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Le mafie pugliesi. Storia di organizzazioni criminali moderne

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA IN STORIA E CIVILTÀ (DM 270)

TESI DI LAUREA

LE MAFIE PUGLIESI

Storia di organizzazioni criminali moderne

Relatore:

Candidato:

dott. Gianluca Fulvetti

Francesco Nardelli

Correlatore:

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Ai miei genitori,

ai miei migliori amici

e alle mie care amiche

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Introduzione

Negli ultimi anni si è registrato un aumento delle pubblicazioni sul fenomeno mafioso in Italia meridionale e sulla sua diffusione in chiave principalmente economica nelle regioni centro-settentrionali della penisola. In particolare i libri sull’espansione della ‘ndrangheta calabrese sono diventati più numerosi di quelli sulla mafia siciliana, che dopo la cattura di Totò Riina1 e Bernardo Provenzano2 è entrata in una fase critica.

Analogamente, la camorra campana è stata argomento di molti volumi che hanno cercato di comprendere le dinamiche che hanno caratterizzato l’ascesa e il declino del clan dei casalesi tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila e il successivo avvento a Napoli di gruppi di giovani che si muovono autonomamente e uccidono senza alcun motivo e senza pietà.

La mafia in Puglia, invece, è stata leggermente trascurata dalla recente storiografia, forse per via della sua giovane età, o forse perché è stata considerata una forma di crimi-nalità organizzata diversa dalle mafie storiche e perciò più difficile da comprendere. Uno degli elementi che possono contribure a spiegare una limitata trattazione storiografica sui gruppi criminali pugliesi è la posizione sostanzialmente marginale e subalterna che essi hanno occupato nel dibattito sulla mafia in Italia. Questa sottovalutazione è dovuta probabilmente alla mancanza di figure di rilievo di malavitosi pugliesi capaci di attirare l’attenzione degli organismi di informazione e dell’opinione pubblica. Sebbene già nel 1993 la Commissione parlamentare antimafia avesse ascoltato le rivelazioni di un im-portante esponente della criminalità organizzata pugliese affiliato a Cosa Nostra ⎼

1 Salvatore (Totò) Riina (Corleone, 16 novembre 1930 ⎼ Parma, 17 novembre 2017) conosciuto come «’u curtu» («il corto») per via della sua bassa statura, fu a capo della famiglia mafiosa dei Corleonesi a partire dagli anni Settanta e assunse la guida di Cosa Nostra dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993.

2 Bernardo Provenzano (Corleone, 31 gennaio 1933 ⎼ Milano, 13 luglio 2016), soprannominato «’u tratturi» («il trattore») per la violenza con cui falcidiava le vite dei suoi nemici, era uno dei principali esponenti della famiglia dei Corleonesi, a capo di Cosa Nostra dal 1995 fino al suo arresto, avvenuto l’11 aprile 2006.

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vatore Annacondia, boss di Trani ⎼ divenuto collaboratore di giustizia e, progressi-vamente, alcuni capibastone locali fossero diventati noti al di fuori del territorio regio-nale, è difficile individuare criminali d’eccezione all’interno della Puglia. Escludendo i casi isolati di Salvatore Annacondia e Giuseppe Rogoli3, i mafiosi pugliesi sono per lo più

sconosciuti al grande pubblico.

Chiunque sia vissuto in Puglia tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila avrà sicu-ramente avvertito la presenza della criminalità organizzata sul territorio regionale nelle forme più evidenti dell’estorsione e del contrabbando di sigarette. Il fatto che in molti casi dietro tali attività illecite vi fosse la «Sacra Corona Unita» ha indotto ad una gene-ralizzazione che ha comportato un’identificazione dell’intera mafia pugliese con questa associazione criminale, nata nella prima metà degli anni Ottanta all’interno del carcere di Bari con l’obiettivo di contrastare la «Nuova Camorra Organizzata» (Nco) di Raffaele Cutolo4 e di diffondersi su tutto il territorio pugliese. In realtà, a partire dagli anni

Ottan-ta all’interno della Puglia sono presenti diverse realtà criminali di sOttan-tampo mafioso, tra cui la Scu è solo la più nota. Queste organizzazioni, pur avendo alcuni elementi in comune con le mafie tradizionali ⎼ camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra ⎼ non sono ricon-ducibili a nessuna di esse perché hanno rielaborato in maniera autonoma la pratica dell’associazionismo segreto di tipo criminale, basandola su modalità di azione, compor-tamenti e strategie operative moderne e molto violente.

Negli anni Ottanta la perdita di identità delle città rurali di media grandezza e la crisi delle aspettative di promozione sociale provocata dalla recessione dell’economia agri-cola e, in contesti quali Brindisi e Taranto, dalla deindustrializzazione favoriscono lo sviluppo e la diffusione del crimine organizzato nel territorio pugliese.

In base alla zona di insediamento, è possibile individuare una mafia rurale legata alle comunità locali che definiscono l’identità della Puglia come regione agricola e una mafia urbana, creatasi dalla dissoluzione dei caratteri dell’insediamento a Bari, a Taranto e nelle città di medie dimensioni.

Nel gennaio del 1979 la Nuova Camorra Organizzata tentò di inserirsi ufficialmente in Puglia tramite un’offerta rivolta ad alcuni criminali locali già in rapporti con i suoi

3 Giuseppe Rogoli (Mesagne, 13 agosto 1946) è stato un membro di alto grado della ‘ndrangheta, che ha fondato la Sacra Corona Unita nel 1983.

4 Raffaele Cutolo (Ottaviano, 4 novembre 1941) è stato il fondatore nonché capo della Nuova Camorra Organizzata. Fu soprannominato «’o professore» dai suoi compagni di carcere perché era l’unico tra essi che sapesse leggere e scrivere.

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affiliati. Durante una riunione presieduta da Cutolo a Lucera, in provincia di Foggia, vennero affiliati una quarantina di malavitosi di tutte le province pugliesi. Quel rito resterà impresso nella memoria collettiva della mafia pugliese anche dopo la scomparsa della Nco di Cutolo, uscita sconfitta dalla guerra combattuta contro la Nuova Famiglia. Il tentativo di Cutolo aveva un carattere strategico, come avrebbe confermato il successivo incontro svoltosi nell’inverno del 1979 a Galatina, vicino Lecce. All’incontro parteciparono rappresentanti della camorra cutoliana, della ‘ndrangheta e di Cosa No-stra. Seguirono numerose adesioni alla Nco, che diedero origine ad una nuova organizza- zione criminale, chiamata dapprima «Nuova Grande Camorra Pugliese» e poi «Nuova Camorra Pugliese». Si trattava di un’operazione volta alla centralizzazione del controllo mafioso sull’intera regione, con un’articolazione in gruppi criminali autonomi nelle zone di rispettiva competenza.

Tra il 1983 e il 1985, la disintegrazione della camorra provocò la nascita di due nuove organizzazioni criminali pugliesi, la Sacra Corona Unita (Scu) e la Famiglia Salentina Li-bera (Fsl)5; la prima aveva ambizioni regionali, mentre la seconda mirava a controllare

la sola provincia di Lecce. Negli anni successivi la questione criminale si è progressiva-mente aggravata a causa della scomposizione e ridefinizione delle gerarchie. L’aumento vertiginoso degli omicidi volontari in Puglia a partire dal 1988 testimonia l’intensità della lotta tra i diversi gruppi malavitosi per il controllo di determinate porzioni di territorio.

Nelle campagne pugliesi la malavita colpisce soprattutto attività redditizie quali il commercio, la piccola impresa artigiana e l’industria di trasformazione dei prodotti agri-coli. Successivamente, si inserisce negli appalti per le forniture e i lavori edilizi e cerca di investire nel settore del turismo. La depredazione del territorio attraverso la conquista delle attività che producono valore aggiunto è un connotato mutuato dalla camorra. L’estensione di forme di criminalità organizzata di origine rurale in un territorio che offre sempre più possibilità di arricchimento è accompagnata dalla diffusione di rituali arcaici e pagani, in cui si mescolano animismo e richiami a luoghi sacri della cristianità. L’obiettivo è di fornire agli affiliati un sentimento di appartenenza a una comunità tota-talizzante; il risultato è il controllo assoluto del gruppo sui singoli criminali.

5 Nel 1984 la magistratura di Livorno sequestrò nel carcere di Pianosa il «Codice Salentino», lo statuto della Famiglia Salentina Libera, fondata dal leccese Salvatore Rizzo con l’intento di respingere qualsiasi forma di ingerenza criminale ⎼ cutoliana o rogoliana che fosse ⎼ nella provincia di Lecce.

