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Calabria: la ‘ndrangheta

Attualmente l’organizzazione criminale più potente al mondo sul piano economico risulta essere la ‘ndrangheta, affiorata ufficialmente all’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo nelle carceri della Calabria meridionale con il nome di «picciotteria». Il termine «’ndrangheta» è utilizzato nel grecanico o grico (dialetto di origine greca parlato sulle pendici meridionali dell’Aspromonte) col significato di «coraggio» o «mascolinità». Dalle carte processuali apprendiamo che negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, la cittadina di Palmi, capoluogo amministrativo della Piana di Gioia Tauro, era la prin- cipale roccaforte mafiosa in Calabria. Qui i primi picciotti estorcevano denaro a gioca- tori d’azzardo, prostitute e proprietari terrieri e regolavano sanguinosamente i loro conti affrontandosi in duelli a colpi di coltello. Molti di coloro che intraprendevano la carriera di picciotto erano giovani artigiani e braccianti. Il capo dei picciotti era France- sco Lisciotto, un calzolaio di sessant’anni. Da Palmi la picciotteria si estese alle cittadine e ai paesi di tutta la Piana e raggiunse le montagne circostanti.

Nel giugno del 1890 un procedimento giudiziario prese di mira un gruppo di picciotti con base a Iatrinoli e Radicena, due cittadine distanti circa 15 chilometri dalla costa di Gioia Tauro. Molti dei 96 imputati erano artigiani e operai. I giudici che seguirono il caso spiegarono che la setta locale era nata nel 1887.

Negli anni successivi vi furono nuovi arresti e ulteriori processi. All’inizio del 1897, a Palmi si svolse un processo che fornì per la prima volta una spiegazione dettagliata della struttura e dei rituali della mafia calabrese. La picciotteria era organizzata in cellule lo- cali, dette «sezioni», ciascuna delle quali era suddivisa in una «società minore» e in una «società maggiore»: alla prima appartenevano gli affiliati di grado più basso, ossia i «picciotti di sgarro», mentre nella seconda rientravano i criminali più importanti, chia- mati «camorristi». Entrambe le società avevano un «capo giovane» e un «contaiolo». Chi voleva entrare a far parte dell’organizzazione doveva sottoporsi ad un rituale di inizia- zione, superato il quale veniva affiliato col grado più basso nella gerarchia della società minore, quello di «giovine d’onore» o «picciotto liscio»56.

L’assetto organizzativo della picciotteria ricorda da vicino quello della n’drangheta at- tuale, che presenta una grande varietà di posizioni di comando. In particolare, all’interno

della società minore si possono individuare, oltre al capo giovane, un «picciotto di gior- nata» e un «puntaiolo». Il picciotto di giornata distribuisce gli incarichi tra i picciotti e coordina le loro azioni, mentre il puntaiolo gestisce la cassa comune dei componenti della società minore. Nella società maggiore, invece, è possibile distinguere i ruoli di «mastro di giornata», «contabile», «mastro di buon ordine», «capo locale» e/o «capo- società». Il primo ufficio, noto anche come «crimine», trasmette gli ordini della società maggiore al capo di quella minore e svolge altre funzioni simili a quelle del picciotto di giornata, mentre il contabile è il gestore della cassa comune dei membri della società maggiore. Al mastro di buon ordine spetta la risoluzione pacifica delle controversie che sorgono tra gli affiliati. Infine, il capo locale è la guida del gruppo, cui si affianca il capo società che è incaricato della custodia delle armi. A partire dagli anni Settanta del No- vecento, a questi ruoli si aggiungono i ranghi di «santista», «vangelo», «trequartino» o «quintino» e «associazione»57. In particolare, il titolo di santista dà diritto a far parte di

