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Scenari e strategie del crimine in Puglia

2.4. Terra di Bar

2.4.1. Uno sviluppo urbanistico contraddittorio

Nel corso degli anni Ottanta la struttura della città di Bari e le funzioni dei principali centri della provincia erano profondamente cambiati. Il nuovo assetto urbano, deter- minato dall’andamento demografico e dagli indicatori dei valori sociali, influì sulla distri- buzione dei diversi fenomeni criminali nel capoluogo e nel resto della provincia. La cre- scente insicurezza di Bari era testimoniata dai 63 furti denunciati ogni 24 ore e dalle 3 rapine ogni 2 giorni, dai 2 negozi svaligiati ogni notte e dai 5 appartamenti che venivano derubati ogni giorno. Tra il 1984 e il 1991 una famiglia barese su otto aveva subito la violazione della porta di casa e il furto dei beni custoditi all’interno delle mura dome- stiche. La sensazione di insicurezza nel capoluogo era ulteriormente accresciuta dai 2 omicidi volontari che si registravano in media ogni mese. Nella provincia di Bari in otto anni, tra il 1981 e il 1989, la popolazione aumentò di oltre 73 mila unità, passando da 1.465.000 a 1.538.195 abitanti25.

Nei 14 comuni più vicini a Bari si registravano 22.600 nuovi residenti, che assunsero ruoli sempre più importanti dal punto di vista della ricerca di migliori condizioni di vita e della localizzazione delle infrastrutture commerciali.

I continui spostamenti di residenza degli abitanti del capoluogo e il decentramento di grandi strutture commerciali (il BariCentro e il Parco Commerciale Barese) comporta- rono un’intensa espansione edilizia dei commerci e un forte aumento della circolazione degli autoveicoli.

La densità di abitanti per chilometro quadrato a Bari ammontava a 3.090,29, su una superficie di 116,14 km2. Si trattava di un’area modesta, inferiore di quasi tre volte a

quella di alcuni medi centri della provincia, come Andria e Altamura.

L’insufficiente patrimonio edilizio accentuò il fenomeno del pendolarismo delle forze di lavoro, a cui si aggiunse una riduzione della popolazione residente nel capoluogo. Dal 1983 i dati dell’Istat segnalavano, infatti, un costante incremento della popola- zione residente sul totale dei 48 comuni della provincia ⎼ passata da 1.493.000 a 1.530.000 abitanti ⎼ al contrario del capoluogo, che era in discesa. Tra il 1983 e il 1989

(dati risalenti al 31 dicembre) la città di Bari perdeva infatti circa 21.000 abitanti, pas- sando dai 372.000 ai 351.000 residenti. Nel censimento Istat del 1991, la popolazione residente nel capoluogo risultava essere composta da 341.022 unità, con un’ulteriore perdita di 10.000 abitanti rispetto a due anni prima. Nonostante i dati del censimento dicessero che a Bari c’erano ben 16.000 appartamenti non occupati, in città si costrui- vano ancora abitazioni per soddisfare la crescente domanda di casa. Gli urbanisti locali sottolineavano che si costruiva impegnando nuovi terreni agricoli, e lasciando degradare i vecchi edifici, inutilizzabili dal punto di vista architettonico e urbanistico.

Questa rivoluzione demografica favorì la nascita del fenomeno della pressione eser- citata dalla malavita sui centri decisionali pubblici per il controllo degli appalti e delle concessioni. Con la crescita degli interessi affaristici amministrativi si consolidò un rap- porto privilegiato tra potere pubblico e imprese a partecipazione statale, si moltiplica- rono le rendite di posizione che favorivano la corruzione e si instaurò una pericolosa selezione dell’imprenditoria: prevalse quella che si era «fatta da sola sul mercato glo- bale, spesso piccola e di prima generazione, talvolta marginale, talvolta forte e dinamica, un’imprenditorialità più organica ai nuovi ritmi dell’economia globale, mobile e senza le rigidità della grande impresa»26. In questo quadro si collocarono i due quartieri baresi di

San Paolo e Japigia, sorti sulla base di un progetto degli anni Sessanta, che prevedeva la centralizzazione dei servizi forniti dall’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp) ai 60.000 abitanti che vi risiedevano.