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Una delle caratteristiche principali che contraddistinguono i gruppi malavitosi puglie-si e in particolare la Sacra Corona Unita rispetto alle altre mafie italiane è la puglie-singolare commistione che si sviluppa talvolta tra affaccio diretto su territori dominati da crimi-nalità e anarchia (l’Albania e i paesi appartenenti all’ex Jugoslavia degli anni Novanta) e vasto consenso sociale ad attività come il riciclaggio di capitali illeciti e il contrabbando di tabacchi lavorati esteri (t.l.e.), che hanno costituito due fra le più grandi minacce per l’economia nazionale ponendosi come alternative alla disoccupazione dilagante.

Bisogna notare che solo di recente in Puglia è cresciuta la frequenza dei traffici illeciti di armi, droghe ed esseri umani, i quali finiscono per mettere in ombra la posizione stra-tegica della regione, porta naturale di comunicazione e di scambio con i porti dei paesi dell’Est Europa e del Medio Oriente. A partire dal 1991, con l’inizio dell’immigrazione al- banese in seguito alla caduta del regime comunista di Enver Hoxha, la Puglia assume il ruolo di ponte verso l’Europa occidentale e, al contempo, crocevia di traffici commerciali di ogni tipo, legali o illegali che siano.

Inoltre, si deve precisare che, pur essendo indubbio che la lotta al contrabbando in-trapresa dallo Stato ha ridotto considerevolmente le potenzialità dei sodalizi criminali pugliesi e che la strategia seguita dalle procure locali per contrastrare i malavitosi ha prodotto buoni risultati, la mafia non è stata ancora sconfitta definivamente in Puglia. La contemporanea modernizzazione della società e della criminalità organizzata ha messo in evidenza un rafforzamento della capacità di gestione di un sistema di potere che mira a superare l’arretratezza e a sconfiggere una malavita che veniva utilizzata come strumento di protezione e di consolidamento dello stesso sistema. Questo pro-cesso è stato evidente in Puglia, dove la società nel suo complesso non si è lasciata sotto-mettere dalla criminalità organizzata e ha dato il suo appoggio all’azione delle forze dell’ordine e della magistratura contro la malavita.

Per comprendere come si è strutturato il fenomeno mafioso in Puglia e quali caratteri specifici ha assunto nei vari contesti provinciali, bisogna partire da una definizione pre-liminare del concetto di mafia e confrontare questo termine con quello più generico di

corruzione in ambito sociologico. Il primo capitolo del presente lavoro si pone l’obiettivo

di spiegare in quali circostanze mafia e corruzione si intrecciano inestricabilmente e quando invece divergono, analizzando le caratteristiche dei gruppi mafiosi italiani, la lo-ro evoluzione in rapporto al potere politico nazionale e la lolo-ro plo-rogressiva espansione al

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di fuori delle aree tradizionali. Nel secondo capitolo si cerca di delineare in maniera esauriente la storia, la struttura e i rituali delle organizzazioni mafiose attive in Puglia e di indicarne gli elementi di somiglianza e quelli di differenza rispetto alle altre mafie del Mezzogiorno. Sono esaminate in particolare le attività illecite dei clan mafiosi attivi nel Gargano, a Taranto e nel Salento. Nel corso della trattazione, tuttavia, non viene spiegato come e in che misura il fenomeno mafioso pugliese si collega alla storia politica della regione a causa di una scarsità di riferimenti bibliografici sull’argomento. Il terzo ca-pitolo, infine, è dedicato ad uno studio interpretativo delle ragioni del fallimento del progetto di egemonia della Sacra Corona Unita a livello regionale e della conseguente frammentazione dello scenario criminale in Puglia e prende in esame in particolare la figura e l’attività delinquenziale di Pino Rogoli, unico vero personaggio di spicco all’in-terno dell’organizzazione che, in pochi anni di attività, è riuscita a conquistarsi il titolo di «quarta mafia» in ordine di pericolosità dopo ‘ndrangheta, Cosa Nostra e camorra.

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CAPITOLO I

Sistemi criminali organizzati

1.1. I concetti di corruzione e mafia

Con il termine corruzione si intende un accordo che si sviluppa tra un gruppo ristretto di soggetti per appropriarsi di beni la cui proprietà spetta alla popolazione, costretta a subirne i costi (economici, politici e sociali)1. Questo patto si realizza tramite uno

scam-bio occulto tra corrotti e corruttori, che influiscono in maniera determinante sull’anda-mento dei processi decisionali nel settore pubblico, volgendo a proprio vantaggio la di-stribuzione di risorse amministrate o regolate dallo Stato.

Le rendite destinate al corruttore e parzialmente restituite al dipendente pubblico sotto forma di tangente alimentano il meccanismo corruttivo. Si possono riscontrare tre diverse tipologie di corruzione: a) l’acquisto di beni e servizi offerti da enti privati e ri-chiesti dallo Stato a prezzi che superano quelli di mercato (es. gli appalti di opere pub-bliche, i contratti per prestazioni professionali o gestione di forniture); b) la vendita o il conferimento di beni, diritti e servizi a privati (attraverso concessioni, adempimenti, tra-sferimenti, licenze, sussidi, ecc.), senza alcun compenso oppure in cambio di un prezzo inferiore a quello di mercato; c) l’attività di controllo e applicazione di sanzioni da parte degli agenti pubblici, che possono imporre costi, confiscare risorse private o ridurne il valore quando ricorrono alcune condizioni (solitamente, la violazione di certe regole). Ovviamente, la corruzione non si verifica in modo automatico in presenza di condizio-ni favorevoli. Inefficienza, sprechi di vario tipo e cattiva ammicondizio-nistrazione possono com-portare risultati simili alle tangenti su cui si basa lo scambio occulto tra corrotto e cor-ruttore per la spartizione dei diritti di proprietà su una rendita a danno della collettività. Per garantire al privato l’incasso di una rendita tramite il pagamento della tangente, il politico o il funzionario corrotto può fornire tre tipi di servizi: a) prendere decisioni a fa-

1 Sulla definizione di corruzione si veda A. Vannucci, Atlante della corruzione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, p. 26.

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vore del corruttore (assegnare un appalto, dare una concessione o una licenza, emettere una sentenza, ecc.); b) suggerirgli sottovoce informazioni riservate che permettono di ottenere un certo beneficio; c)condizionare, in caso di bisogno, attività e scelte pubbli-che a vantaggio, o comunque non a danno del soggetto interessato2.

Quando per realizzare determinati scambi corrotti non bastano né l’adesione a ideo-logie e valori comuni, né la fiducia reciproca tra due o più persone, la corruzione diventa

mafia. Qui entrano in gioco le organizzazioni malavitose che esercitano il potere di

pre-venire o risolvere brutalmente fraintendimenti o dissidi tra i partecipanti alla corru-zione e ricorrono alla violenza per raccogliere informazioni. Oltre che dall’uso spe-cializzato della violenza, la forza dei mafiosi dipende dalla loro «capacità di manipolare e utilizzare relazioni sociali, ovvero di accumulare e impiegare capitale sociale»3. Grazie ai

capitali illeciti in loro possesso, i gruppi criminali organizzati hanno la possibilità di accedere facilmente a una serie di favori e servizi pagando sottobanco imprenditori, burocrati e politici, nei confronti dei quali si pongono come «garanti» intervenendo nelle trattative con la pubblica amministrazione riguardo a contratti, concessioni, licenze, controlli, ricorsi, ecc., regolando le relazioni di concorrenza tipiche del mercato e indi-rizzando pacchetti di voti ai loro favoriti. Inoltre, grazie alle tangenti versate a esponenti delle forze dell’ordine e alla magistratura, o ai politici capaci di influire sul loro operato, i mafiosi evitano di incorrere nell’azione repressiva dello Stato, incrementando profitti nei mercati illeciti.

Per ricambiare la protezione di politici, forze dell’ordine e magistrati, i malavitosi for-niscono a corrotti e corruttori «servizi» fondamentali per la buona riuscita dei loro af-fari. Naturalmente, le organizzazioni mafiose incassano un prezzo come contropartita delle loro prestazioni.

Le mafie che applicano i codici informali di condotta della corruzione sistemica esten-dono i loro margini di profitto nel mercato pubblico e intraprenesten-dono una serie di rela-zioni con interlocutori essenziali per il controllo territoriale delle attività amministrative ed economiche4.