un’élite segreta nota come la Mamma Santissima o la Santa, istituita tra il 1972 e il 1973. La rete criminale della ‘ndrangheta ruota attorno a un simbolo religioso: il santuario della Madonna di Polsi, nascosto in una valle sopra l’Aspromonte. Durante la festa della Madonna di Polsi, si svolge la riunione annuale dei capibastone di tutta la provincia di Reggio Calabria, durante la quale vengono assegnate le cariche del gran crimine, l’orga- nismo di coordinamento della ‘ndrangheta. Il centro più vicino al santuario di Polsi è San Luca, che gli ‘ndranghetisti definiscono la loro «mamma». Le famiglie (‘ndrine) di San Luca custodiscono tradizionalmente le regole dell’organizzazione e arbitrano le contese. Ormai sappiamo con certezza che la riunione annuale di Polsi è vecchia quanto la stessa ‘ndrangheta poiché risale ai tempi della picciotteria. La rapida ascesa di questa associazione negli anni Novanta dell’Ottocento rivelò la frammentazione della classe do- minante calabrese. Divise fra loro per questioni di politica locale e proprietà di terreni, le élites calabresi non riuscirono ad affrontare compattamente il problema dei mafiosi. Il picciotto che con le sue attività delittuose portò all’attenzione dell’opinione pubbli- ca la gravità dell’emergenza criminale in Calabria fu Giuseppe Musolino, un taglialegna conosciuto come «il Re dell’Aspromonte». La sua storia iniziò il 28 ottobre 1897, quando litigò con un ragazzo di nome Vincenzo Zoccali nell’osteria di suo padre a Santo Stefano in Aspromonte. Il giorno successivo, prima dell’alba, un cugino di Musolino sparò alcuni

colpi di fucile a Zoccali, che rimase ferito. Sul posto furono ritrovati il berretto e il fucile di Musolino, che sarebbe stato catturato cinque mesi dopo tra i boschi dell’Aspromonte. Nel settembre del 1898, Musolino fu processato e condannato a 21 anni di carcere. La sera del 9 gennaio 1899 il brigante evase dal carcere di Gerace insieme ad altri tre de- tenuti, fra cui suo cugino, e nei mesi seguenti aggredì le persone che avevano testimo- niato contro di lui durante il processo e gli informatori reclutati dalla polizia per cattu- rarlo. Ad agosto Musolino si diede all’inseguimento di Zoccali recandosi nella provincia di Catanzaro, dove riuscì ad uccidere il fratello Vincenzo. A questo punto, tornò sui suoi passi e, dopo aver ucciso un uomo in un paesino vicino a Santo Stefano, scomparve dalla circolazione fino al febbraio del 1900, quando sparò per errore al cugino, ferendolo58.

All’inizio del 1901, l’agente di polizia Vincenzo Mangione fu mandato a Santo Stefano con l’incarico di studiare la picciotteria locale. Mangione compilò una serie di rapporti, da cui emerse che l’organizzazione, fondata all’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento dal padre e dallo zio di Musolino, contava 166 affiliati. Il Re dell’Aspromonte era natu- ralmente un membro della picciotteria, come suo padre.

Il pomeriggio del 9 ottobre 1901, il brigante Musolino, diventato ormai una celebrità nazionale per le sue imprese criminose, fu arrestato nelle campagne vicino a Urbino. Qualche giorno dopo venne inviato a Lucca per essere processato. Al termine del pro- cesso, Musolino fu giudicato colpevole e condannato all’ergastolo.

All’alba del 28 dicembre 1908 un fortissimo terremoto devastò Messina, Reggio Cala- bria e molte cittadine e paesi dell’Aspromonte. Si calcola che le vittime furono circa 80.000. Dopo il disastro, il problema del controllo dei fondi pubblici per la ricostruzione fu al centro della vita economica e politica in gran parte dell’area colpita. A Reggio Cala- bria esponenti della malavita si aggiravano negli spacci di alcolici dove andavano a bere i manovali. Qui nel 1913 la polizia mandò in galera 83 affiliati ad un gruppo mafioso. Dopo qualche anno, i picciotti calabresi tornarono ad alzare la testa nel caos della smobilitazione che seguì alla prima guerra mondiale. Nel 1918 si formarono bande cri- minali in cui si mescolavano ex combattenti e veterani del crimine organizzato. L’avia- tore Domenico Noto, originario di Antonimina, si pose alla testa di una di queste ban- de59. Gli affiliati alla banda di Noto, suddivisi in picciotti e camorristi, si dedicavano so-

58 Queste e altre vicende che segnarono la carriera criminale di Musolino sono raccontate dettagliata- mente in J. Dickie, Onorate Società, cit., pp. 186-189.

prattutto all’abigeato. I nuovi membri della setta dovevano pagare una quota di ammis- sione prima di pronunciare il loro giuramento di sangue. Come i primi picciotti, Noto e i suoi uomini intimidivano i più deboli per convincerli a pagare la quota.

