologo britannico, lavoro che fu definito da Dawkins stesso un importante contributo alle scienze biologiche per la sua teorizzazione di un nuovo modello di selezione di gruppo, finalmente funzionante40. Si tratta questo della prima opera incentrata specificamente su temi di filosofia della biologia da parte dell'australiano, anche se il pensiero evolutivo e i modelli della teoria dei giochi forniscono già in Ethics la base per comprendere le dinamiche di sviluppo della moralità.
Questi articoli sono essenziali per comprendere l'indirizzo evolutivo che Mackie stava ponendo sempre più in una posizione centrale all'interno del proprio convenzionalismo. Era inevitabile infatti, a partire dalla teorizzazione funzionalistica della morale così come ne esce in Ethics, che l'australiano vedesse sempre più il campo dell'etica come un campo eteronomo, aperto a scorrerie da più lati.
In un articolo posteriore all'uscita di Ethics, Co-operation, competition and moral philosophy, Mackie rivendicava questa scelta esponendone le ragione programmatiche. Se la moralità è un prodotto umano, un sistema misto fatto di emozioni, desideri e istinti me- diati dalla conoscenza e dalle credenze tipiche di una data società, allora è possibile adope- rare strumenti provenienti dalle scienze sia naturali sia umane per due ordini di motivi, ge- nealogico e morfologico. Da una parte è possibile infatti scavare attorno ai vari sistemi mo- rali, individuandone i fondamenti storici, sociali e naturali. Dall'altra, grazie a quest'opera di genealogia, diventa possibile studiare quella che è la forma del dispositivo morale, rica- vando una comprensione matura di quella che è la costituzione dei nostri sentimenti mora- li. Sono due, in particolare, le tipologie di sapere che sembrano più promettenti a questo proposito: la moderna biologia evolutiva neo-darwiniana, e la teoria matematica dei giochi:
37 R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano, 1995 38 S. Blackburn, A memorial address, in Morality and objectivity, op. cit., p. 216
39 Si tratta di J.L. Mackie, The law of the jungle: moral alternatives and principles of evolution, pubblicato in “Philosophy”, 53, 206 (October 1978) e ristampato in Persons and values, op. cit., pp. 120-131
40 “È ancora troppo presto per dire se i modelli matematici giustificheranno questa possibilità, ma se lo fa- ranno, l'articolo di Mackie su 'Philosophy' dovrà essere visto come un valido contributo alla biologia” (In
“Pertanto, la sociobiologia e la teoria dei giochi e della scelta razionale sono rilevanti per la morale in due modi distinti. Da una parte, possono agevolare la comprensione delle moralità esistenti, delineando i contesti entro cui queste si sono sviluppate e identificando alcune delle forze e meccanismi che le hanno prodotte. Dall'altra possono indicare i vincoli comuni a ogni sistema morale at- tuabile, vincoli che devono essere tenuti in considerazione in ogni realistica di- fesa dei principi morali o in qualsiasi proposta, che si voglia praticabile, di rifor- ma delle idee e inclinazioni morali esistenti”41.
