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Taranto e la provincia ionica

Scenari e strategie del crimine in Puglia

2.5. Taranto e la provincia ionica

2.5.1. Una grande città in crisi

L’improvviso emergere della criminalità organizzata a Taranto è legato ad una grave crisi economica che investì la città nel corso degli anni Ottanta. Un primo elemento costi- tutivo della crisi era la decadenza del polo siderurgico della città, che sfociò nella pri- vatizzazione dell’ex Italsider (oggi Ilva). Un secondo elemento era la condizione di caos amministrativo derivante dalla selezione di una classe politica che in alcuni suoi am- bienti era apparsa vicina alla malavita cittadina. A riprova, vennero segnalati rapporti tra il consigliere comunale di Taranto Alfonso Sansone e il pregiudicato Francesco Ba- sile44, ucciso nel settembre del 1988.

L’industrializzazione forzata del capoluogo ionico aveva comportato la nascita di quartieri periferici privi dei necessari servizi assistenziali e destinati a divenire luoghi di emarginazione sociale. Il caso più famoso è quello del quartiere Paolo VI, che si trova a ridosso dello stabilimento siderurgico. Si tratta di un quartiere-dormitorio, che era stato edificato negli anni Settanta allo scopo di risolvere il problema della casa per i dipen- denti dello stabilimento siderurgico, molti dei quali, provenendo dalle città vicine o dai paesi limitrofi o dalla campagna, avevano difficoltà a raggiungere l’opificio. Un quartiere che nel giro di un decennio sarebbe divenuto teatro di numerosi fatti di sangue.

Una tessera fondamentale per la piena comprensione del fenomeno mafioso a Taranto e nella sua provincia riguarda lo svuotamento delle campagne in seguito al massiccio inurbamento dei contadini nell’industria dell’acciaio. Uno svuotamento progressivo che aveva portato al dilagare di un fenomeno ai margini della legalità: il «caporalato», ossia il reclutamento e collocamento abusivi di manodopera in agricoltura. A causa dell’ope- raizzazione di gran parte della forza-lavoro bracciantile, venne alla ribalta la figura del «caporale», che arruolava una moltitudine di ragazze, principalmente adolescenti, por- tandole al lavoro nei campi nell’estremo sud della provincia ionica o in Basilicata e trattenendo per sé oltre la metà dell’esiguo compenso giornaliero.

44 Francesco Basile, detto «don Ciccio», era un anziano boss della malavita e punto di equilibrio tra le cosche tarantine. Egli si era arricchito con l’usura e, investendo i proventi delle sue attività illecite, aveva avviato un commercio di mobili antichi ed era divenuto titolare di un ristorante. Nonostante febbrili e serrate indagini, gli autori del suo assassinio rimasero ignoti.

Tra il 1961 e il 1981, Taranto aveva vissuto il suo «periodo d’oro»: la popolazione era aumentata del 25,4% e l’occupazione andava a gonfie vele.

Negli anni Ottanta, la città industriale si avviò lentamente e inesorabilmente verso un declino produttivo e civile. Secondo il censimento generale del 1991, nel decennio pre- cedente i lavoratori del settore industriale in provincia di Taranto erano scesi da 41.000 a 27.000 unità e la forza-lavoro dell’Italsider si era quasi dimezzata, passando da 22.000 a 12.500 addetti.

Alla diminuzione della base industriale faceva da contraltare un aumento di quella del commercio: del 21,1% tra il 1971 e il 1981, e del 16,4% nel periodo 1981-1991. No- nostante ciò, il saldo tra il calo della base industriale e l’incremento del commercio era negativo: nel maggio del 1992, un disoccupato ogni 11 abitanti risultava essere iscritto al collocamento45.