2 Sulle modalità in cui la corruzione si realizza cfr. ivi, pp. 26-34.

3 R. Sciarrone, Mafie, relazioni e affari nell’area grigia, in Id. (a cura di), Alleanze nell’ombra. Mafie ed

economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma 2011, p. 7.

4 Sui rapporti che si vengono a determinare tra mafia e corruzione cfr. A. Vannucci, Atlante della

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Si può definire mafia un potere territoriale privato «di controllo continuativo su per- sone e attività in uno spazio determinato»5, esercitato con la minaccia e l’uso bilanciato

della violenza in funzione strategica.

Dalla metà dell’Ottocento ad oggi, la parola «mafia» ha assunto vari significati6. Nella

prospettiva emergente dai contributi di giornalisti e antropologi sociali e dalle relazioni delle Commissioni antimafia, la malavita è intesa come espressione della società tradi-zionale dal punto di vista economico, politico e socio-culturale. In altri termini, il feno-meno mafioso è visto come un residuo del feudalesimo medievale, che si esplica nel pos-sesso del latifondo a cui si contrappone la piccola proprietà, fonte di progresso sociale. Un altro filone interpretativo concepisce la mafia come impresa o industria crimi-nale7, le cui attività caratteristiche sono «la produzione e talora l’offerta coattiva di

pro-tezione, in forma tendenzialmente monopolistica, contro un corrispettivo consistente in una utilità economicamente valutabile»8. In questo senso, la funzione di base è il racket,

che tutela l’impresa e le assicura il monopolio con la violenza verbale e fisica esercitata nei confronti di ladri, concorrenti, testimoni, traditori. La tesi della mafia-impresa è stata fatta propria dal sociologo Raimondo Catanzaro, secondo cui l’obiettivo principale di ogni gruppo mafioso consiste nel «conseguimento di posizioni di monopolio sul mercato economico e sul piano politico»9.

Le forze dell’ordine e la magistratura sviluppano un’idea della mafia come organizza-zione o società segreta più o meno centralizzata, con vincoli di lealtà e una gerarchia di

comando. Le sue caratteristiche principali sono la continuità oltre la vita dei membri, la

struttura gerarchica e la militanza dopo il superamento di un esame all’ingresso. Tale

posizione è sostenuta da alcuni storici, tra cui Paolo Pezzino, che concepisce la mafia come una forma di criminalità organizzata che è attiva in diversi settori illegali e «tende anche ad esercitare funzioni di sovranità, normalmente riservate alle istituzioni statali, su un determinato territorio, imponendo ad esempio una sorta di tassazione sulle

5 E. Ciconte, F. Forgione, I. Sales, Le ragioni di un successo, in E. Ciconte (a cura di), Atlante delle mafie.

Storia, economia, società, cultura, vol. I, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 14.

6 Sulle diverse concezioni del termine applicate al caso siciliano e a quello americano si rimanda a S. Lupo, Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 20043 (I ed. 1993), pp. 18-47.

7 La visione della malavita come industria criminale emerge soprattutto in D. Gambetta, La mafia

sici-liana: un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992.

8 A. La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 2005, p. 43.

9 R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Rizzoli, Milano 19912 (I ed. Liviana, Padova 1988), p. 26.

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vità economiche legali e dotandosi di un sistema normativo che prevede sanzioni vio-lente per coloro che da esso sono considerati devianti»10.

Nella descrizione di numerosi pentiti e di alcuni studiosi, la mafia assume le fattezze di un ordinamento giuridico parallelo a quello ufficiale (anti-Stato) o interno ad esso (infra-Stato)11. Per realizzare i suoi fini, qualsiasi gruppo criminale supplisce alle

debo-lezze dell’ordinamento giuridico ufficiale dotandosi di un sistema di norme che regolano le relazioni tra gli appartenenti, prevedendo accordi occasionali o strutture federative preposte al mantenimento della pace, avvalendosi del principio di competenza territo-riale e di una serie di clausole e codici per evitare la concorrenza con altri gruppi12. Non

sempre però la volontà della mafia di essere un sistema giuridico si traduce in realtà. Gli stessi processi di centralizzazione provocano aspri scontri, in cui le regole generali passano in secondo piano rispetto all’interesse di singoli individui e gruppi.

Tenendo conto degli elementi culturali che caratterizzano i suoi aspetti organizzativi, la mafia può anche essere intesa come «un network di organizzazioni criminali, la cui attività è finalizzata al conseguimento di guadagno, sicurezza e reputazione»13.

Sul piano analitico, partendo dalla dialettica proposta da Alan Block per il caso new-yorchese nel suo volume intitolato East Side-West Side. Organizing Crime in New York,

1930-50 (1980), è utile distinguere la mafia in power syndicate e in enterprise syndicate,

ossia in organizzazione dedita al controllo del territorio tramite la pratica dell’estor-sione e in organizzazione che gestisce i traffici illeciti in settori quali prostituzione, contrabbando, droga e gioco d’azzardo14.

Le linee interpretative prospettate mostrano la complessità del fenomeno mafioso, che è capace di persistere nel tempo e di adattarsi al mutamento sociale intervenendo sul mercato in modo illegale. Per comprendere appieno le modalità di funzionamento del metodo mafioso a seconda del contesto di insediamento, è necessario fornire ora una panoramica delle mafie storiche e dei principi che hanno ispirato la loro diffusione in aree non tradizionali della penisola italiana.

10 P. Pezzino, Mafia: industria della violenza: scritti e documenti inediti sulla mafia dalle origini ai giorni

nostri, La Nuova Italia, Scandicci 1995, p. 3.

11 Quest’ultimo concetto si ritrova in A. Lyttelton, Discutendo di mafia e camorra, in «Meridiana», n. 7-8, 1990, p. 340.

12 Sulle relazioni generali tra mafia e mercato concorrenziale si veda D. Gambetta, La mafia elimina la

concorrenza. Ma la concorrenza può eliminare la mafia?, in ivi, pp. 319-325.

13 R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma 2009, p. 22. 14 Sulla distinzione blockiana tra power syndicate ed enterprise syndicate cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 262-263; R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, cit., p. 43.

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1.2. Campania: la camorra

La più antica organizzazione criminale di stampo mafioso è probabilmente la ca-morra, che nasce negli anni Cinquanta dell’Ottocento all’interno delle carceri di Napoli e si sviluppa principalmente nei quartieri più poveri della città bassa (Porto, Pendino, Mercato e Vicaria). La parola «camorra» ha origine spagnola e significa «rissa» o «liti-gio». I settori di intervento dei primi camorristi sono l’estorsione, il furto, il mercato dei cavalli, il commercio all’ingrosso del pesce, la prostituzione e il gioco d’azzardo.

Nella vasta capitale del regno borbonico la miseria era tale che solo attraverso la col-laborazione con feroci criminali e camorristi la polizia riusciva a tenere sotto controllo le sollevazioni popolari. Al peggioramento della situazione contribuiva l’atteggiamento delle autorità borboniche, che lasciavano mano libera alle loro spie criminali per mi-nacciare con angherie e ricatti i patrioti liberali.

Nell’estate del 1860, mentre la spedizione di Garibaldi dilagava in Sicilia, il Regno delle Due Sicilie cessava di essere una monarchia assoluta e adottava il sistema costitu-zionale per decreto del re Francesco II di Borbone. Nel nuovo governo furono inclusi esponenti liberali, uno dei quali era il prefetto Liborio Romano, nominato direttore della polizia. Allo scopo di facilitare il mantenimento dell’ordine, costui decise di cooptare i camorristi nella guardia cittadina.

Nel settembre, dopo l’abdicazione del sovrano e l’arrivo di Garibaldi e dei suoi uomini a Napoli, venne istituita un’autorità temporanea che governò il Mezzogiorno in attesa dell’annessione al Regno d’Italia. Nel breve periodo del governo garibaldino boss come Salvatore De Crescenzo e Pasquale Merolle si specializzarono nell’estorsione e nel con-trabbando marittimo e in breve tempo assunsero il controllo del commercio illegale dalle campagneintorno alla città15.

Il nuovo Stato italiano si impegnò subito in una repressione durissima e antigarantista della camorra, disposta tra il dicembre del 1860 e l’aprile del 1861 dal ministro di po-lizia Silvio Spaventa, un patriota meridionale che aveva fatto una lunga esperienza delle galere borboniche. Con la sua politica del pugno di ferro contro la criminalità organiz-zata napoletana, Spaventa divenne molto impopolare.