L'innesto di questi temi forma una complessa opera non organica ispirata al darwinismo vecchio e nuovo, dove si precisano le origini della morale in senso stretto, i cui principi si sono sviluppati “attraverso un qualche processo di evoluzione biologica e sociale”, in virtù del fatto “che essi permettono agli esseri umani, la cui condizione naturale coinvolge un in- sieme di tendenze competitive e cooperative e un bisogno di collaborazione, di meglio so- pravvivere e prosperare, limitando la competizione e facilitando la cooperazione”42. E dove si fornisce anche un possibile orizzonte a quella che sarà la parallela ricerca normativa, poiché lo studio del meccanismo evolutivo rende lecito aspettarsi che, per quanto riguarda la morale, i “limiti pratici (...) a ciò che possiamo includere in essa se vogliamo che le no- stre predicazioni morali siano realizzabili” siano da ricercarsi in certi nostri atteggiamenti e caratteri istintivi “determinati biologicamente”, provenienti quindi “da tendenze generali della natura umana” nonché dalla forma più ampia e astratta della scelta razionale applicata alle nostre convenzioni artificiali, ovvero “il risultato dell'interazione, legata ai meccanismi della scelta razionali, di tratti culturali”43. Da qui l'importanza che rivestono, nello studio morfologico abbozzato da Mackie prima in Ethics e poi nei suoi ultimi scritti, alcuni stru- menti presi in prestito dalla ricerca neo-darwiniana degli anni settanta sull'uomo44. Esami-
41 J.L. Mackie, Co-operation, competition, and moral philosophy, in A.M. Colman (a cura di), Cooperation
and competition in humans and animals, van Nostrand Reinhold, New York, 1982, ristampato in Person and values, op. cit., p. 153
42 The miracle of theism, p. 254 43 Genes and egoism, p. 2
44 Adopero questo giro di parole al posto del semplice termine 'sociobiologia' perché la mia impressione è che Mackie conoscesse le teorie sociobiologiche principalmente attraverso la mediazione di Dawkins più che per quella di Wilson e Ruse: alcuni concetti, per esempio quello di strategia evolutivamente stabile e di meme che compaiono in Dawkins non sono rubricati all'interno di Sociobiologia di Wilson (il concetto di meme apparirà nel lavoro dell'entomologo statunitense soltanto nel 1998 con Consilience). Anche per quanto riguarda la teoria dell'altruismo reciproco Mackie è molto più vicino ad autori come Robert Trivers e Richard Dawkins che a Wilson stesso. Allo stesso modo, il concetto di investimento parentale così importante per Wilson e Trivers non viene menzionato negli scritti di filosofia della biologia di Mackie (per questo non sarà trattato in questa sede), forse anche qui a causa di un 'filtro dawkinsiano'. Lo zoologo britannico infatti, pur dedicando un capitolo interno de Il gene egoista al rapporto tra i sessi così come viene definito dalla teoria dell'investimento parentale, afferma che a questo proposito “il modo di vivere degli uomini è determinato in gran parte dalla cultura piuttosto che dai geni” (Il gene egoista, p. 173). Come si vedrà più ampiamente in seguito, la biologia evolutiva di Mackie coincide quasi esattamente con la visione dawkinsiana di questa disciplina.
niamoli adesso, cominciando dalla prospettiva genocentrica di Richard Dawkins. 4.3.1 L'unità di selezione
Il problema dell'unità di selezione costituisce un classico della filosofia della biologia. La domanda può essere posta in due maniere.
Chi è il beneficiario dei tratti utili alla sopravvivenza e alla riproduzione? Messa in que- sto modo, la domanda ha un'unica risposta: il gene. La selezione naturale avviene in una data popolazione tramite il cambiamento della frequenza dei geni di questa. L'alternativa è quella di porre in questione che il DNA sia l'unica sorgente dell'ereditarietà in un organi- smo45.
D'altra parte, ci si potrebbe chiedere invece chi è il bersaglio della selezione naturale, e in questo caso la risposta potrebbe non essere univoca: il setaccio evolutivo potrebbe rac- cogliere i singoli geni, gli organismi individuali, i gruppi, o un cocktail più o meno varie- gato di questi livelli.
Come ebbe a notare ne Il mutuo appoggio Petr Kropotkin, uno dei padri putativi della teoria della selezione di gruppo, la stessa posizione di Darwin, pur partendo da assunti in- dividualistici, non risultava aliena da una certa ambiguità di fondo. Per esempio, per quan- to riguarda la questione dell'evoluzione degli istinti sociali e della morale, Darwin parlava esplicitamente di pressione selettiva a livello di gruppo46. Questa ambiguità di fondo perva- se gran parte della storia della biologia evolutiva: il dibattito rimase sostanzialmente aper- to, nonostante la teoria della selezione individuale sembrasse la più efficace per spiegare gran parte dei tratti evolutisi per selezione naturale, diventando per questo l'ortodossia.
