Capitolo 3. La morale come invenzione e dispositivo
3.4 La forma del dispositivo
La morale non è dunque da scoprire, bensì da inventare, ma essa non è da inventare da zero, quanto piuttosto a partire da un 'ambiente' precostituito che è al contempo medium e materia prima per questa nostra invenzione. Più avanti, in [4.3], si vedrà come Mackie tro- vi nella teoria del gene egoista di Richard Dawkins gli strumenti analitici per tentare una morfologia filosofica del dispositivo morale. Ma importanti, in senso teorico, non sono tan- to il tipo di strumenti che Mackie adotta. Importante è riconoscere, contro una duratura tra- dizione di natura opposta, l'esistenza di precisi vincoli materiali in quella che è la nostra costituzione morale. In uno scambio polemico con Mary Midgley92, Mackie riassume il concetto nei seguenti termini:
“Se si concorda con me (...) che la morale non è da scoprire ma da inventare, allora ci si potrebbe chiedere se esistono dei limiti pratici, dei vincoli, a ciò che possiamo includere in essa se vogliamo che le nostre predicazioni morali siano realizzabili, capaci di operare e sopravvivere in competizione con tendenze di altro genere. Alcuni di questi vincoli possono essere determinati biologicamen- te, quindi provenire da tendenze generali della natura umana; altri possono esse- re il risultato dell'interazione, legata ai meccanismi della scelta razionale, di trat- ti culturali”93.
Il meccanismo non è sospeso nel vuoto, né creato a partire dalla materia dei sogni. È piuttosto assemblato in uno spazio determinato, con le sue regole geometriche e fisiche prestabilite, e composto dal materiale che è possibile rinvenire in questo dato spazio. A volte le regole potrebbero costringerci a fare qualche sforzo in più di progettazione, a volte i materiali potrebbero non essere così nobili o puri come vorremmo. Ma questa è la situa- zione a monte della condizione umana: “è segno di buon senso, e non 'melodrammatico e incoerente fatalismo', riconoscere l'esistenza di questi vincoli e preparasi a scoprire quali essi possano essere”94.
3.4.1 Ghost in the shell
In quel “deragliato esperimento di darwinismo sociale” che è la Night City immaginata da William Gibson in Neuromante, Case è un giovane hacker tossicodipendente con un
92 L'occasione per la polemica è l'articolo di Midgley su “Philosophy” 54 (1979) intitolato Gene-juggling. A questo articolo, oltre a Mackie rispose lo stesso Richard Dawkins (In defence of selfish genes, “Philosopy”, 56 (1981)). Mary Midgley rispose a sua volta in Selfish genes and social darwinism, “Philosophy”, 58 (1983).
93 J.L. Mackie, Genes and egoism, “Philosophy”, 56 (1981). 94 Genes and egoism, p. 2
problema: si è messo contro le persone sbagliate e come conseguenza si è ritrovato il siste- ma nervoso alterato da una micotossina di origine militare. A causa di ciò Case è incapace di accedere alla 'matrice', il mondo virtuale in cui lavora e il solo in cui si sente veramente vivo.
La posa del suo ambiente infatti “comportava un certo disinvolto disprezzo per la carne. Il corpo era carne. Case era precipitato nella prigione della propria carne”95. Carne: nel caso di Case una sacca di organi continuamente devastati dall'abuso di anfetamine, che ne- cessita di una perenne riparazione a base di trapianti in quella che è una disperata rincorsa a un materialistico surrogato della trascendenza. L'unica libertà riconosciuta da questo “cowboy del cyberspazio” è infatti quella di travalicare il proprio corpo, e sarà disposto a tutto durante lo svolgimento della storia pur di recuperare la propria capacità di accedere alla matrice.
Case è soltanto l'ultima reincarnazione dell'idea che il corpo sia un qualche tipo di prigio- ne: idea orfica e gnostica, che oggigiorno si ritrova in molte altre opere legate all'universo cyberpunk96. Il cuore di questo ideale è che la mente, o l'anima per adoperare un termine su cui, come ha detto Laura Bossi97, è scesa l'eclissi, è prigioniera di un fragile guscio mortale, ostacolo e impedimento per la nostra liberazione. Più o meno complesse, più o meno di- sposte a riconoscere un certo grado di psichismo anche alla parte animale dell'uomo (come nel modello tripartito di Platone o di Aristotele), queste concezioni dell'anima sono tutte accomunate da una visione carceraria del corpo cui si accompagna una concezione discon- tinuista della condizione umana.
L'equazione soma=sema prevede infatti che, a differenza delle parti basse del nostro si- stema psichico, l'anima propriamente detta sia completamente sprovvista di una 'forma'. La discontinuità con il resto del mondo naturale implica infatti che i contorni della psiche sia- no indefiniti. In questo modo, la tradizione occidentale ha sempre presentato l'essenza umana come uno spettro vincolato alla casa che infesta. Come provocazione, si potrebbe dire che il modo volgare di intendere i moderni modelli tripartiti del sistema nervoso sem- brano soltanto reincarnazioni di questa tradizione.