15 Le origini della camorra sono trattate dettagliatamente in J. Dickie, Onorate Società. L’ascesa della

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Già negli anni Sessanta dell’Ottocento la camorra napoletana si suddivideva in dodici sezioni territoriali, una per ciascun quartiere della città. Il capo di ciascuna sezione veni-va eletto dai suoi pari ed era affiancato da un contabile che si occupaveni-va di raccogliere e ridistibuire i fondi dell’Onorata Società.

I candidati all’ammissione dovevano essere esaminati e osservati dai camorristi di grado superiore. La prova che ciascun candidato doveva sostenere poteva essere l’ese-cuzione di un omicidio o lo sfregio di un nemico della Società. In caso di superamento della prova, il nuovo affiliato doveva pronunciare un giuramento di fronte a due coltelli incrociati, e duellare all’arma bianca contro un camorrista estratto a sorte. Se riusciva a dimostrare coraggio, il neoarrivato diventava un «picciotto di sgarro». Anche la pro-mozione al grado più elevato della Società, quello di camorrista vero e proprio, avveniva in seguito al superamento di un combattimento con il pugnale. Chi era promosso ca-morrista aveva in mano il potere decisionale e poteva contare su una fetta consistente dei profitti delle attività criminali. Il principio fondamentale su cui si basava la gerarchia interna della camorra ottocentesca era lo sfruttamento. I primi boss camorristi sfrutta-vano in modo impietoso i loro sottoposti, ossia i picciotti di sgarro.

Non sappiamo esattamente quando la camorra arrivò a Napoli, ma quasi sicuramente le regole e i rituali dell’Onorata Società campana derivavano dalla massoneria e dalle sette che ad essa si ispiravano.

Tra il 1860 e il 1876 l’Italia fu governata da un raggruppamento politico conosciuto come Destra storica, i cui leader erano soprattutto proprietari terrieri liberisti di orien-tamento conservatore, provenienti in gran parte dal Nord. Il problema con cui essi do-vettero subito confrontarsi consisteva nel fatto che al Sud pochissime persone condi-videvano i loro valori di fondo.

Nel 1862 si riunì una Commissione parlamentare d’inchiesta sul cosiddetto «Grande Brigantaggio», che si occupò di indagare anche sulla camorra. Il risultato dei lavori della Commissione fu la legge dell’agosto 1863, che conferiva a ristretti comitati di funzionari pubblici e magistrati il potere di punire senza processo alcune categorie di sospettati, tra cui rientravano i camorristi. La condanna che tali comitati potevano comminare era il domicilio coatto, vale a dire un esilio interno su un’isola vicina alla costa italiana.

Il domicilio coatto, pensato per affrontare il problema della camorra, non produsse i risultati sperati e, anzi si trasformò in uno strumento di diffusione della criminalità orga-

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nizzata perché, quando venivano trasferiti nelle isole penali, i camorristi si dedicavano alle loro consuete attività illecite e trasformavano i detenuti più giovani in delinquenti irrecuperabili16.

Nel marzo 1876, in seguito alla spaccatura della Destra sulla questione della naziona-lizzazione delle ferrovie, salì al governo la Sinistra storica, un’ampia coalizione i cui esponenti, in buona parte meridionali, volevano estendere la democrazia e investire più fondi per migliorare le infrastrutture nazionali. Uno dei principali provvedimenti pro-mossi da questo raggruppamento politico fu la riforma elettorale del 1882, che rico-nosceva il diritto di voto a chiunque avesse frequentato i primi due anni di scuola ele-mentare e pagasse un determinato importo di tasse. La diffusione della democrazia di cui si fecero paladini i leader della Sinistra storica andò a favore dei camorristi, che si guadagnarono il potere di distribuire privilegi ambiti, come le esenzioni dal servizio militare e gli impieghi al Comune.

Nei primi anni Novanta dell’Ottocento il capo supremo dell’Onorata Società napo-letana era Francesco (Ciccio) Cappuccio, conosciuto come «’o signurino»17. Cappuccio

era specializzato nel settore del mercato dei cavalli, in particolare quello dei ronzini eccedenti che l’esercito metteva qualche volta all’asta. Come altri capi camorristi, egli commerciava anche nella biada per cavalli. Tutto questo permetteva a «o’ signurino» e ai suoi pari di esercitare un controllo assoluto su tutti i cocchieri napoletani.

Cappuccio morì nel dicembre del 1892 per cause naturali. La sua scomparsa mise in evidenza in modo inquietante fino a che punto la camorra fosse penetrata nel tessuto sociale napoletano. «Il Mattino», il quotidiano più venduto a Napoli, elogiava «’o signu-rino Ciccio» definendolo come un giudice di pace della plebe.

Negli ultimi anni dell’Ottocento la criminalità organizzata cominciò ad essere uno dei principali argomenti della stampa di Napoli. Nel 1899 il nuovo quotidiano socialista «La Propaganda» lanciò una campagna contro la corruzione e la delinquenza. Il principale bersaglio della polemica era Alberto Aniello Casale, un parlamentare che aveva molti contatti con la malavita napoletana. Casale rispose agliattacchi dei giornalisti della «Pro-paganda» denunciando il quotidiano per diffamazione. Dopo aver perso la causa al pro-cesso penale istruito per risolvere la questione, Casale si dimise da parlamentare. Di

16 Su quanto detto sin qui cfr. M. Marmo, Ordine e disordine: la camorra napoletana dell’Ottocento, in «Meridiana», n. 7-8, 1990, pp. 157-190; J. Dickie, Onorate Società, cit., pp. 59-74.

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conseguenza, il consiglio comunale di Napoli fu sciolto e si aprì ufficialmente un’inchie-sta sulla corruzione dell’amministrazione cittadina, guidata dal senatore ligure Giuseppe Saredo.

Nonostante tutti gli ostacoli, dopo tre mesi di lavori Saredo e gli altri commissari raccolsero una gran quantità di prove sulla concessione di posti di dipendente pubblico a Napoli da parte dei funzionari comunali con l’intermediazione di alcuni «faccendieri», che chiedevano in cambio un piccolo compenso. Tutto ciò era reso possibile da un vero e proprio sistema clientelare, gestito dagli esponenti di quella associazione criminale che il rapporto Saredo definì «alta camorra».

Un effetto diretto dei risultati dell’inchiesta condotta dalla Commissione Saredo fu l’avvio di un processo, che si concluse con la condanna di dodici persone, tra cui Alberto Casale e l’ex sindaco di Napoli Celestino Summonte.

Nei primissimi anni del Novecento, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti gestì un periodo di grande crescita economica e introdusse significative riforme sociali. Desi-deroso di mantenere un forte consenso elettorale, Giolitti non intervenne con decisione per combattere la piaga della camorra nel Napoletano.

Alle elezioni politiche del novembre 1904, furono arruolati camorristi nel collegio na-poletano della Vicaria per intimidire i sostenitori socialisti e orientare il voto in direzio-ne di Giolitti. Il giorno delle votazioni i delinquenti si posero a guardia dei seggi insieme ai poliziotti. Qui gli elettori andavano a scambiare il loro voto con denaro contante18.

Fra i camorristi presenti alle elezioni del 1904 c’era il boss della sezione della Vicaria, Enrico Alfano, noto come «Erricone». Come la polizia ben sapeva, costui era allora il capo supremo dell’Onorata Società napoletana. Tra il 1906 e il 1912, Erricone rimase coin-volto nel processo Cuocolo, che riaccese le polemiche politiche generate dal rapporto Sa-redo e, di fatto, smantellò la vecchia camorra. Il processo trae origine dagli omicidi del camorrista Gennaro Cuocolo, trovato morto all’alba del 6 giugno 1906 in un vicolo a Torre del Greco, e della moglie Maria Cutinelli, un’ex prostituta rinvenuta senza vita qualche ora dopo in un appartamento nel centro di Napoli. Entrambe le vittime erano state accoltellate diverse volte e in più Cuocolo aveva la testa sfondata a bastonate. L’8 luglio 1912 la Corte d’Assise di Viterbo condannò alla reclusione in carcere gli imputati riconosciuti colpevoli di omicidio e appartenenza ad un’organizzazione

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nale. Decisive per l’andamento del processo Cuocolo furono le testimonianze del mer-cante di cavalli, stalliere ed ex camorrista Gennaro Abbatemaggio e di due carabinieri, il maresciallo Erminio Capezzuti e il capitano Carlo Fabbroni19.