Non mancarono eccezioni, però. La selezione di gruppo fu adottata come principio guida dalla scuola ecologica di Chicago o da etologi come Konrad Lorenz e Robert Ardrey, i
45 Punto fermo della biologia evolutiva da Weismann in poi. In Das keimplasma Weismann formulò il prin- cipio secondo cui nell'ereditarietà la direzione della determinazione causale è univoca e procede dalla li- nea germinale alla linea somatica, senza possibilità di inversione. In questo modo Weismann negò cittadi- nanza, all'interno della biologia evolutiva, al concetto di ereditarietà dei caratteri acquisiti. Il modello di Dawkins che adopera la metafora della ricetta (la linea germinale) e della torta (la linea somatica) ricalca perfettamente il 'dogma' weismanniano (In defence of selfish genes, p 8). In realtà le cose sono molto più complesse di come le mostra questa semplice analogia: tanto per fare un esempio, l'ambiente cellulare dell'uovo fecondato, il quale appartiene alla linea somatica, è fondamentale nelle prime fasi di sviluppo embrionale, caso questo che dimostra come a volta la separazione tra linea germinale e linea somatica non sia così rigida. Per altre dinamiche di questo genere vedi E. Jablonka & M.G. Lamb, L'evoluzione in quat-
tro dimensioni. Variazione genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica nella storia della vita,
UTET, Torino, 2007 oppure, in versione decisamente più concisa, E. Jablonka Le cinque madri: eredità e
evoluzione da una prospettiva di sviluppo, in Calabi, Lorenzo (a cura di), Il futuro di Darwin. L'individuo,
UTET, Torino, 2008.
quali si ispiravano al principio 'del bene maggiore' per spiegare tutta una serie di fenomeni come quello dell'altruismo e dei combattimenti non letali che apparivano inconciliabili con la selezione individuale. La sua formulazione organicamente più strutturata fu data da Vero C. Wynne-Edwards nel suo libro del 1962, Evolution through group selection. Questo la- voro fu attaccato duramente dal biologo G.C. Williams nel 1966 in Adaptation and natural selection: a critique of some current evolutionary thought, dove si negava decisamente l'i- dea che fosse concepibile qualcosa come la selezione di gruppo.
Preparato dal lavoro di Williams, un secondo attacco, condotto questa volta dalla 'parte opposta', colpì l'ortodossia della selezione individuale. Ne Il gene egoista, infatti, Richard Dawkins propose di considerare i geni come i reali bersagli dell'unità di selezione: non solo essi sono l'unità ereditata, ma sono anche quella selezionata. La proposta di Dawkins diede origine a quello che oggigiorno è chiamato genocentrismo, e che costituisce il principale polo su cui ruotano le discussione legate all'unità di selezione. Secondo la visione genocen- trica ipotizzare l'esistenza di livelli e gerarchie di selezione diversi dal gene è del tutto inin- fluente, poiché tutta la dinamica selettiva può essere spiegata adottando la visuale del gene. Gli avversari di questa concezione cercano invece di dimostrare la necessità di adottare una prospettiva pluralista in termini di livelli di selezione, come quella proposta per esempio da Sloan Wilson ed Elliot Sober in Unto others47.
Il modello di Dawkins è un programma riduzionista in piena regola, interessato a offrire una spiegazione unitaria dei meccanismi biologici basato sulla selezione naturale di tratti minimi, ovvero i geni. Dal momento che l'interesse di Mackie per i problemi di biologia teorica si concentra in massima parte sul lavoro dello zoologo britannico, è alla sua teoria che sarà dedicata più attenzione, così come essa è esposta ne Il gene egoista e così come l'australiano la condensa nel suo articolo The law of the jungle.
Da un punto di vista esterno la questione dell'unità di selezione, sebbene possa porre que- siti interessanti per la filosofia della biologia, sembrerebbe essere del tutto inutile per la morale. Le cose invece non stanno così. Fin da Darwin, infatti, quello del bersaglio della selezione risulta un problema cruciale per comprendere i meccanismi evolutivi alla base di fenomeni sociali come la moralità, la cooperazione, l'altruismo, l'egoismo, ecc. Non a caso il titolo del primo articolo di Mackie sulla questione, The law of the jungle, evoca la formu- la coniata da Kipling nel suo Secondo libro della giungla la quale, al contrario del suo uso
47 E. Sober & D.S. Wilson, Unto others: the evolution and psichology of unselfish behavior, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1999
comune come sinonimo di competizione sfrenata e senza regole, indica le regole basilari di cooperazione all'interno di un branco di lupi.