L'idea di morale che scaturisce da questa tradizione è quella di una morale per corpi smembrati, un'etica da spettri con vocazione ascetica: anime eterne dedite alla contempla-
95 W. Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano, 2003, p. 8
96 Il titolo di questo paragrafo ne è un esempio, riferendosi al nome inglese della serie cyberpunk creata dal- le matite di Masamune Shirow.
zione eterna di forme eterne. La concezione del corpo come una prigione è un altro tassello della visione oggettivista.
Una 'morfologia dell'anima' è precisamente il riscatto da questa concezione tradizionale. L'idea di una forma generale è il modo giusto per riconoscere l'esistenza di limiti precisi, corporei, i quali non sono trascendenti in maniera assoluta. Il corpo non è la prigione della mente, al massimo, per adoperare una metafora, ne costituisce la forma. Idea che, come già detto, è a parole ammessa universalmente, ma nei fatti puntualmente tradita dalle costru- zioni filosofiche.
Il nostro essere è invece scolpito nella carne, in tutti i sensi: le virtù morali sono all'origi- ne 'virtù animali', il senso artistico che ci fa apprezzare il bello è all'origine mera sensitività animale: rovesciando il dualismo platonico, Charles Darwin in un famosissimo passo dei suoi Notebooks proponeva di leggere 'scimmie' laddove Platone scriveva 'pre-esistenza'98, ed è su questo piano che il nostro convenzionalismo dovrà situarsi.
3.4.2 Empirismo, idee innate e realismo
I contorni dell'empirismo anglosassone sono gli stessi entro i quali si muove Mackie nel- la sua ricerca filosofica, e questi non sono immediatamente conciliabili con quanto affer- mato nei paragrafi precedenti. Lo diventano se si considera che lo Hume di Mackie è uno Hume su cui è innestata in tutta la sua carica rivoluzionaria l'antropologia gradualista di Darwin. Antropologia che permette di traghettare l'empirismo dello scozzese lontano dalle due teorie cognitive tradizionali della filosofia occidentale, il razionalismo di matrice ari- stotelica e cartesiana, che distingue tra un comportamento dominato dalla ragione nel caso dell'uomo e uno governato da istinti inflessibili per quanto riguarda gli animali, e il sensi- smo di Locke, che pone l'esperienza come categoria epistemologica centrale sia per gli uo- mini che per gli animali, sfumando i confini tra i due mondi al prezzo però di rigettare ogni tipo di idea innata. Se la prima teoria cognitiva è inaccettabile all'interno di un'antropologia darwiniana in virtù del suo dualismo, la seconda non è da meno, vista la sua incapacità di rendere conto dell'innatismo degli istinti. Darwin, pur partendo da una base solidamente ancorata nell'empirismo anglosassone99, lo supera dialetticamente, reintroducendovi l'idea
98 Taccuino M, p. 42: “Platone (...) dice nel Fedone che le nostre 'idee immaginarie' derivano dall'esistenza anteriore dell'anima, non sono originate dall'esperienza. Leggi scimmie al posto di pre-esistenza”.
99 L'argomento di partenza, nel raffronto tra le capacità cognitive umane e animali, riecheggia proprio il sen- sismo di Locke: “dal momento che l'uomo possiede gli stessi sensi degli animali inferiori, se ne deduce che le sue intuizioni fondamentali devono essere le stesse” (L'origine dell'uomo, p. 96).
di forma e negando così ogni assunto di indefinita malleabilità e plasticità che ancoravano l'empirismo lockeano a una certa visione discontinuista dei rapporti tra uomo e mondo. È in questa linea di pensiero che si colloca l'empirismo neo-humeano di Mackie.
Tornando all'australiano infatti, la ricerca di principi innati diventa particolarmente evi- dente, e importante nei confronti della morale, a partire dalla pubblicazione di Ethics nel 1977 e dei successivi articoli dedicati allo studio dell'evoluzione dei comportamenti sociali. In Problems from Locke, e in un articolo100 del 1970 sulla stessa questione, Mackie adotta invece toni più generali, legati al rapporto tra conoscenza e realtà. Pure, questi due lavori rimangono fondamentali per l'elaborazione di quella che potremmo definire un'epistemolo- gia darwiniana, capace di conciliare un empirismo riformato col realismo.