Il San Paolo dista circa 10 chilometri a ovest del centro storico di Bari, mentre Japigia si trova a sud della fascia costiera. Qui si trasferirono gli strati più poveri dei quartieri Li- bertà, San Girolamo e San Nicola.

La crescita urbana incontrollata deteminò un graduale mutamento della struttura de- mografica e socio-economica di Bari, «evidenziando disuguaglianze e fasce d’emargina- zione soprattutto nelle aree prive di sufficienti e adeguati servizi sociali (San Nicola, San Paolo e, in parte, Libertà)»27. In tale contesto si sviluppò la mafia barese.

26 F. Cassano, Oltre il Novecento, in A. Massafra, B. Salvemini (a cura di), Storia della Puglia. 2. Dal Sei-

cento a oggi, Laterza, Roma-Bari 20052 (I ed. 1999), p. 223. 27 N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., p. 109.

2.4.2. La delinquenza minorile

Alla fine degli anni Ottanta Japigia divenne un centro di spaccio di eroina, gestito dal boss Savino Parisi, ex manovale, garzone di salumeria e commerciante di cavalli, che nel giro di pochi anni si affermò come il trafficante di droga più importante di Bari.

Quando la banda di Parisi subì un duro colpo da parte della magistratura e delle forze dell’ordine, il quartiere Japigia, che era diventato un punto di riferimento dei piccoli spacciatori e dei tossicodipendenti di tutta l’Italia, si svuotò e fu sostituito dal “mercato” di Ceglie del Campo, un altro quartiere periferico situato a sud del centro di Bari, in cui le nuove bande di minori si affermarono con impressionante velocità. A Japigia come a Ceglie un esercito di ragazzini, assoldati dai boss baresi, svolgeva i compiti di corrieri, vigilanti, pali e vedette. Quando arrivavano poliziotti o carabinieri, i piccoli criminali avvisavano gli spacciatori, che subito si dileguavano facendo perdere le loro tracce. Il 20 novembre 1990 la Commissione parlamentare antimafia, che si trovava a Bari, sottolineò la necessità di un impegno forte per evitare il coordinamento tra i giovani e i mafiosi e avvertì «che i quartieri dormitori rappresentavano l’ideale area di recluta- mento dei ragazzi emarginati»28. Nonostante tale avvertimento, non si intervenne in ma-

niera adeguata per impedire la saldatura tra baby killer e criminalità organizzata.

Il salto di qualità della delinquenza minorile barese era dovuto all’enorme disponibi- lità e facile reperibilità di armi. Nel 1991 solo a Bari 22 ragazzini erano stati denunciati per omicidio. La piccola criminalità esplose in modo particolare a Japigia, a Bari vecchia e a San Paolo. Qui i postini che consegnavano le bustine di eroina agli acquirenti erano spesso ragazzini dodicenni. Anche i killer e le vittime della Scu e gli estorsori di Ceri- gnola o dei centri dell’area metropolitana di Bari erano giovanissimi.

Le famiglie assistevano quasi passivamente all’estendersi ai propri figli della sub- cultura mafiosa che caratterizzava la criminalità adulta. Ciò avveniva attraverso l’im- piego diretto di minorenni in attività criminose. A Bari questo fenomeno era più preoc- cupante che altrove. Nel capoluogo pugliese si registravano infatti tantissimi casi di ra- gazzi con pistole fermati insieme a giovani maggiorenni.

Quando i successi dell’attività di contrasto condotta dalle forze dell’ordine privavano molti clan dei loro capi storici, i giovani ⎼ talvolta figli, nipoti o parenti ⎼ entravano in po-

sizione di comando nelle varie organizzazioni.