Questo tipo di rappresentazione della natura coincide, secondo Mackie, con la teoria del- la selezione di gruppo di Ardrey e Lorenz: l'evoluzione favorisce quelle popolazioni i cui membri sono capaci di cooperare e di limitare il grado di conflittualità interna in vista del bene maggiore. All'interno di una simile visione la genesi e lo sviluppo della socialità e dell'altruismo sono facilmente spiegabili in termini evolutivi, in virtù del maggior successo dei gruppi sociali rispetto a quelli formati da individui insocievoli.
Qual è il problema di questo tipo di teoria? La risposta di Mackie è che l'idea di selezione di gruppo, sebbene possibile in casi particolari, non regge nei confronti della visione geno- centrica di Dawkins48. Vediamo perché.
Per candidarsi al ruolo di bersaglio selettivo ideale si deve possedere una caratteristica fondamentale, ovvero quella della stabilità temporale. Tale stabilità si raggiunge attraverso la sopravvivenza indefinita sotto forme di copie che si propagano verticalmente (per gene- razioni) lungo la linea temporale. Tale stabilità non deve essere assoluta, altrimenti non avremmo varianza e conseguentemente selezione, ma al tempo stesso deve essere alta. Nel- le parole di Dawkins:
“La selezione naturale nella sua forma generale significa la sopravvivenza dif- ferenziale di identità. Alcune entità vivono e altre scompaiono ma, perché la morte selettiva abbia qualche impatto sul mondo, deve verificarsi una condizio- ne ulteriore. Ciascuna entità deve esistere sotto forma di un gran numero di co- pie e almeno alcune delle entità devono essere potenzialmente capaci di soprav- vivere – sotto forma di copie – per un periodi significativo di tempo evolutivo”49
.
La conclusione di questo ragionamento è che solo i geni possiedono queste proprietà. Po- polazioni, gruppi e individui sono unità troppo grosse per essere 'viste' dalla selezione. Sono troppo precarie per poter passare attraverso il setaccio evolutivo, il quale richiede una
48 Neil Tennant (Evolutionary vs. evolved ethics, p. 292) critica Mackie per operare un'eccessiva semplifica- zione del problema, facendo una caricatura dei sostenitori della selezione di gruppo e costruendo pertanto la propria critica contro un uomo di paglia. Secondo Tennant Mackie, contrapponendo in maniera sempli- ce selezione di gruppo e selezione individuale, non prenderebbe infatti neanche in considerazione l'ipotesi pluralista di una selezione di gruppo accanto a una selezione individuale, che sarebbe poi la posizione adottata dai sostenitori della selezione di gruppo. La critica, alla luce del linguaggio adoperato da Mackie in The law of the jungle, è sensata, sebbene l'obiettivo dell'articolo di Mackie fosse proprio quello di di- mostrare come un certo tipo di selezione di gruppo potesse effettivamente operare a fianco della selezione individuale. Ciò mostra un nervo scoperto di questa parte della filosofia di Mackie, che è l'adesione spes- so acritica alle idee di Dawkins, anche laddove esse appaiono troppo semplicistiche e riduttive.
certa stabilità attraverso le generazioni per funzionare. E soprattuto, secondo gli assunti weismanniani della moderna teoria dell'evoluzione, non sono unità in grado di replicarsi in maniera tale da poter compensare la propria scarsa longevità con la capacità di produrre copie fedeli di se stesse. Mentre individui e gruppi veicolano informazione in termini analogici e precari, solo il gene è capace di riprodurre la propria informazione come un codice digitale50. Unità volubili come gli individui sono, per adoperare una metafora, alla stregua di combinazioni di carte in una mano di poker, del tutto contingente e precaria all'interno di una lunga nottata di gioco, mentre i geni sono le singole carte, destinate a rimanere le stesse durante il ripetersi delle partite.