Nella seconda metà degli anni Venti, il fascismo lanciò una campagna antimafia nel Mezzogiorno. In Calabria, ci furono centinaia di arresti e qualche processo di vaste pro- porzioni. Nonostante ciò, Mussolini non fece alcun accenno alla picciotteria nel discorso dell’Ascensione del 1927. Il silenzio al riguardo era una prova del fatto che la lotta alla criminalità organizzata calabrese non offriva grandi benefici dal punto di vista politico. In un processo del 1932 contro 90 imputati, gli inquirenti scoprirono che la mafia calabrese era divisa in cellule locali dette «’ndrine» (parola che deriva forse dal termine «malandrina», usato per definire la sezione di un carcere riservata alle bande criminali) e aveva un proprio organo di governo chiamato «Crimine», alla guida del quale vi era il cosiddetto «gran criminale», che interveniva per ricomporre le dispute all’interno di una ‘ndrina o fra diverse ‘ndrine della provincia di Reggio Calabria.

La campagna repressiva del fascismo contro la picciotteria non sortì gli effetti sperati perché, fin dai primi mesi di vita del regime, il Pnf calabrese dimostrò un’esasperante in- clinazione ai soliti vizi locali: clientelismo, corruzione e lotte tra fazioni. Questa situa- zione favoriva sempre più l’infiltrazione della mafia calabrese nel sistema giudiziario attraverso l’amministrazione pubblica. Mentre si rafforzavano sottraendo energia allo Stato, i picciotti imparavano a trasformare il crimine in un’azienda familiare60.

Durante la seconda guerra mondiale, lo scontro fra Alleati e tedeschi in buona parte della Calabria ebbe breve durata, e, al termine dei combattimenti, l’Amgot mantenne nella regione una struttura di controllo ridotta al minimo. Il Governo militare alleato non si accorse della presenza dell’Onorata Società calabrese, che rimase quasi invisibile agli occhi dell’opinione pubblica. L’ascesa del boss Antonio (‘Ntoni) Macrì costituisce un ti- pico esempio di ciò che gli Alleati non riuscivano a vedere. Nato nel 1904 a Siderno, nella Locride, don ‘Ntoni iniziò la sua carriera criminale alla fine degli anni Venti, quando fu più volte arrestato per aggressione e porto d’armi illegale. Nel 1933, grazie a un’amni- stia, uscì di prigione prima di aver finito di scontare la sua condanna a 5 anni.

Nell’agosto del 1944, con la fine del Governo militare alleato e il ritorno della Calabria sotto il controllo italiano, don ‘Ntoni venne identificato come il capo di un’organizza-

zione criminale e condannato al domicilio coatto. Nell’aprile del 1946 il boss latitante fu scovato e arrestato nel centro di Locri, con in tasca un pugnale e una rivoltella. Nel luglio dello stesso anno venne assolto dai magistrati per «insufficienza di prove». Negli anni successivi don ‘Ntoni sarebbe diventato lo n’dranghetista più famoso di tutti, il capo dei capi della ‘ndrangheta.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, mentre l’Italia transitava verso la demo- crazia, in Calabria i carabinieri «cogestivano» la piccola criminalità con i boss della ma- lavita locale. I notabili usavano la ‘ndrangheta per guadagnare elettori e poi ricambia- vano il favore dichiarando in tribunale che non esisteva nessuna organizzazione crimi- nale. I governi che si susseguivano alla guida del paese incassavano i voti dei parlamen- tari calabresi sostenuti dagli ‘ndranghetisti e ignoravano l’esistenza dell’Onorata Società. Nel 1955, gli omicidi compiuti nel paesino di Presinaci da un contadino di nome Se- rafino Castagna portarono all’attenzione dell’opinione pubblica la gravità del problema mafioso in Calabria61. Due mesi prima di essere arrestato, Castagna ⎼ noto come il

«mostro di Presinaci» per la crudeltà con cui aveva ucciso le sue vittime ⎼ inviò ai carabinieri un memoriale in cui spiegava di essere affiliato a quella che lui definiva «Onorata Società della Fibbia» o, più semplicemente, «mafia». Poi, quando fu assicurato alla giustizia, rivelò quello che sapeva sull’Onorata Società calabrese, fornendo alle auto- rità nomi e prove.