Dopo il processo Cuocolo, l’Onorata Società napoletana scomparve, ma la malavita rimase attiva in alcuni punti della città, come i mercati all’ingrosso e il porto di Bagnoli, dove estorsione e contrabbando erano la norma. Qui entravano in azione i guappi, boss di strada che spesso erano ex camorristi o figli di camorristi. La criminalità organizzata campana aveva allora solide basi anche ad Aversa, a Nola, a sud del Vesuvio e nella co-siddetta «Terra dei Mazzoni», una vasta area selvaggia, paludosa e pianeggiante situata a nord-ovest di Napoli, dove vivevano gruppi di mandriani dediti all’allevamento di bufali e alla produzione di mozzarelle.

Al termine della prima guerra mondiale, da cui l’Italia uscì vittoriosa, si crearono gravi tensioni politiche che portarono al crollo della democrazia e all’avvento del fa-scismo al potere. Tra il 1922 e il 1927, lo Stato fascista guidato da Benito Mussolini si impegnò in una vigorosa offensiva contro la camorra rurale, radicata tra Aversa e Nola e nei Mazzoni. L’uomo incaricato di condurre la campagna di «bonifica morale» del fa-scismo in Campania era il colonnello dei carabinieri Vincenzo Anceschi, nato a Giugliano, al margine dei Mazzoni. Gli uomini di Anceschi pattugliavano le campagne a cavallo, se-questrando armi a famiglie notoriamente pericolose, arrestando fuorilegge e smembran-do numerose amministrazioni locali. Dopo aver scoperto circa 20 associazioni criminali e aver mandato sotto processo 494 uomini, il colonnello Anceschi illustrò il suo lavoro in un rapporto inviato al Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, nel maggio 192820.

Alla fine degli anni Venti, visti i buoni risultati dell’operazione Anceschi, Mussolini de-cise che la camorra era stata sconfitta e stabilì che il regime aveva risolto la «questione meridionale», ossia il problema persistente dell’arretratezza, della corruzione e della mi-seria nel Sud del paese. Pertanto, nelle discussioni pubbliche non si parlò più di questi argomenti per quindici anni.

Durante la seconda guerra mondiale, la liberazione dell’Italia dai nazifascisti con il sostegno decisivo degli Alleati anglo-americani rimise in moto la storia della camorra. Nel 1943, dopo la creazione dell’Amgot (Governo militare alleato nei territori occupati)

19 Un’esposizione dettagliata sulle indagini e sulle vicende del processo Cuocolo è fornita in ivi, pp. 242-252, 259-280.

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in Sud Italia, a Napoli emersero quelli che erano divenuti i guappi più potenti di via For-cella, ossia i ragazzi Giuliano: Pio Vittorio, Guglielmo e Salvatore.

Negli anni del dopoguerra, a Napoli si insediò una giunta comunale guidata dal mo-narchico Achille Lauro. Tra i fedeli sostenitori di Lauro c’erano alcuni guappi, che, in cambio di favori, esercitavano influenza politica in tempo di elezioni e risolvevano i pro-blemi quotidiani. Il guappo più famoso era Giuseppe Navarra, soprannominato «il re di Poggioreale». Durante la guerra, Navarra aveva operato nel settore della borsa nera e si era arricchito vendendo i rottami metallici che i suoi uomini trovavano negli edifici bom-bardati. Avvolto in strati di leggenda e teatralità, Navarra esercitava un potere fondato sulla minaccia della violenza e rappresentava una specie di ponte tra i quartieri poveri di Napoli e i palazzi del potere cittadino21.

Per tutti gli anni Cinquanta il territorio napoletano fu una zona franca per il traffico internazionale di sigarette, controllato dai clan marsigliesi e siciliani. Alla metà degli anni Sessanta, con l’incrinarsi del duopolio siculo-marsigliese, emersero i contrabban-dieri napoletani, tra i quali c’era Michele Zaza detto «’o pazzo»22, che qualche anno dopo

sarebbe diventato il principale organizzatore del traffico di sigarette a Napoli.

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, alcuni mafiosi siciliani fu-rono mandati in soggiorno obbligato nel Napoletano. Qui essi avevano stretto amicizia e legami di parentela con diversi camorristi. Inoltre, i più importanti contrabbandieri di Napoli furono affiliati a Cosa Nostra. Con il consenso dei boss palermitani, si crearono due famiglie di Cosa Nostra in Campania: gli Zaza-Mazzarella, con sede a Napoli, e i Nu-voletta, insediati a Marano, una cittadina della provincia napoletana. Michele «’o pazzo», affiliato alla famiglia degli Zaza-Mazzarella, rappresentava la camorra urbana, mentre i fratelli Nuvoletta rientravano nella tipologia dei camorristi rurali che avevano preso il controllo del mercato dei prodotti ortofrutticoli.

Nei primi anni Settanta, l’espansione del mercato delle sigarette di contrabbando e la creazione di legami stretti fra la criminalità organizzata siciliana e quella napoletana contribuirono alla «mafizzazione» della camorra. Lo stesso termine «camorra» cominciò ad assumere un significato diverso rispetto al passato. I camorristi, che un tempo erano

21 Sulle attività dei guappi napoletani nel secondo dopoguerra e sulla figura di Giuseppe Navarra cfr. J. Dickie, Mafia Republic. Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta dal 1946 ad oggi (trad. it. di F. Galimberti), La-terza, Roma-Bari 2016, pp. 41-50.

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membri di piccole bande locali, contrabbandieri o guappi, diventavano ora funzionari di gruppi criminali molto grandi, estremamente raffinati in ambito finanziario23.

L’associazione criminale campana che probabilmente ha avuto il maggior seguito nella storia italiana è la Nuova Camorra Organizzata (Nco), fondata nel 1971 da Raffaele Cutolo, noto come «’o professore»24. Rinchiuso nel penitenziario di Poggioreale dopo

esser stato riconosciuto colpevole di omicidio, estorsione e traffico di cocaina, Cutolo riuscì abilmente ad assoldare ragazzi isolati, non affiliati ad altre bande, e ad estendere il suo potere a molte carceri italiane, procurandosi la manodopera necessaria per gestire in modo disciplinato affari criminali su scala industriale nel mondo esterno.

L’ideologia della Nco abbracciava un insieme di temi e sentimenti diversi che, oppor-tunamente mescolati, erano capaci di conquistare molti militanti. Innanzitutto, Cutolo puntava sul contrasto ai non campani e ai non napoletani, in opposizione a chi voleva colonizzare la regione e il capoluogo partenopeo. In tale ottica, il boss di Ottaviano sotto-lineava la necessità di una contrapposizione alla mafia siciliana, che da circa un decennio era presente a Napoli per approfittare del redditizio affare del contrabbando.

Oltre a puntare sul sentimento campano, la camorra di Cutolo si faceva portatrice di diritti, giustizia e riscatto per le classi sociali più disagiate e vessate. Il tutto era forzato e retorico, ma funzionale ad attirare tanti ragazzi e uomini in cerca di legittimazione. Il carattere pubblico della «camorra-massa» cutoliana rappresentava un elemento innovativo rispetto alle modalità di azione tipiche della mafia e della ‘ndrangheta. Un altro elemento nuovo introdotto dalla Nco è il culto della personalità, unito ad un fervore ideologico senza precedenti. Cutolo era venerato da molti camorristi, pronti a sacrifi-carsi per lui. Le ragioni della sua fama stavano nell’acuta intelligenza organizzativa del boss di Ottaviano, che costruì la Nco come un’azienda, di cui tutte le persone reclutate si sentivano parte. Allo scopo di aumentare la compattezza del suo gruppo criminale, Cu-tolo mutuò rituali e terminologia dalla ‘ndrangheta.

La Nco praticava vari tipi di attività, tra cui estorsione, spaccio di droga, furto di ca-mion, truffe sui sussidi all’agricoltura concessi dalla Comunità Economica Europea e

23 Sulla «mafizzazione» della camorra cfr. C. Castellano, Individui sospetti, patrimoni pericolosi: le misure

di prevenzione nella lotta alle mafie, in G. Gribaudi (a cura di), Traffici criminali. Camorra, mafie e reti inter-nazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 151-152; J. Dickie, Mafia Republic, cit., pp.

131-137.

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filtrazione nei progetti di lavori pubblici finanziati dallo Stato. Queste attività erano gestite dai luogotenenti più fidati di Cutolo, tra cui la sorella maggiore Rosetta.