A partire dal 1987-88, con la crisi dell’industria pesante tarantina si manifestò una forte perdita di identità da parte delle figure di riferimento della città ionica: gli operai, i piccoli imprenditori industriali e quelli che gestivano le attività portuali, i ceti intermedi delle professioni. Il quadro di incertezza era incrementato dall’annuncio di progetti ap- prontati per «ridimensionare la presenza a Taranto della maggiore base operativa delle Forze armate italiane e delle produzioni dell’Arsenale della Marina Militare»46.

Rispetto a ciò, l’imprenditoria locale non fu capace di aprirsi verso i nuovi mercati della provincia né d’inserirsi nei settori del mercato nazionale ed europeo a causa della sua eccessiva dipendenza dalle vicissitudini delle partecipazioni statali.

La profonda crisi economica, accompagnata da un’elevata disoccupazione che rag- giungeva il 30% della forza-lavoro, determinava un diffuso disagio sociale nel quale si moltiplicavano le attività illegali. Anche l’edilizia si trovava in una situazione difficile, considerati i 2.500 lavoratori che erano in cassa integrazione da parecchi anni; molti cantieri chiusi nel periodo di maggiore crisi del settore non venivano ancora aperti. La mafia tarantina trovò un fertile terreno di coltura nelle contraddizioni di una città industrializzata e mai industriale, capace di far parlare di sé per le gravi condizioni di inquinamento dei quartieri vicini alle acciaierie dell’Ilva, tra cui il rione Tamburi, in cui ogni giorno si respiravano e si respirano tuttora micidali polveri sottili e idrocarburi policiclici aromatici derivanti dal processo di distillazione del carbon fossile.

45 I dati esposti sono forniti da N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., p. 157. 46 M. Fiasco, Puglia, cit., p. 203.

I fattori che hanno favorito un’esplosione della criminalità a Taranto sono due: il primo è l’usura, mentre il secondo è costituito «dall’intelligenza fluida, “naïf” finché si vuole, di queste nuove generazioni delinquenziali, a fronte dell’intelligenza, per così dire, cristallizzata dell’imprenditoria locale che continua ad attingere alle mammelle floride del Centro Siderurgico»47.

Oltre all’usura, i principali settori di attività della malavita locale erano il contrab- bando di sigarette e la gestione delle bische clandestine. Tali attività illecite, che assi- curavano ampi guadagni, non destavano particolare allarme sociale. Inoltre, le rapine erano contenute e il fenomeno delle estorsioni colpiva soprattutto i mitilicoltori sotto forma di guardianìa e vigilanza imposte per la «protezione» degli impianti di colti- vazione delle cozze dislocati nei pressi del porto. Negli anni Ottanta l’imposizione del «pizzo» è stata per la criminalità organizzata tarantina la fonte dell’accumulazione ori- ginaria della ricchezza, più ancora del traffico e dello spaccio degli stupefacenti, per i quali esisteva un mercato di consumo di limitate dimensioni.

2.5.2. Un diffuso sentimento di insicurezza

Nel 1988 la provincia di Taranto si collocava al novantaduesimo posto per «quoziente di sicurezza» dei cittadini nella graduatoria delle province italiane, subito dopo Reggio Calabria e Palermo. Su tale dato influiva un’elevata frequenza degli omicidi e delle ra- pine, che nei tre anni successivi aumentò ulteriormente. Nel 1991 in tutta la provincia si registrarono 47 omicidi (il 120% in più rispetto al 1988) e 549 rapine (412 nel capo- luogo e 137 nel resto del territorio provinciale, con un incremento in otto anni rispetti- vamente del 900 e del 60%).

Il fenomeno criminale si concentrava a Taranto, ma presentava ritmi molto sostenuti anche nella provincia. Il numero degli omicidi nella città bimare era pari a quello di Reggio Calabria: 13,6 casi consumati ogni 100.000 residenti. Nei comuni rurali il rap- porto scendeva a 3,9, ma era comunque impressionante rispetto al valore registrato nel 1984 (0,3) o ancora nel 1989 (1,1) 48.