In prigione, il «mostro di Presinaci» trasformò il suo memoriale in un’autobiografia intitolata Tu devi uccidere. Nel libro, tra le altre cose, egli scriveva che la banda criminale del suo paese aveva un organo giudicante, chiamato «Tribunale dell’Umilità», e raccon- tava la leggenda dei tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che, per aver vendicato lo stupro della sorella, erano stati costretti a fuggire dalla Spagna e a rifugiarsi sull’isola di Favignana, in cui avevano trascorso alcuni anni a elaborare regole e rituali dell’Onorata Società, prima di separarsi: Osso era sbarcato in Sicilia, dove aveva dato vita alla mafia; Mastrosso si era recato a Napoli per fondare la camorra; Carcagnosso era giunto in Calabria e aveva costituito la ‘ndrangheta.

Lo scandalo del «mostro di Presinaci» inaugurò un anno di violenza generalizzata in Calabria. Per porre fine ad una situazione che si stava facendo sempre più caotica, nel lu- glio del 1955 il democristiano Fernando Tambroni, nuovo ministro dell’Interno, lanciò

una campagna repressiva contro la ‘ndrangheta. Il questore Carmelo Marzano fu incari- cato di dirigere quella che sarebbe passata alla storia come «Operazione Marzano»62.

Un’occasione utile per far scattare l’operazione fu la festa della Madonna della Montagna a Polsi, durante la quale furono arrestati 14 uomini, con accuse che andavano dal porto abusivo d’armi al sequestro di persona e al tentato omicidio. Nei giorni e nelle settimane seguenti, vi furono nuovi arresti in tutta la provincia di Reggio Calabria.

L’Operazione Marzano favorì l’apertura di un dibattito nazionale sul crimine organiz- zato in Calabria e portò alla luce i rapporti esistenti tra politici ed esponenti della mala- vita, ma non ebbe effetti duraturi. Infatti, poco dopo la partenza del questore, gli ‘ndran- ghetisti tornarono dal confino a cui erano stati condannati e tutto tornò alla normalità. Nei primi anni Sessanta in Italia si cominciò a costruire l’«Autostrada del Sole», de- stinata ad attraversare il paese da Nord a Sud. Quasi cinquant’anni dopo l’inizio dei lavori la Salerno-Reggio Calabria, ultimo tratto di questa autostrada, non è stata ancora completata. In tutto questo tempo la ’ndrangheta ha realizzato enormi profitti nell’in- dustria delle costruzioni approfittando dei continui ritardi nella conduzione dei lavori da parte degli imprenditori edili settentrionali. Come in Campania e in Sicilia, al flusso di denaro prodotto dal cemento si aggiunsero gli introiti del contrabbando di sigarette, in cui camorristi, mafiosi e ‘ndranghetisti iniziarono a lavorare insieme.

Nella Calabria meridionale degli anni Sessanta il potere mafioso era suddiviso fra la striscia di terra posta di fronte alla Sicilia (comprendende la città di Reggio Calabria), la costa ionica e la costa tirrenica. Gli affari della ‘ndrangheta in queste aree erano forte- mente influenzati da un triumvirato composto dai boss ‘Ntoni Macrì, Domenico (Mico) Tripodo e Girolamo (Mommo) Piromalli, affiliati a Cosa Nostra. Il primo estendeva la sua autorità su tutta la costa ionica; il secondo controllava Reggio Calabria e dintorni; il terzo era il capobastone più importante della Piana di Gioia Tauro. L’autorità esercitata dai triumviri era il sintomo di una tendenza alla centralizzazione della mafia calabrese. Nel 1969, tuttavia, il tentativo di unificare le ‘ndrine sarebbe fallito durante il cosiddetto «summit di Montalto».