Nonostante il pericoloso sviluppo dei rapporti tra la criminalità organizzata e i minori, la magistratura barese era pervasa da un clima di ottimismo. I processi alla cosiddetta «camorra pugliese» svoltisi a Bari tra il 1986 e il 1987 si conclusero con la condanna ai sensi dell’art. 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) di soli 2 imputati29

su 165; gli altri furono condannati in base all’art. 416 (associazione a delinquere sem- plice). Una clamorosa smentita arrivò con la successiva morte violenta di diversi impu- tati per regolamento di conti e per le lotte di predominio territoriale. Inoltre, buona parte degli stessi imputati furono rinviati a giudizio dal giudice istruttore del Tribunale di Lecce per altri reati punibili ai sensi dell’art. 416 bis.

2.4.3. Un panorama frammentato

A Bari e provincia erano attivi complessivamente 18 clan con circa 473 affiliati, no- nostante la polizia avesse già arrestato 181 criminali e molti capiclan come Salvatore Annacondia e Mario Capriati, diventati in seguito collaboratori di giustizia. Nel Nord barese, la «delinquenza di tipo tradizionale»30 dei comuni di Andria, Barletta, Trani e

Canosa di Puglia si dedicava prevalentemente ai furti di tir, alle rapine e al contrab- bando di tabacchi. Vi erano, inoltre, nuove generazioni della malavita, che avevano scelto come proprio campo d’azione il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti e che erano riuscite ad ottenere un peso sufficiente a permettere loro di allearsi in funzione tattica con la ‘ndrangheta calabrese, con la criminalità turca e con quella sudamericana. Il sud della provincia subiva invece l’influenza della malavita brindisina nel contrabbando di sigarette e nel traffico di droga.

Nel 1987 si formò un’associazione autonoma, chiamata «La Rosa», a capo della quale vi era Oronzo Romano (originario di Acquaviva delle Fonti), i cui luogotenenti erano Giovanni Dalena e Giuseppe Dentice. Uomo molto legato a Pino Rogoli, considerato uno dei fondatori della Sacra Corona Unita, Romano si pose alla guida di una federazione tra i clan mafiosi di Acquaviva delle Fonti e dei paesi circostanti (Gioia del Colle, Conversano, Putignano, Alberobello, Locorotondo), marcando le distanze dal Salento rogoliano.

29 Si tratta dei tarantini Aldo Vuto e Antonio Modeo. Di quest’ultimo si dirà più avanti. 30 Commissione parlamentare antimafia, Doc. XXIII, n. 38, cit., p. 8.

Il 12 gennaio 1991 il Tribunale di Bari emise una sentenza che definiva La Rosa come un’organizzazione criminale attiva nel Sud barese, il cui capo aveva avuto collegamenti con illustri esponenti della mafia (Fidanzati) e della ‘ndrangheta (Costa). Nel corso degli anni Novanta La Rosa sarebbe stata sostituita nella stessa zona da un nuovo gruppo criminale denominato «Sacra Corona Autonoma», in stretto contatto con i clan Anemono e Parisi di Bari.

Nell’ottobre del 1991, la Commissione parlamentare antimafia segnalava la perico- losità delle cosche baresi dei Diomede e dei Montani, che con metodi spietati si conten- devano il controllo del traffico di sostanze stupefacenti nel quartiere San Paolo. A Bari e provincia si era registrato un miglioramento organizzativo delle cosche autonome. Le stesse forze dell’ordine sostenevano che le organizzazioni criminali locali stavano assu- mendo connotazioni vicine a quelle delle mafie tradizionali della Campania, della Sicilia e della Calabria, a cui davano sostegno e aiuto attraverso rapporti economici illeciti ri- guardanti principalmente il contrabbando di sigarette e il traffico di stupefacenti.

Le sigarette vendute illegalmente in Campania provenivano dalla Puglia; qui il con- trabbando era gestito da campani legati alla Nuova Famiglia, associata ai pugliesi, tra cui i Cannito di Barletta e gli Annacondia di Trani nel Nord barese. Questi ultimi, come i loro colleghi brindisini, importavano le sigarette di contrabbando provenienti dai porti dell’Albania e del Montenegro31.