Nel 1978 la Nco intraprese una sanguinosa guerra contro la Nuova Famiglia (Nf), frutto dell’alleanza tra i clan anticutoliani della città e della provincia di Napoli e le fa-miglie di Cosa Nostra stanziate in Campania. Il conflitto nacque come conseguenza della richiesta da parte del «professore» di un tributo di 20.000 lire per ogni cassa di si-garette di contrabbando sbarcata in Campania. Questo ultimatum fu respinto dai clan del comprensorio di Napoli che, con l’appoggio di Cosa Nostra, si unirono per resistere all’offensiva della Nco e impedire a Cutolo di diventare il capo supremo della camorra campana. All’inizio degli anni Ottanta l’intera regione era insanguinata dagli scontri tra la Nco e la Nf, guidata da boss come Michele Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardel-lino. La guerra si protrasse per cinque anni e lasciò sul campo circa mille vittime.

Mentre il conflitto era in corso, si verificò un fatto inaspettato, che sconvolse la natura della camorra. Il terremoto del 23 novembre 1980, con epicentro in Irpinia, uccise 2.914 persone in tutta la Campania. In seguito al sisma, la camorra prese di mira il settore delle costruzioni. Approfittando della confusione che si era venuta a creare nel programma della ricostruzione post-terremoto sull’attribuzione di poteri e responsabilità, gli uomini di Cutolo e quelli della Nuova Famiglia lucrarono sulla catastrofe.

L’episodio che rivelò i legami della camorra con il settore edilizio fu il sequestro del politico democristiano Ciro Cirillo, il quale era stato nominato responsabile della ge-stione dei fondi per la ricostruzione affidati alla giunta regionale campana. Rapito la sera del 27 aprile 1981 da terroristi napoletani appartenenti alle Brigate Rosse, Cirillo venne rilasciato all’alba del 24 luglio dietro pagamento di un riscatto di 1.000.450.000 lire. Durante la prigionia di Cirillo, lo Stato aveva trattato la sua liberazione con le Br e la Nco. Circa un anno e mezzo dopo la liberazione di Cirillo, si verificò un evento decisivo per le sorti della guerra di camorra. Nel gennaio del 1983, il comandante in capo delle forze armate della Nco Enzo Casillo, soprannominato «o’ nirone» per i suoi capelli neri, fu di-sintegrato da un’autobomba esplosa a Roma. La morte del braccio destro di Cutolo diede inizio a un rapido sgretolamento della Nuova Camorra Organizzata: senza più guida, i seguaci del «professore» furono massacrati dalle squadre di sicari della Nuova Famiglia. Il conflitto si concluse quindi con la vittoria della Nf25.

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Con la Nco ormai fuori gioco, i componenti della Nuova Famiglia entrarono in com-petizione per il controllo dell’economia della ricostruzione post-terremoto. I Nuvoletta, la dinastia più antica della camorra, furono sbaragliati nel giro di un anno dagli uomini di Antonio Bardellino26. Il tramonto dei Nuvoletta segnò la fine dell’influenza della mafia

siciliana in Campania.

Il principale alleato di Bardellino era Carmine Alfieri, noto come «’o ‘ntufato» (l’arrab-biato). Costui emerse dalla guerra contro i Nuvoletta come il boss camorrista più potente in tutta la Campania, dal momento che Bardellino si trovava allora in Messico, dove ge-stiva una base di narcotraffico. Memore del fallimento del colonialismo di Cosa Nostra in Campania e delle ambizioni di egemonia regionale di Cutolo, Alfieri non cercò di im-porre il suo controllo sugli altri clan e si pose a capo di una confederazione di gruppi criminali autonomi, ognuno dei quali aveva il suo capo e i suoi uomini di fiducia.

I nuovi clan camorristi di metà e fine anni Ottanta beneficiarono di una particolare commistione tra crescita economica e inefficienza politica. Sul piano economico, tra il 1982 e il 1987 l’inflazione calò e si registrò un boom del mercato azionario. Dal punto di vista politico, il decennio fu dominato dal Pentapartito, una coalizione di governo for-mata da democristiani, socialisti, socialdemocratici, liberali e repubblicani. Lunghissime negoziazioni e continue manovre di potere impedirono al governo italiano di fare riforme e limitare la spesa pubblica. In questa situazione emerse la figura del «politico d’affari»: un amministratore locale o un funzionario di partito che riscuotevano tangenti sugli appalti pubblici.

Specialmente nel Sud Italia, la corruzione del sistema politico favorì la criminalità or-ganizzata. Per ogni partito politico, come per qualsiasi azienda che cercava di fare affari con il settore pubblico, avere amici malavitosi divenne un vantaggio competitivo nella lotta per il possesso di risorse pubbliche.

All’inizio degli anni Ottanta, tutti i più importanti clan di camorra avevano il loro ce-mentificio nel settore dell’edilizia. Le mazzette e la divisione dei lavori in subappalti red-ditizi divennero la norma. Fu così che Napoli e le città grandi e piccole della Campania furono ricostruite a immagine della criminalità organizzata.

26 Antonio Bardellino (San Cipriano d’Aversa, 4 maggio 1945 ⎼ Armação dos Búzios, 26 maggio 1988) è stato il fondatore e il capo del clan camorristico dei Casalesi tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento.

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Dopo il tramonto di Carmine Alfieri, nel 1992, il clan camorristico di Casal di Principe ha preso il sopravvento all’interno della malavita campana. I Casalesi erano un gruppo di killer che negli anni Ottanta avevano combattuto contro la Nuova Camorra Organizzata. Il gruppo si trasformò poi in una federazione composta da quattro famiglie criminali. Nel 1988 i Casalesi uccisero il loro stesso capo, Antonio Bardellino. Alla fine di una sangui-nosa guerra civile, essi si impossessarono dei suoi interessi nell’edilizia e nel traffico di sostanze stupefacenti e cominciarono a dedicarsi alle truffe agricole e alla commercia-lizzazione di mozzarella di bufala. Inoltre, stabilirono un monopolio locale sulla distri-buzione di prodotti contrassegnati da famosi marchi alimentari.

Nei primi anni Novanta, Napoli e la Campania furono colpite da una crisi della spaz-zatura. Le discariche erano stracolme di rifiuti, il cui odore nauseabondo provocava gravi problemi sanitari fra le persone residenti nelle vicinanze. Il progetto di smalti-mento dei rifiuti prospettato dal governo italiano per risolvere l’emergenza si trasformò ben presto in un disastro ambientale. Lo scandalo della monnezza creò opportunità di guadagno per la camorra, che si infiltrò subito nel sistema di smaltimento dei rifiuti attraverso i suoi legami con alcuni dei diciotto consorzi istituiti per la gestione della raccolta differenziata nelle diverse parti della Campania. Uno di questi consorzi era la società chiamata Eco4, un’azienda di facciata dei Casalesi con sede a Mondragone, ca-pitale della mozzarella di bufala situata lungo la costa settentrionale della regione27.

Gli ambientalisti hanno coniato il termine «ecomafia» per definire una forma di crimi- nalità organizzata che danneggia le risorse naturali di un paese. L’abusivismo edilizio, il traffico di oggetti artistici e il business dei rifiuti sono le attività più redditizie per le ecomafie. In particolare, la spazzatura è l’area dell’economia criminale che ha fatto re-gistrare la maggiore crescita negli ultimi vent’anni.

1.3. Tra Sicilia e America: la mafia

Fino a poco tempo fa, per la maggioranza della popolazione siciliana il termine «ma-fia», o per meglio dire «mafiosità», designava una mentalità tipicamente isolana, una sin-drome consistente in un rafforzamento dell’ego che comportava una certa riluttanza a

27 Sulla crisi della spazzatura e sulla conseguente infiltrazione della camorra nel settore dei rifiuti cfr. J. Dickie, Mafia Republic, cit., pp. 415-421.

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risolvere le proprie controversie per vie ufficiali. Questa teoria infondata è stata diffusa e incoraggiata dagli stessi mafiosi, che per tanti anni sono riusciti a perpetuare l’illusione dell’inesistenza in Sicilia della criminalità organizzata. Nel giro di poco più di un secolo di storia, la mafia siciliana è riuscita a diventare l’organizzazione criminale più forte al mondo dal punto di vista politico.

La più antica menzione di sodalizi mafiosi in Sicilia è contenuta in un rapporto che il Procuratore Generale del Re, Pietro Calà Ulloa, scrisse al Ministro della Giustizia del Re-gno delle Due Sicilie, Parisio, nel 1838. Nel rapporto, si parla di «fratellanze» che gesti-scono la compravendita del bestiame rubato e offrono la propria «mediazione» per far recuperare i beni rubati, corrompono funzionari e assistono i soci coinvolti in processi28.