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’Italia fu colpita da gravi turbolenze politiche, che misero in moto un pericoloso processo di destabilizzazione della società noto come «strategia della tensione». Nel Sud, l’effetto più vistoso di questo

processo si vide durante l’insurrezione di Reggio Calabria, svoltasi nel luglio del 1970. Le manifestazioni degli insorti scatenarono una dura reazione da parte della polizia. In città furono costruite barricate e si verificarono attentati contro le infrastrutture di trasporto e occupazioni di edifici pubblici. Gli scontri proseguirono per circa otto mesi, e termina- rono solo nel momento in cui i carri armati dell’esercito arrivarono sul lungomare. La causa di tutte queste violenze era la mancata designazione di Reggio Calabria come capoluogo di regione. Gli abitanti della città erano convinti che i politici di Catanzaro e Cosenza avessero stretto tra loro un patto segreto per spartirsi i benefici dell’ammi- nistrazione regionale. Afflitta da una disoccupazione cronica e da una continua crisi degli alloggi, la popolazione reggina colse questo pretesto per inscenare una contestazione di massa contro i suoi rappresentanti politici. La rivolta fu guidata inizialmente da demo- cristiani dissidenti del posto, poi da un Comitato d’azione presieduto da un esponente del Movimento Sociale Italiano (Msi). Durante l’insurrezione, tra coloro che costruirono e presidiarono le barricate vi furono alcuni ‘ndranghetisti, che fornirono armi ed esplo- sivi al Comitato d’azione63.

Il governo centrale rispose alla rivolta incrementando l’offerta di favori attraverso un piano di investimesti conosciuto come «pacchetto Colombo», dal nome del presidente del Consiglio dell’epoca. Uno dei punti previsti dal piano era la realizzazione di un nuovo impianto siderurgico a Gioia Tauro, sulla costa tirrenica.

La crisi economica degli anni Settanta provocò un ridimensionamento del pacchetto Colombo. Lo stabilimento siderurgico di Gioia Tauro non venne mai portato a termine, a causa di una diminuzione significativa del prezzo dell’acciaio. Anche i successivi progetti per la realizzazione di una centrale elettrica non videro mai la luce. Alla fine si decise di trasformare il sito in un interporto per container, che sarebbe stato inaugurato nel 1994. Negli anni Settanta, la mafia calabrese emerse dalla condizione di latenza e margi- nalità che aveva caratterizzato la sua presenza nella provincia di Reggio Calabria. Il momentaneo declino della camorra in Campania e la delega a sfruttare il contrabbando a causa di una dura repressione messa in atto dalla polizia in Sicilia si combinarono con un massiccio afflusso di capitale pubblico nel Reggino, determinando così una forte spinta verso lo sviluppo in senso imprenditoriale delle principali cosche locali. Quella che fino ad allora era stata una mafia rurale si trasformò dunque in una mafia urbana. I tre fra-

telli De Stefano ⎼ Giorgio, Paolo e Giovanni ⎼ incarnavano pienamente il nuovo modello del mafioso-imprenditore. Essi provenivano da Reggio Calabria, città controllata da Mico Tripodo, che passava gran parte del suo tempo in Campania per consolidare i rapporti di amicizia con i camorristi dell’entroterra napoletano. In sua assenza, ebbe inizio l’ascesa rapida dei fratelli De Stefano, i quali si inserirono prepotentemente nella spartizione degli appalti per il centro siderurgico di Gioia Tauro e al contempo spodestarono i vecchi boss della mafia tradizionale. Le ambizioni dei fratelli De Stefano, insieme all’istituzione della Santa e al nuovo business mafioso dell’industria dei sequestri, furono una delle cause della cosiddetta «prima guerra di ‘ndrangheta».

Il 24 novembre 1974 in un bar di Reggio Calabria due killer uccisero a colpi di pistola Giovanni De Stefano e ferirono gravemente il fratello Giorgio. Questo episodio provocò lo scoppio delle ostilità tra due schieramenti contrapposti: da un lato Mico Tripodo, so- stenuto da ‘Ntoni Macrì, dall’altro i fratelli De Stefano, spalleggiati da Mommo Piromalli. Il conflitto durò tre anni e fece registrare 233 vittime, tra cui una ventina di vecchi capi. Il 20 gennaio 1975 a Siderno don ‘Ntoni cadde sotto i colpi dei sicari dopo aver giocato una partita a bocce con il suo autista. Il 26 agosto 1976 fu la volta di Mico Tripodo, accoltellato da due piccoli delinquenti napoletani nel carcere di Poggioreale su ordine di un boss della Nuova Camorra Organizzata.

L’eliminazione del vecchio boss di Reggio Calabria e dintorni segnò la vittoria dei fra- telli De Stefano e dei Piromalli. Dopo l’assassinio di Giorgio, avvenuto nel novembre del