Le organizzazioni criminali del Barese gestivano il commercio della droga diretta- mente con i paesi produttori (in particolare Colombia, Siria e Libano), mantenendosi in collegamento con mafiosi calabresi e siciliani, attivi nelle zone d’origine e a Milano. Dopo essere stata acquistata, ogni singola sostanza stupefacente veniva estratta dalla plastica, nella quale prima della partenza era stata sintetizzata. Una volta effettuata questa opera- zione, la polvere bianca veniva venduta sul territorio pugliese. Le attività dirette allo spaccio di sostanze stupefacenti si addentrarono persino in alcuni comuni della pro- vincia che si ritenevano avulsi da tale fenomeno, come Triggiano e Palo del Colle.

Nel capoluogo, oltre allo spaccio di droga, le attività più ricorrenti erano il traffico di armi, le estorsioni, il contrabbando di tabacchi lavorati esteri, il riciclaggio e l’usura. Queste attività erano condotte da 7 sodalizi criminosi, operanti nei vari quartieri di Bari:

31 Una testimonianza sul contrabbando di sigarette tra i porti montenegrini di Bar e Zelenika e quelli pugliesi di Bari e Brindisi è fornita da M. Dell’Omo, Tra i contrabbandieri pirati dell’Adriatico, in «La Re- pubblica», 25 maggio 1997.

i clan Anemono, Capriati, Diomede, Maisto, Manzari, Montani e Parisi. Al contempo, nella stessa città stavano emergendo due famiglie contrapposte: i Binacoli e i Laraspata, già attivi nel territorio. Altri clan operavano nella provincia di Bari; i maggiori tra essi erano gli Albano, gli Sgaramella, i Leoci e i Muolo.

Tutte le varie cosche erano caratterizzate, in varia misura, da due fattori essenziali che contribuivano a rafforzare ogni singolo gruppo: il vincolo di parentela e la ramifica- zione nei diversi quartieri della città.

2.4.4. Le inchieste sul rogo del Teatro Petruzzelli e sulle Case di Cura Riunite

La notte del 27 ottobre 1991, il Teatro Petruzzelli fu dato alle fiamme da ignoti. A dare l’allarme fu il custode del teatro, Giuseppe Tisci, che poco dopo le 3 di notte si svegliò di soprassalto per l’odore di fumo che aveva avvertito durante il rogo32.

La prima inchiesta condotta dalla magistratura del Tribunale di Bari si chiuse il 21 aprile 1993 con il proscioglimento di 19 imputati, accusati di omicidio colposo e abuso d’ufficio: i proprietari del teatro Maria, Teresa, Vittoria, Chiara, Marisa Rosalba e Stefa- nia Messeni Nemagna, il gestore Ferdinando Pinto e i membri della commissione tecnica che aveva dichiarato agibile l’edificio del Petruzzelli.

L’inchiesta venne riaperta in seguito alle rivelazioni di Salvatore Annacondia, che svelò ai magistrati leccesi e poi a quelli baresi ciò che aveva appreso da Tonino Capriati e da Savino Parisi nell’ottobre del 1992 all’interno del carcere di Bari. I due boss avevano un debito di riconoscenza con lo stesso Annacondia: Capriati era stato in affari con lui nel traffico illecito di sigarette e gli aveva commissionato cinque omicidi; Parisi, invece, si riforniva di sostanze stupefacenti da lui sin dal 1987. Inoltre, sempre secondo la ver- sione del pentito, i due dovevano informarlo di quello che facevano.