Mackie a questo proposito recupera la metafora leibniziana della mente come blocco di marmo contenuta nei Nuovi saggi sull'intelletto umano. Leibniz paragona il modello lockeano della mente a un blocco di marmo completamente uniforme101, il quale contiene potenzialmente ogni tipo di profilo non eccedente i suoi limiti: le sue uniche caratteristiche a priori sarebbero quindi il volume e la mera capacità di ricevere una forma. Secondo Leibniz, invece, la mente è sì un blocco di marmo ancora da scolpire, ma contiene al suo interno delle crepe e delle venature che la predispongono ad assumere determinate forme. Lo scultore deve lavorare per portare alla luce una data figura, ma il suo lavoro è in qual- che modo incanalato in alcune direzioni piuttosto che in altre dalla costituzione stessa del blocco. Mackie, pur non seguendo Leibniz negli altri suoi argomenti contro Locke, mostra di propendere per questo modello della mente. Esso permette infatti di mantenere intatto, seppur ridimensionato, il programma empirista di Locke, conciliandolo con quelle forme minimali di conoscenza innata che, come si è visto in [2.1.2], egli è pronto a riconoscere:
“Ovviamente, questa è soltanto una similitudine; ma alcune delle propensioni che ho suggerito nella mia ultima interpretazione del programma empirista po- trebbero essere considerate una descrizione letterale di ciò che Leibniz intende”102.
Tutto passa in questo caso dall'innesto della categoria humeana di 'propensione' all'inter- no del programma empirista, categoria che permette di coniugare innatismo ed empirismo, realismo e autonomia della ragione. E tutto passa anche da quel “leggi scimmie per preesi-
100J.L. Mackie, The possibility of innate knowledge, “The aristotelian society proceedings”, 70 (1970) 101G. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, in Opere complete, op. cit.,, vol. II, p. 25
stenza” tramite cui Darwin, commentando il Fedone, reintroduce nella tradizione sensista inglese la nozione di idee innate, sotto forma di istinti appresi evolutivamente.
Come si è visto in [2.1.2] un punto cruciale del programma lockeano era la critica delle idee innate nel loro essere una fonte di legittimazione per il pensiero dogmatico. Un pro- gramma illuminista coerente è, secondo Locke, un programma empirista, in quanto l'empi- rismo rimette la questione della verità non all'autorità di qualche principio generale prece- dente il soggetto conoscente, ma alla stessa ragione critica del soggetto. Ma, nell'opinione di Mackie, riconoscere un qualche tipo di propensione innata non significa affatto rinuncia- re al programma illuminista che pone la ragione come “il nostro ultimo giudice, e guida, in tutto”103. Leibniz stesso, dopotutto, era consapevole di questo problema legato al razionali- smo, e non intendeva affatto passarlo in secondo piano, quanto risolverlo104. E lo stesso ac- cade per l'empirismo riformato di Mackie.
La soluzione consiste nel riconoscere che la conoscenza posseduta istintivamente non è affatto autoritativa, e per diventarlo non può prescindere da una conferma empirica paralle- la. Quest'affermazione è perfettamente coerente coi presupposti della teoria dell'errore: una propensione della mente, come la solidificazione esterna dei propri desideri e aspettative sociali in valori morali, non può essere considerata corrispondente alla realtà di per sé, ma solo in seguito a un'indagine fattuale (che si conclude negativamente in questo caso). Allo stesso tempo però, il fatto che le nostre propensioni innate non siano di per sé autoritative non implica che esse non possano essere una forma di conoscenza della realtà, se confer- mate empiricamente. A sostenere questa tesi interviene il pensiero darwiniano. Possiamo aspettarci che la selezione abbia fatto sì che almeno parte dei nostri istinti corrispondano alla realtà dei fatti:
“Supponiamo che l'evoluzione per selezione naturale ci abbia plasmato come animali induttivi, semplicemente perché i meno induttivi cugini dei nostri ante- nati non sono sopravvissuti, e non sono sopravvissuti perché erano meno indut- tivi. Stando così le cose, non si potrebbe essere evoluta una razza con la tenden- za innata a credere che esistono delle regolarità scopribili nel corso degli eventi se queste regolarità non si fossero presentate durante l'evoluzione di questa raz- za. Una parte del fatto che esistono questo tipo di regolarità è stata un fattore causale decisivo per la produzione della corrispettiva credenza istintiva”105.
103Saggio sull'intelligenza umana, vol. II, p. 801
104“Immagino che il vostro ingegnoso autore abbia notato che sotto il nome di principi innati si sostengono spesso i propri pregiudizi cercando così di sottrarsi alla fatica delle discussioni, e che quindi questo abuso abbia animato il suo zelo contro questa supposizione” afferma Teofilo nei Nuovi saggi sull'intelletto uma-
no (pp. 50-51).
L'istinto può essere conoscenza, sebbene non tutti gli istinti debbano esserlo. Di per sé, infatti, essi non sono autoritativi106. Lo diventano una volta che l'indagine fattuale confermi il loro contenuto. Come riassume Mackie, “siamo stati allevati dalla selezione come perso- ne che imparano, non che sanno””107. Ed è in questo modo che le propensioni della mente, concepite su base humeana e rafforzate dalla spiegazione naturalistica della loro genesi prevista dal programma darwiniano, rendono possibile sciogliere ogni tensione tra empiri- smo e realismo.
106Stesso discorso vale per gli a priori kantiani. Vedi, nello specifico caso della propensione naturale a rico- noscere il fenomeno di causazione, The cement of the universe, pp. 115-116.
3.5 La riforma concettuale: la morale interpretata in chiave convenzionalistica