Come la camorra, anche la mafia siciliana entrò in scena nel periodo risorgimentale. Prima del 1860, la Sicilia era parte integrante del Regno delle Due Sicilie. Il controllo dello Stato borbonico sull’isola era piuttosto fragile. I rivoluzionari istruiti aderivano a sette massoniche segrete come la Carboneria. In prigioni sporche e sovraffollate, i car-bonari strinsero rapporti con le bande criminali e le reclutarono per farne un esercito insurrezionale. In questa situazione, le autorità borboniche si vedevano costrette a scen-dere a patti con la criminalità per riuscire a governare.

Durante la spedizione dei Mille, Garibaldi conquistò la Sicilia, per poi cederla al nuovo Regno d’Italia. Allo scopo di combattere la criminalità, la Destra storica governò l’isola con pugno di ferro, respingendo le richieste di autonomia provenienti da una parte della classe politica siciliana e finendo per farsi odiare dalla popolazione locale.

La mattina del 16 settembre 1866 Palermo fu invasa da un gruppo di ribelli prove-nienti da Monreale, dai paesini della Conca d’Oro e dalle cittadine delle montagne retro-stanti. Solo una settimana dopo le truppe riuscirono a ripristinare l’ordine in città. Tra i monrealesi che si erano posti all’avanguardia della rivolta inneggiando alla repubblica italiana vi era Salvatore (Turi) Miceli. Costui era al contempo un agricoltore, un rivolu-zionario e un ricco proprietario mafioso, che si guadagnava da vivere con la violenza. Cooptato nella polizia borbonica come capo-squadra nel 1848 e insorto nel 1860 a fian-co dei garibaldini nella lotta fian-contro i Borboni, Miceli morì il 18 settembre 1866 guidando l’assalto alle prigioni dell’Ucciardone29.

28 Alcuni stralci del rapporto sono riportati in P. Pezzino, Mafia: industria della violenza, cit., pp. 6-7. 29 Sulla rivolta del settembre 1866 e su Turi Miceli cfr. S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 60-61; J. Di-ckie, Onorate Società, cit., pp. 78-85.

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Nei primi anni Settanta dell’Ottocento, il grande banditismo siciliano imperversava nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta: numerosi briganti riuniti in bande si aggiravano per le campagne, dove commettevano furti, abigeati, rapine e se-questri di persona. Fu questo il periodo in cui si creò una catena di relazioni mafiose che avrebbero legato alcuni personaggi tra Palermo e la sua vasta provincia fino alla fine del secolo. Gli anelli principali della catena erano quattro: il capo della cosca della borgata Uditore Antonino Giammona, il bandito Angelo Pugliese detto don Peppino il Lombardo, i grandi gabellotti Guccione e il barone Nicolò Turrisi Colonna30.

Fino a poco tempo fa, la storiografia enfatizzava la differenza tra bandito e mafioso, intendendo il primo come un fuorilegge ricercato e il secondo come un rispettato uomo d’ordine. In realtà, il bandito vive alla macchia solo periodicamente, mentre per la mag-gior parte dell’anno sogmag-giorna in paese, ben protetto da parenti e amici. Inoltre egli ten-de a realizzare con la forza un dominio territoriale simile a quello esercitato dalle cosche mafiose. Tuttavia, i banditi hanno un atteggiamento più conflittuale di quello dei mafiosi nei confronti delle autorità statali. Essi di norma proteggono soltanto coloro che sono i diretti complici della banda, mentre i mafiosi tendono a fare della protezione una vera e propria industria, a carattere espansivo e monopolistico31.

Con l’avvento al potere della Sinistra storica nel marzo 1876 ha inizio un «processo di progressiva compenetrazione e identificazione tra il potere mafioso e il potere pubblico nella sua duplice articolazione a livello periferico e a livello del governo locale»32. Fra i

politici che rappresentavano la Sicilia c’erano proprietari terrieri che avevano stretto un accordo con i mafiosi per proteggere e gestire le loro terre in cambio di voti elettorali. In questo sistema clientelare il giovane intellettuale toscano Leopoldo Franchetti rintracciò l’aspetto specifico della criminalità organizzata mentre conduceva un’inchiesta «privata» in Sicilia insieme a Sidney Sonnino. Nel primo volume del resoconto dell’inchiesta del 1876, Franchetti fa risalire il problema della mafia alla mentalità individualista della classe dirigente siciliana, abituata a considerare le istituzioni strumento di sopraffazione e incapace di esercitare il potere attraverso l’impersonalità della legge e di mettere in secondo piano gli egoismi delle classi superiori rispetto agli interessi dei ceti subalterni.

30 Per un’esposizione dettagliata sui rapporti fra banditi e malavitosi nel periodo post-unitario si veda R. Mangiameli, Banditi e mafiosi dopo l’Unità, in «Meridiana», n. 7-8, 1990, pp. 73-113.

31 Sulle somiglianze e sulle differenze tra mafia e banditismo cfr. R. Catanzaro, Il delitto come impresa, cit., pp. 33-35; P. Pezzino, Mafia: industria della violenza, cit., pp. 46-47.

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Nel 1878 le rivelazioni di Rosario La Mantia, un mafioso di Monreale, portarono alla scoperta della connessione tra le cosche del Palermitano e i gruppi criminali attivi in America e provocarono i grandi processi contro i cosiddetti «compari», chiamati «stop-pagghieri» dai loro avversari, e la «mafia di Porta Montalto», guidata dai fratelli Amo-roso. «Stoppagghiere» è un termine spregiativo usato in carcere col significato di spia. In base alla ricostruzione delle autorità, la «setta» degli stoppagghieri sarebbe stata fon-data a Monreale nel 1872 dal mazziniano Giuseppe Palmeri di Nicasio. Il processo agli stoppagghieri si svolse nel 1880 e si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove. Esito diverso diede nel 1883 il processo alla cosca di Porta Montalto, che vide il riconoscimento dell’associazione e dodici condanne a morte per omicidi33.

Nello stesso anno la polizia siciliana scoprì un’organizzazione conosciuta con il nome di «Fratellanza», che operava nelle province di Agrigento e Caltanissetta. Il principale settore in cui questa società mafiosa aveva concentrato il proprio interesse era l’estra-zione e l’esportal’estra-zione dello zolfo34.

Negli anni Settanta dell’Ottocento la mafia era una setta clandestina di criminali con ramificazioni in tutta la Sicilia occidentale, dove si era specializzata soprattutto nel com-mercio di agrumi. Questo lo sapeva bene Ermanno Sangiorgi, l’ispettore che guidò l’in-chiesta sulla cosca dell’Uditore e scoprì il rituale di iniziazione a cui venivano sottoposti i suoi affiliati. Nel 1898 Sangiorgi sarebbe diventato questore di Palermo e tre anni dopo avrebbe combattuto apertamente la mafia radicata sulla Piana dei Colli facendo pro-cessare molti dei suoi esponenti, che poi sarebbero stati assolti per mancanza di prove. L’esempio più significativo dei legami che si crearono tra mafia e politica durante il governo della Sinistra storica è l’affare Notarbartolo35. Il 1° febbraio 1893 il banchiere

Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, esponente di una celebre famiglia aristocratica siciliana, venne pugnalato a morte su una carrozza ferroviaria che procedeva sulla linea Termini Imerese-Palermo. Notarbartolo era un uomo della Destra storica, apprezzato per la sua dirittura morale e per le capacità amministrative che aveva dimostrato tra il 1873 e il 1890 come sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. Subito dopo il delitto, circolarono voci che ne attribuivano la responsabilità all’onorevole

33 Sui processi agli stoppagghieri e alla cosca di Porta Montalto si consulti S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 112-119.

34 Brevi accenni alla «Fratellanza» sono riportati in ivi, pp. 71-72.

35 Su questo cfr. S. Lupo, Tra banca e politica: il delitto Notarbartolo, in «Meridiana», n. 7-8, 1990, pp. 119-155; Id., Storia della mafia, cit., pp. 121-163.