47 N. Ghizzardi, A. Guastella, Taranto tra pistole e ciminiere. Storia di una saga criminale, Icaro, Lecce 2011, p. 58.

Secondo i dati del 1991 anche gli atti criminali non violenti erano aumentati con la stessa frequenza, contribuendo a determinare un coefficiente di delittuosità pari a 8261 reati denunciati ogni 100.000 abitanti (5142 nella provincia). Coerentemente con il dato regionale, il 78% dei delitti denunciati mancava di individuazione di responsabilità. Il modello della criminalità organizzata determinava una spinta emulativa che si ma- nifestava nel sorgere di un’area di criminalità minorile. Le attività a cui si dedicavano i piccoli criminali erano prevalentemente i furti e in misura molto minore lo spaccio di sostanze stupefacenti e la distribuzione di sigarette di contrabbando. A Taranto i minori denunciati nel 1990 alla magistratura furono 319, circa il 3% dei ragazzi in età compresa tra i 14 e i 18 anni. Questi adolescenti provenivano soprattutto dai quartieri Paolo VI, Salinella e Statte, dove si erano trasferiti nuclei familiari marginali provenienti da baraccopoli ed edifici fatiscenti49.

Il fenomeno fu favorito dalla migrazione interna alla città, che comportò il trasferi- mento nel centro storico di fasce di agricoltori che abbandonarono progressivamente la campagna, segnata da una pesante contrazione dei redditi agrari.

Nella seconda metà degli anni Ottanta la malavita tarantina cominciò ad allargarsi ed organizzarsi approfittando dei numerosi licenziamenti della grande industria mentre le istituzioni non erano in grado di dare risposte immediate. Crisi economica e vuoto di potere legale favorivano l’infiltrazione dei mafiosi nella società ionica.

2.5.3. I clan

La storia della criminalità organizzata a Taranto, influenzata dalla particolare collo- cazione geografica della città, è stata segnata da una violenta conflittualità tra i clan locali, agguerriti e molto violenti. Tale conflittualità ha scoraggiato qualsiasi tentativo di colonizzazione da parte delle organizzazioni mafiose esterne e ha suscitato un cre- scente clima di paura tra gli abitanti del capoluogo ionico.

Nei primi anni Ottanta nella provincia tarantina si contrapponevano il clan di Aldo Vuto e quello dei fratelli Modeo (Antonio, Gianfranco, Riccardo e Claudio), entrambi for- malmente affiliati alla Nuova Camorra Organizzata.

49 Sullo sviluppo della criminalità minorile a Taranto cfr. ivi, pp. 207-209; N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., pp. 151-152.

A differenza delle altre associazioni mafiose operanti nelle aree del Barese, della Capi- tanata e del Salento, il sodalizio criminoso creato dai fratelli Modeo aveva caratteristiche rigorosamente indigene, era fortemente radicato nel territorio e presentava una strut- tura autonoma. Vi era anche una sorta di difesa gelosa delle proprie prerogative che aveva finito per rendere la criminalità organizzata tarantina impenetrabile alle incur- sioni mafiose dall’esterno e aveva «impedito una reale penetrazione nel territorio della provincia di gruppi criminali provenienti dalle regioni contigue»50.

Nel 1985 la famiglia Modeo, guidata da Antonio, detto «Tonino il Messicano» per alcuni tratti somatici che ricordavano i discendenti degli Incas, si lanciò alla conquista di Taranto partendo dal mercato ortofrutticolo all’ingrosso, nel quartiere Tamburi. Dopo aver imposto un rigido oligopolio nel settore ortofrutticolo, i Modeo presero il controllo delle altre attività illecite, tra cui estorsioni e traffico di stupefacenti nella zona ionica. L’episodio che segnò l’ascesa dei Modeo a Taranto fu l’omicidio di Matteo Marotta51, il