Annacondia raccontò che Capriati aveva conosciuto Ferdinando Pinto tramite il suo cassiere Vito Martiradonna, detto «Vitino l’Enel», assiduo frequentatore della classe di- rigente di Bari, dei circoli di tennis e vela e del Teatro Petruzzelli. Alcuni politici con- tattarono Martiradonna e gli chiesero di bruciare il Petruzzelli senza distruggerlo. Pinto aveva già progettato un altro teatro, ossia la tensostruttura denominata «Città di Fede-

32 Una prima ricostruzione dell’incendio è fornita da G. Campione, Lo spettro dell’attentato, in «La Gaz- zetta del Mezzogiorno», 28 ottobre 1991.

rico», ma non poteva ricevere i finanziamenti necessari per il suo progetto perché il Pe- truzzelli doveva essere restaurato. Ai politici coinvolti nell’operazione sarebbe stato ga- rantito il 30%. Inizialmente Parisi, preoccupato della reazione dei cittadini per l’incendio del teatro, non avrebbe voluto partecipare; ma poi, su insistenza di Capriati, accettò33.

La tensostruttura gestita da Pinto sorse nell’area della caserma Rossani. L’iniziativa suscitò subito una serie di polemiche e di sospetti. Il 23 novembre 1992 l’assessore co- munale Domenico Magistro e un funzionario del comune, Michelangelo Spilotros, furo- no arrestati per irregolarità urbanistiche. Tre mesi dopo la struttura venne smontata. Nel maggio del 1993 la Procura di Lecce trasmise ai magistrati di Bari che gestivano il caso Petruzzelli gli atti relativi alle rivelazioni di Annacondia sull’incendio del teatro. Ai sostituti procuratori baresi Annacondia spiegò anche che il rogo era stato appiccato da vari punti. Queste indicazioni trovarono conferma nella relazione redatta dalla commis- sione dei periti nominati dal tribunale, dei cui risultati il pentito non era a conoscenza. Il 9 giugno 1993, i proprietari, che avevano rifiutato la somma di 20 miliardi di lire offerta dalla fondazione, annunciarono di essere pronti a ricostruire il teatro. Nacque così il Consorzio Recupero Patrimonio Artistico di Bari, formato da 10 imprese locali. Nonostante ciò, l’inchiesta non fu archiviata. Il 7 luglio 1993 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, accogliendo le richieste presentate dai sostituti procu- ratori antimafia Giuseppe Chieco e Carlo Maria Capristo e dai giudici dell’antimafia na- zionale, firmò cinque ordinanze di custodia cautelare contro l’ex gestore del teatro Fer- dinando Pinto, il custode Giuseppe Tisci, i boss baresi Antonio Capriati e Savino Parisi e l’usuraio Vito Martiradonna, cassiere del clan Capriati di Bari Vecchia.

Sedici giorni dopo, il 23 luglio 1993, la Prima Sezione Penale, in qualità di Tribunale del Riesame, ordinò la scarcerazione di Ferdinando Pinto e degli altri indagati. Il 29 luglio, la Procura distrettuale antimafia di Bari inviò alla Corte di Cassazione un ricorso contro il provvedimento del Tribunale del Riesame. Alla fine di ottobre, la Cassazione sentenziò che non esistevano gravi indizi utili per procedere agli arresti degli indagati34.

Nell’aprile del 1998 il Tribunale di Bari condannò a 7 anni e 8 mesi di reclusione l’ex amministratore del teatro Pinto35, che avrebbe commissionato l’incendio alla mafia ba-

33 Altri dettagli emergenti dalle rivelazioni di Annacondia sono esposti in N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., pp. 129-130.

34 Cfr. ivi, p. 133.

35 Questo fatto è ricostruito, tra gli altri, da D. Castellaneta, Pinto condannato a 7 anni. Fece bruciare il

rese, con l’intento di gestire successivamente i fondi della ricostruzione e coprire così i suoi ingenti debiti personali, per far fronte ai quali si sarebbe rivolto all’usuraio Vito Martiradonna per ottenere un prestito di 800 milioni di lire36.