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faele Palizzolo, il quale aveva avuto rapporti conflittuali con Notarbartolo per questioni di speculazione e di brogli affaristici. Le indagini sull’omicidio furono insabbiate sotto i vari governi che si succedettero fino al 1899. Uno di questi governi era quello presieduto dal marchese Antonio di Rudinì, amico di Emanuele Notarbartolo e leader della Destra. Con l’arrivo del generale Pelloux alla guida del governo, il delitto Notarbartolo tornò sotto i riflettori nel quadro di una ripresa della lotta alla mafia. Per risolvere il caso fu-rono indetti tre processi. Nel primo processo, celebrato a Milano tra il 1899 e il 1900, comparvero solo due imputati minori, i ferrovieri Carollo e Garufi, complici dell’omi-cidio. Il secondo processo si aprì a Bologna nel settembre del 1901 e si concluse nel-l’estate del 1902 con la condanna a trent’anni di galera di Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana, indicati rispettivamente come mandante ed esecutore materiale del delitto. Dopo l’annullamento della sentenza da parte della Cassazione, si svolse a Firenze il terzo processo, che nel 1904 vide l’assoluzione di Palizzolo e Fontana per insufficienza di prove.

Nel 1890, la mafia fece la sua comparsa in America con l’assassinio del capitano David Hennessy, comandante della polizia di New Orleans. La responsabilità del delitto fu addebitata a un clan di siciliani, che si contrapponeva ad un altro gruppo criminale di corregionali per il controllo degli affari del porto. I sospettati vennero assolti e subito dopo linciati dalla folla istigata dal sindaco Shakespeare36.

Durante la grande emigrazione italiana (1901-14), arrivano negli Stati Uniti più di 800.000 siciliani, tra cui si nascondono latitanti e pregiudicati che diventano esportatori di mafia. Nel 1903 a New York si materializzò un tenebroso sodalizio di nome «Mano Nera», composto da vari gruppi criminali italiani, che operavano sul modello della ca-morra più che su quello della mafia. Il termine apparve in alcune lettere estorsive in-dirizzate ad affaristi italiani, cui seguivano attentati e omicidi. Le indagini furono affidate ad una squadra speciale della polizia newyorchese guidata dal tenente di origini cam-pane Joe Petrosino. Il 12 marzo 1909 Petrosino fu assassinato a colpi di pistola nel corso di una missione a Palermo volta a dimostrare la porosità del sistema di controllo dell’im-migrazione e le presunte complicità del governo italiano. Il luogo e le modalità del de-litto rafforzarono subito la convinzione che ci fosse dietro una cospirazione mafiosa.

36 L’episodio è riportato in S. Lupo, La mafia americana: trapianto o ibridazione?, in «Meridiana», n. 43, 2002, pp. 15-16; Id., Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Einaudi, Torino 2008, pp. 11-12.

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Da allora, nel dibattito americano si è preferito usare il termine «mafia», rispetto a «criminalità organizzata», allo scopo di «enfatizzare l’elemento strettamente etnico, puntare il dito accusatore sul bagaglio culturale portato dagli immigrati italiani (oltre che siciliani) nel nuovo mondo, sospettare che il loro spirito di omertà, l’arcaica ten-denza alla violenza loro attribuita, derivasse da segrete connessioni con segrete asso-ciazioni»37. In altre parole, dire mafia ha significato denunciare un complotto straniero

contro gli Stati Uniti e la loro civiltà.

Nel primo dopoguerra, la nuova riforma elettorale introdusse il sistema proporzio-nale, che rappresentò il culmine del suffragio universale maschile (1913). Alle elezioni amministrative del 1919 e del 1921, in Sicilia ottennero maggiori consensi i gruppi pro-gressisti: radicali, socialriformisti e demo-sociali. In questa fase storica la figura del ma-fioso si avvicinava a quella del notabile progressista che, con intenti affaristico-cliente-lari, strumentalizzava ai propri fini i processi di democratizzazione. Esempi evidenti di mafiosi-notabili erano l’avvocato Antonio Ortoleva di Mistretta e i boss Calogero Vizzini di Villalba, Giuseppe Genco Russo di Mussomeli e Michele Navarra di Corleone.

Durante il periodo fascista, il pendolo dell’antimafia si orientò verso destra, come era già accaduto nel periodo post-risorgimentale. Il 23 ottobre 1925 il poliziotto lombardo Cesare Mori venne nominato, con amplissimi poteri, prefetto di Palermo. Mori diede subito inizio alla repressione nei confronti della mafia con un’ordinanza nella quale si stabilivano disposizioni tendenti a colpire tutte le attività di intermediazione mafiosa, a reprimere l’abigeato e la macellazione clandestina, a sottoporre a stretto controllo quelle occupazioni che costituivano terreno fertile per i mafiosi.

Nel 1926 scattò la cosiddetta «Operazione Mori»: vi furono grandi retate che com-portarono migliaia di arresti fra i limoneti della Conca d’Oro e fra i tanti piccoli centri ad alta concentrazione mafiosa del circondario di Palermo, come Gangi, Bagheria, Misil-meri, Monreale, Corleone e Partinico38. La caccia ai mafiosi proseguì nelle province di

Agrigento, Caltanissetta ed Enna. Secondo alcuni calcoli, nel 1928 il numero degli arre-stati avrebbe toccato quota 11.000, di cui 5.000 nella sola provincia di Palermo. Tra gli altri, Mori riuscì a colpire alcuni pezzi grossi della mafia, come don Vito Cascio Ferro, il principale sospettato dell’omicidio di Joe Petrosino.

37 Id., La mafia americana, cit., in «Meridiana», n. 43, 2002, p. 17.

38 Per una trattazione dettagliata sull’Operazione Mori cfr. R. Catanzaro, Il delitto come impresa, cit., pp. 144-148; S. Lupo, Storia della mafia, cit., pp. 210-225.

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Mentre l’Operazione Mori era in pieno svolgimento, Mussolini decise di raccontare al popolo italiano i risultati che aveva ottenuto. Nel suo discorso del 26 maggio 1927, giorno dell’Ascensione, il Duce sottolineò che, grazie all’Operazione Mori, erano stati cat-turati migliaia di sospetti in decine di città e paesi della Sicilia.

Nel giugno del 1929, Mori fu richiamato a Roma. La sua parte di lavoro per lo sradica-mento della mafia era stata portata a termine con successo, a dire di Mussolini; ora toccava alla magistratura completare l’opera. Nel 1927 era iniziata una lunga serie di processi di mafia, che si sarebbe conclusa solo nel 193239.

Ormai sollevato dal suo incarico, Cesare Mori parlò della mafia come di un fenomeno del passato. Nel 1932, egli pubblicò un libro di memorie intitolato Con la mafia ai ferri

corti, in cui raccontava la propria versione degli eventi che avevano portato alla sconfitta

della criminalità organizzata siciliana contro lo Stato fascista. Secondo Mori, la radice del problema della mafia stava nella psicologia siciliana. I siciliani si facevano impressio-nare facilmente dai mafiosi. Di conseguenza, per conquistarsi il consenso degli abitanti dell’isola, il regime fascista aveva scelto di incutere soggezione e di incarnarsi in uomini duri e carismatici come lo stesso Mori, che durante la sua attività di repressione della mafia in Sicilia si era guadagnato il soprannome di «prefetto di ferro».

Nell’autunno del 1932, durante le celebrazioni per il decimo anniversario della marcia su Roma, il regime, ormai sicuro del suo successo contro la criminalità organizzata, pro-mulgò un’amnista per centinaia di mafiosi che erano stati condannati durante l’Opera-zione Mori. La storia della mafia siciliana riprendeva così il suo corso.

L’occupazione della Sicilia da parte degli Alleati, avvenuta tra il 9 e il 10 luglio 1943, incontrò scarsa resistenza da parte delle truppe tedesche e italiane. Il nuovo Governo militare alleato, per esercitare le sue funzioni esecutive, dovette appoggiarsi alle forze locali: agrari, separatisti e mafiosi. A livello locale, per il ruolo di sindaco furono scelti notabili pre-fascisti tra cui non mancavano uomini d’onore. Due di essi erano l’aristocra-tico Lucio Tasca Bordonaro, nominato sindaco di Palermo dal generale di divisione Ja-mes Rennell Rodd ⎼ capo del Governo militare alleato per conto delle forze armate bri-tanniche ⎼ e Calogero Vizzini, posto alla guida del Comune di Villalba, nel Nisseno40.

39 Uno dei processi più significativi è quello contro la cosiddetta «mafia interprovinciale», che si svolse a Termini Imerese tra l’agosto del 1928 e la primavera del 1929. Su questo processo si rimanda a G. Raffae-le, Comunità, notabili, politica negli anni del fascismo, in «Meridiana», n. 7-8, 1990, pp. 191-195.

40 Sul ruolo dei mafiosi come sindaci nel periodo dell’occupazione alleata in Sicilia, cfr. R. Catanzaro, Il

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