quale aveva rifiutato di sottoporsi al racket delle estorsioni nella mitilicoltura, gestito dalla Cooperativa Praia a Mare, vero e proprio polmone finanziario della cosca. L’assas- sinio avvenne il 7 luglio 1985 in una via del rione Salinella di Taranto. Gli esecutori agi- rono a bordo di una moto di grossa cilindrata, sbucando all’improvviso dal buio e por- tando a termine la loro repentina incursione. A sparare fu Riccardo Modeo, mentre il fratello Gianfranco era alla guida della moto. Grazie alle rivelazioni di Matteo La Gioia, cugino della vittima, alcuni giorni dopo l’omicidio i due fratelli furono arrestati e con- dannati alla pena di 22 anni di reclusione52.

Durante il periodo di detenzione dei due Modeo, Salvatore De Vitis e Orlando D’Oron- zo riuscirono ad affermare la propria supremazia nel campo delle estorsioni ai danni degli imprenditori. I due erano dediti da tempo alle estorsioni per conto dei fratelli, ma avevano una forte personalità ed intendevano svolgere liberamente le loro attività. I fratelli Modeo avevano stabilito la somma da estorcere ai vari imprenditori edili nella misura del 20% sul valore di ogni cantiere. De Vitis e D’Oronzo non accettarono quelle condizioni e si allearono con «Tonino il Messicano», che aveva un padre diverso rispetto a quello dei tre fratelli. Si creò così una frattura insanabile all’interno della famiglia Mo- deo. Tra i due gruppi criminali che erano nati dalla scissione del clan scoppiò una guerra,

50 Commissione parlamentare antimafia, Doc. XXIII, n. 38, cit. p. 21.

51 Imprenditore tarantino che operava nel settore dell’allevamento di cozze.

52 Questo episodio è riferito nei dettagli in N. Ghizzardi, A. Guastella, Taranto tra pistole e ciminiere, cit., pp. 75-76.

la cui prima vittima fu Costantino Turco, fedele alleato dei fratelli Gianfranco e Riccardo Modeo, ucciso il 6 luglio 1989.

Il conflitto non risparmiò nessuno: il 21 agosto dello stesso anno per ritorsione venne ammazzato il padre di Salvatore De Vitis, Paolo, e il giorno successivo la madre dei Mo- deo, Cosima Ceci, detta «zia Mina».

A quel punto, per evitare ulteriori stragi, il gruppo dei fratelli Modeo impose un patto di non belligeranza con le altre organizzazioni tarantine, tra cui quella capeggiata dal fratellastro Antonio Modeo e da Salvatore De Vitis.

Il Messicano rappresentava il mafioso intelligente e spregiudicato, che aveva stretti rapporti con la ‘ndrangheta calabrese e con la malavita barese. Un boss vero e proprio, dotato di un curriculum giudiziario molto ampio, come del resto quello dei fratellastri Riccardo e Gianfranco. Il suo regno era Statte, dove abitava con la moglie Maria D’Andria in una villa fortificata, protetta da un alto muro di cinta realizzato abusivamente.

I contrasti tra i Modeo si concretizzarono per la prima volta il 5 agosto 1989, quando Gianfranco e Riccardo organizzarono un assalto all’abitazione del Messicano, contro la quale vennero sparati colpi d’arma da fuoco dalle numerose persone giunte sul posto. In quell’occasione, Antonio Modeo si salvò, ma la sua fine era stata già segnata.

Un anno più tardi, il 16 agosto 1990, Tonino il Messicano venne ucciso a Bisceglie (BA) dai killer inviati dai fratellastri. Una vespa, condotta da Michele Di Chiano e con in sella Salvatore Annacondia, lo affiancò e tre colpi di pistola calibro 38 posero fine alla sua vita. Lo stesso Annacondia, diventato poi, come si è già detto, uno dei più importanti pentiti pugliesi, racconterà ai magistrati di essere stato l’esecutore dell’omicidio.