Sono state avanzate svariate critiche a questa visione basandosi su quello che sarebbe l'effettivo potere causale dei geni nel produrre quei tratti fenotipici che sono oggetto con- creto della selezione51. Principalmente queste critiche si basano sui problemi che l'epigene- si, nonché l'estrema suscettibilità del fenotipo al processo di interazione sia interno al geno- tipo sia tra genotipo e ambiente durante lo sviluppo, pongono di fronte all'effettiva capacità dei geni di produrre con fedeltà la ricetta fenotipica che veicolano52. Partendo dai dati con- creti della genetica la visione genocentrica è messa in discussione nel suo carattere di astra-
50 Ovviamente il codice digitale perfetto non esiste, dal momento che ogni replicazione è una forma di tra- smissione, per impiegare il linguaggio della teoria dei codici, e ogni trasmissione passa per un canale. La fedeltà dipende quindi dal processo di codifica attraverso cui avviene il passaggio, e dal grado di pertur- bazioni presenti nel canale. La teoria di Dawkins sostiene praticamente che il processo di codifica delle informazioni contenute in un gene sia abbastanza preciso da candidarlo al ruolo di replicatore, cosa che non avviene per gli individui, i gruppi e le specie. Questa 'metafora informatica' è sempre più considerata completamente fuorviante e in contrasto con gli sviluppi della ricerca, soprattuto per quanto riguarda l'evo-devo. Vedi a proposito M. Buiatti, Oltre la 'sintesi moderna': la soluzione delle antinomie della bio-
logia del XX secolo, in Il futuro di Darwin, op. cit., p. 68
51 P. Kitcher & K. Sterelny, The return of the gene, in The philosophy of biology, op. cit, e E. Sober & D.S. Wilson, A critical review of philosophical work on the units of selection problem, in The philosophy of
biology, op. cit.
52 R. Lewontin, Gene, organismo e ambiente. I rapporti causa-effetto in biologia, Laterza, Bari, 2002, e in generale tutta la letteratura legata alla teoria dei sistemi di sviluppo (DST) facente capo al lavoro di Susan Oyama. Questo tipo di teoria attacca la lettura informazionale dell'evoluzione e la sua rigida concezione dell'ontogenesi, definita ironicamente preformista. L'assunto centrale del genocentrismo è che la linea germinale costituisca una dimensione informazionale distinta e isolabile la quale dà il via al processo di ontogenesi secondo il modello ricetta/torta. La logica alla base di questo schema è rifiutata dai sostenitori della DST: la trasmissione, secondo questi autori, non riguarda “tanto i tratti discreti di informazione, quanto un intero bagaglio di 'interagenti' o 'interattanti' dello sviluppo che comprendono i geni, i meccani- smi e le strutture cellulari, l'ambiente extra-cellulare, fino al più ampio contesto organico dello sviluppo dentro cui troviamo il sistema riproduttivo materno, le cure parentali, le interazioni con i conspecifici, le relazioni con altri aspetti del mondo animato e inanimato circostante” (Introduzione alla filosofia della
biologia, p. 117). La complessità e la non univocità di scambio informazionale durante l'ontogenesi rende
vano il tentativo riduzionista del genocentrismo di definire tutto lo sviluppo nei termini di una interazione univoca tra 'ricetta' e 'torta': sarebbe questo, secondo i sostenitori della DST, un modello eccessivamente semplicistico e non conforme alla realtà dell'ontogenesi. Vedi anche L'evoluzione in quattro dimensioni, in particolar modo il secondo capitolo “Dai geni ai caratteri”.
zione sorretta dal fragile assunto che ogni gene abbia capacità di influenzare in maniera si- gnificativo la sopravvivenza e il tasso di riproduzione differenziale di un organismo. Se- condo Eva Jablonka e Marion Lamb “le complesse interazioni tra i geni, nonché tra questi ultimi e l'ambiente, significano che gli effetti dei geni sul successo riproduttivo degli indi- vidui spesso non hanno valore additivo. Le nostre attuali nozioni sul conto dello sviluppo ci dicono che dovremmo pensare alle reti, non ai singoli geni, come unità della variazione evoluzionistica.”53
Altri tipi di critiche si sono concentrate sulla difficoltà di ridurre i tratti morfologici di un organismo a singoli pezzi frutto del programma dei vari geni, oppure sui problemi di deter- minare il rendimento dei geni dal momento che questi si trovano sempre mescolati in 'squadre', ovvero in genomi, e le loro capacità sono pertanto destinate a mutare in base a si-