Mentre il Tribunale di Bari si trovava a gestire l’inchiesta sul rogo del Petruzzelli, il sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia Alberto Maritati, esaminando gli atti di un processo contro i mafiosi baresi, scoprì che tra quelle carte affiorava il colle- gamento tra i clan di Bari e la Gero Service, la società di servizi delle Case di Cura Riu- nite37 di Francesco Cavallari38. Attraverso tale società venivano controllate e gestite le

assunzioni, spesso suggerite dai clan mafiosi. In un computer della Gero Service è stato scoperto un file, intitolato «mala.doc», in cui accanto al nome di ciascuno dei dipendenti veniva indicato quello del protettore, che spesso era un esponente di una cosca locale. In tal modo, venne alla luce l’esistenza di un rapporto di collusione tra Cavallari e le cosche mafiose: il primo garantiva le assunzioni di personale segnalato dai mafiosi, men- tre questi ultimi offrivano la loro «protezione», impedendo qualsiasi attività sindacale dei dipendenti. Il tutto sarebbe stato garantito da un patto che Cavallari, conosciuto come «il re delle cliniche private», avrebbe stretto con Savino Parisi detto «Savinuccio» (capo dell’omonimo clan operante prevalentemente nel quartiere Japigia), con Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati (capi del clan Capriati operante in Bari vecchia) e con altri esponenti della criminalità locale che avevano interessi comuni con i clan malavi- tosi (tra cui Michele e Vito Giammaria, Michele De Giosa e Silvestro Ripoli).

Su richiesta di Maritati, il 26 aprile 1993 la Guardia di Finanza trasmise all’autorità giudiziaria un elenco di nominativi di circa 150 dipendenti della Gero Service e dei ri- spettivi protettori malavitosi.

A partire dal maggio 1994 Cavallari fu coinvolto in un’inchiesta della Direzione Di- strettuale Antimafia di Bari, supportata dalla Direzione Nazionale Antimafia. Tale inchie- sta sfociò in una operazione giudiziaria denominata «Operazione Speranza», che portò

36 Nel 2001 la Seconda Sezione della Corte d’Appello di Bari ha assolto Pinto e gli altri imputati dei pro- cessi sul rogo del Petruzzelli da quei reati che non erano stati ancora prescritti: abuso d’ufficio e falso ideologico. Per una breve ricostruzione di tale vicenda in chiave polemica, si invita alla lettura di M. Chia- relli, Città di Federico, tutti assolti, in «La Repubblica», 14 luglio 2001.

37 Con complessivamente 4000 dipendenti, le Case di Cura Riunite, che comprendono 10 cliniche pri- vate a Bari e provincia, hanno costituito la prima azienda sanitaria privata in Italia fino alla metà degli anni Novanta.

38 Francesco Cavallari è stato un imprenditore che nel 1976 ha fondato le Case di Cura Riunite srl di Bari, di cui è rimasto presidente fino alla fine del 1994. Nel 1995 Cavallari è stato condannato dal Tribunale di Bari per violazione dell’articolo 416-bis del Codice Penale.

all’esecuzione di numerosi arresti nei confronti di ministri della Repubblica, sottosegre- tari, parlamentari, assessori, imprenditori, magistrati, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti e affiliati alla criminalità organizzata barese all’alba del 28 marzo 1995. Tra gli arrestati figuravano Michele Bellomo (Dc), ex presidente della Regione Puglia; Franco Borgia (Psi), ex vice presidente della Regione ed ex parlamentare; Nicola di Cagno (Pli), ex assessore regionale al Bilancio; Giovanni Memola (Psi), sindaco in carica di Bari. Due politici pugliesi di livello nazionale come il socialista Salvatore (Rino) Formica e il demo- cristiano Vito Lattanzio, accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, furono posti agli arresti domiciliari.

Durante il procedimento giudiziario Cavallari, che subì la confisca di un patrimonio miliardario, patteggiò una pena per 22 mesi di reclusione, mentre tutti gli altri imputati finirono sotto processo e furono poi assolti definitivamente dalla Corte di Cassazione, dopo che gli altri gradi di giudizio avevano constatato l’insussistenza delle accuse39.

2.4.5. I rapporti tra mafia e pubblica amministrazione