Agli inizi degli anni Novanta la mappa della criminalità organizzata che occupava Ta- ranto e la sua provincia comprendeva la famiglia Modeo, guidata dai tre fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio; i resti del clan di Salvatore De Vitis; il clan dei fratelli Di Bari e quello di Michele Scarci, uno dei più anziani mafiosi di Taranto. In provincia si erano affermati gruppi malavitosi a Massafra (Cataldo Caporosso) e a Manduria (Massimo Ci- nieri). Il fatto che i membri di questi gruppi fossero tutti molto giovani testimoniava una veloce criminalizzazione dei centri rurali, colpiti da un forte sconvolgimento sociale. Il gruppo dei fratelli Modeo, che aveva circa 140 affiliati, era l’organizzazione crimina- le più forte della città di Taranto. Aveva messo le sue radici nei quartieri Paolo VI, Tam- buri, Città Vecchia e nella cittadina di Pulsano. Oltre ai fratellastri di Tonino il Messicano

l’organizzazione comprendeva personaggi importanti, tra cui il tarantino Cataldo Ca- tapano e il pulsanese Marino Pulito, figura emergente all’interno del clan. La struttura delle bande presentava caratteristiche «federative», tanto che Catapano e Pulito dispo- nevano di una propria massa di manovra ed operavano in maniera autonoma53.

Dalla fusione di varie bande era nato un nuovo gruppo clanico che si era raccolto intorno a Salvatore De Vitis (ucciso il 7 maggio 1991 a Cusano Milanino, dove si trovava perché colpito dalle misure di prevenzione) e a Orlando D’Oronzo. Il gruppo aveva circa 90 affiliati, che nella città di Taranto contendevano ai Modeo il controllo delle estorsioni e del traffico degli stupefacenti.

A Taranto operava anche il clan creato dai tre fratelli Di Bari (Francesco, Antonello e Michele), con circa 50 affiliati e radicato nel quartiere Tre Carrare. Da questo rione veni- vano organizzate le estorsioni e veniva spacciata la droga.

I nomi di Francesco e Michele Di Bari erano già comparsi nel processo istruito a Bari nel 1983 dal giudice Maritati e concluso nel 1986. Si contestava loro l’affiliazione al ramo tarantino della Nuova Camorra Pugliese. Insieme ai due fratelli comparve anche Cosimo Di Pierro, un altro esponente del clan Di Bari54.

Pur con una loro personale caratterizzazione, sulla base del territorio in cui si con- centravano le operazioni, i gruppi criminali tarantini davano vita ad allenze che poi si scomponevano facilmente. I dati sugli omicidi volontari per regolamento di conti deli- neavano i contorni delle convergenze e dei conflitti che insorgevano. Dopo il fratricidio del Messicano, i Modeo strinsero un patto operativo con i clan Annacondia e Di Bari, per poter meglio fronteggiare il gruppo composto dagli ex amici del Messicano e dalle fa- miglie D’Oronzo e De Vitis.

Il panorama criminale del Tarantino era completato dai clan Caporosso e Scarci. Il pri- mo era composto da una ventina di criminali, mentre il secondo contava 70 adepti, quasi tutti provenienti dal quartiere Salinella.

Il clan Caporosso era attivo esclusivamente nella città di Massafra, luogo nativo di Cataldo Caporosso, capo della famiglia. Il gruppo era legato alla ‘ndrangheta in quanto annoverava tra i suoi affiliati Salvatore Figliuzzi, originario di Rosarno. «Don Salvatore il calabrese» assicurava i collegamenti con la malavita della sua regione, in particolare

53 Sui clan radicati a Taranto e nella sua provincia all’inizio degli anni Novanta cfr. M. Fiasco, Puglia, cit., pp. 214-215; N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., pp. 166-169.

54 A tal proposito, si consulti: Tribunale di Bari, Sentenza contro Rogoli Giuseppe più altri, cit., pp. 21-23, 34-35.

nell’organizzazione del traffico di sostanze stupefacenti. Nel corso del 1990 Massafra contò 5 omicidi di mafia, oltre a subire un crescente fenomeno estorsivo.

Nei comuni di Ginosa e Castellaneta, ad ovest di Taranto, operavano gli Scarci, dediti ad estorsioni, rapine, usura e traffico di stupefacenti. Grazie ad alcuni legami parentali questo sodalizio mafioso era riuscito ad estendere il suo campo d’azione a Montesca- glioso, Policoro e Scanzano Jonico, in provincia di Matera. Il controllo quasi totale del territorio da parte del clan Scarci fece diminuire sensibilmente il numero degli omicidi. La Sacra Corona Unita tentò di inserirsi nella parte orientale della provincia ionica attraverso il manduriano Vincenzo Stranieri. Dopo l’arresto di quest’ultimo la moglie, Paola Malorgio, si incaricò di gestire il traffico di stupefacenti nel comune di Manduria. Al termine delle feroci faide degli anni Ottanta-Novanta, che avevano prodotto 200 omicidi, il quadro criminale tarantino subiva numerose modifiche. Nel capoluogo ionico gli sconvolgimenti interni, l’attività di contrasto delle forze dell’ordine e la collabora- zione di vari pentiti riuscirono a smembrare i clan più pericolosi assicurando alla giu- stizia oltre 150 persone, tra cui anche i capi delle singole bande.

Nonostante ciò, la guerra di mafia a Taranto non era ancora finita. La sera del 1° ottobre 1991, infatti, due killer armati di pistola calibro 7,65 e di mitraglietta fecero irru- zione in una sala da barba, nella città vecchia, e spararono all’impazzata, crivellando di colpi Giuseppe Ierone di 50 anni, Cataldo Padula di 20, Domenico Ferrara di 23 e Fran- cesco Abbalsamo di 22. Nell’eccidio, furono gravemente feriti anche Silvano Moschettino di 36 anni e Damiano Mazza di 23 anni. L’episodio, che divenne noto come «la strage della barberia», rievocò l’atmosfera della Palermo anni Ottanta55.

Le vittime del pluriomicidio erano innocenti che non avevano niente a che fare con la guerra allora in atto tra i Modeo e i Di Bari da una parte e di Taranto vecchia dall’altra. Approfittando della reclusione in carcere di Riccardo e Gianfranco Modeo, Antonio Martera e Vincenzo Cesario, boss del quartiere Città Vecchia, avevano assunto una po- sizione di predominio territoriale nel capoluogo ionico. Il gruppo di fuoco a tutela di questa nuova associazione criminale era formato da Cosimo Cianciaruso e Luigi Martera, che, in più occasioni, avevano dato prova delle loro capacità. Per contrastare l’egemonia del «gruppo di Taranto vecchia» e per vendicarsi dei soprusi subiti dalla moglie Marilena Modeo, Giovanni Caforio pianificò con Francesco di Bari e il suo braccio destro Leonardo

55 Per una accurata ricostruzione della vicenda si consiglia di leggere M. Campicelli, Strage nella sala da

Ventrella l’eliminazione di Antonio Martera e Cosimo Cianciaruso, che frequentavano solitamente la sala da barba di Ierone. Tuttavia, il giorno prescelto per portare a termine l’azione criminale le due vittime designate uscirono dal locale pochi minuti prima della strage, i cui esecutori materiali furono Giovanni Caforio e i minorenni Cosimo Bianchi e Gaetano Fanelli, che agivano al servizio del clan Di Bari56.

Se l’omicidio di Costantino Turco del luglio 1989 diede inizio al conflitto di mafia nel capoluogo ionico, la strage della barberia ne segnò la fine. In quel fatale primo ottobre la forza dei fratelli Modeo si esaurì non tanto per la lunga detenzione quanto perché ogni tentativo di giungere ad una revisione della loro condanna naufragò definitivamente.