• Non ci sono risultati.

Scenari e strategie del crimine in Puglia

2.3. Foggia e la Capitanata

2.3.1. Il quadro criminale

L’ampia provincia di Foggia stimolò subito la bramosia della Nuova Camorra Orga- nizzata per le sue ricchezze nel settore agricolo: il ciclo del grano e quello del pomodoro erano le principali eccellenze del Tavoliere delle Puglie già negli anni Settanta e Ottanta. In quel periodo l’organizzazione cutoliana assunse il controllo delle industrie agroali- mentari foggiane con l’intento «di trasformare, per i loschi affari, la Capitanata in sesta provincia campana»13.

Dopo gli incontri del boss Raffaele Cutolo con alcuni esponenti della malavita pu- gliese a Lucera e Galatina, nel Foggiano si formò una famiglia autonoma con 280 persone guidate da Giuseppe Iannelli e Giosuè Rizzi. Questo gruppo criminale rifiutò di avere rapporti con la Sacra Corona Unita di Rogoli sconfessandone i progetti e le strategie. Nella seconda metà degli anni Ottanta la provincia di Foggia si divideva in cinque zone di insediamento criminale: 1) Ofanto (Margherita di Savoia, Trinitapoli, San Ferdinando di Puglia); 2) Sud Tavoliere (Cerignola, Orta Nova, Stornara); 3) Foggia; 4) San Severo; 5) Gargano. In tutte queste zone si praticava prevalentemente il commercio di sostanze stupefacenti. In particolare, la criminalità organizzata era più radicata a Foggia, San Severo, Manfredonia e Cerignola, ma la pressione delle associazioni mafiose si avvertiva anche nei comuni di Apricena, Torremaggiore, Monte Sant’Angelo, San Marco in Lamis, San Nicandro Garganico, San Ferdinando di Puglia, Orta Nova e Trinitapoli14.

Le organizzazioni criminali individuate con certezza nella Capitanata erano 12 e rag- gruppavano complessivamente oltre 300 affiliati. Una di esse era la «Società» foggiana, della cui esistenza si venne a conoscenza in seguito al ritrovamento nella casa circonda- riale di Foggia di alcuni documenti riguardanti rituali e procedure d’affiliazione a questo sodalizio criminoso15. I membri della Società erano dediti ad estorsioni, usura, traffico di

13 N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., p. 65.

14 A tal proposito, si veda: Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomento della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, X legislatura, Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro

incaricato di svolgere accertamenti sullo stato della lotta alla criminalità organizzata in Puglia, Doc. XXIII, n.

38, Tipografia del Senato, Roma 18 ottobre 1991, p. 26.

15 Sulla configurazione criminale della provincia di Foggia e sulla Società cfr. A. Apollonio, Storia della

stupefacenti e di armi e, ovviamente, omicidi.

Tra le famiglie più potenti e pericolose in ambito provinciale vi erano i Rizzi, i Moretti e gli Spiritoso di Foggia, i Caputo-Ferraro, i Di Tommaso e i Piarulli di Cerignola, i Di Firmo, i Guerrieri e gli Iacobazzi-Palumbo di San Severo, i Tartaglia-Martino di Apricena, i Marangi di Torremaggiore, i Li Bergolis di Monte Sant’Angelo e i Lombardi di Manfre- donia. Proprio i clan foggiani si sono resi protagonisti di una delle esecuzioni più san- guinose e spettacolari della storia della criminalità organizzata in Puglia: la cosiddetta «strage del Bacardi», che prende il nome dal circolo Bacardi, piccolo locale del centro storico di Foggia, dove il 1° maggio 1986 furono uccise a colpi di mitra quattro persone, nel quadro di una lotta tra gruppi criminali per il controllo dello spaccio di sostanze stupefacenti nella Capitanata. La spedizione punitiva fu commissionata da Giosuè Rizzi, capo della Società foggiana, con la complicità di Salvatore Prencipe e Franco Vitagliani. L’omicidio di Giuseppe Laviano, luogotenente della Scu a Foggia, nel gennaio del 1989 segnò l’ascesa, all’interno della mafia foggiana, di Rocco Moretti, boss dell’omonima fa- miglia, che sarà condannato a 27 anni di carcere per la strage del Bacardi.

Dal commercio di droga la malavita foggiana ricavava guadagni che spesso investiva in altre attività illecite. Inoltre, le associazioni criminali potevano reclutare tossicodi- pendenti, che commettevano piccoli reati in cambio di una dose di qualche sostanza stu- pefacente. Nel Foggiano il principale centro di smistamento della droga era San Severo. Il contrabbando di tabacchi lavorati esteri ⎼ non largamente praticato come nelle altre province pugliesi ⎼ era gestito da quattro organizzazioni criminali che operavano principalmente nelle zone di Manfredonia, foce dell’Ofanto e Margherita di Savoia.

2.3.2. L’impero Casillo e l’affare del pomodoro

Verso la fine del secolo scorso, nella città di Foggia molti imprenditori facevano gli usurai, usando personaggi mafiosi come esattori. Questi ultimi riuscirono ad organizzare in proprio l’attività usuraria utilizzando i profitti ricavati con il traffico di droga e sfrut- tando le loro conoscenze personali. Per i magistrati della Procura della Repubblica l’atti- vità principale dei malavitosi del Foggiano era proprio l’usura. Era stato accertato che le organizzazioni criminali raccoglievano tangenti e al contempo si dedicavano all’usura.

Nel 1991 le forze di polizia condussero un’azione di contrasto che ebbe alcuni positivi risultati, come la diminuzione delle estorsioni a Foggia e dei reati contro il patrimonio nell’intera provincia. Nel corso di due distinte operazioni furono sequestrati 27 kg di eroina pura, vennero arrestati 7 pregiudicati responsabili di estorsioni e 5 rapinatori e fu eseguito il provvedimento di custodia cautelare in carcere emesso dal Gip di Foggia nei confronti di 50 individui sospettati di associazione per delinquere di stampo ma- fioso, estorsione e traffico di stupefacenti.

Le operazioni del 1991 non misero in seria difficoltà la criminalità organizzata di stampo mafioso, che continuò a muoversi liberamente a Foggia in un clima di diffusa ille- galità. Il 6 novembre 1992 i clan locali assassinarono Giovanni Panunzio, un imprendi- tore edile che si era opposto al racket dell’estorsione e aveva fatto arrestare i suoi estor- sori. Tre giorni dopo l’omicidio in città esplose una bomba che incendiò due negozi vicini al nuovo tribunale. Il fragore dell’ordigno suscitò una forte inquietudine nell’animo della popolazione foggiana, resasi conto del fatto che il racket era una tragica realtà.

Intanto, era scoppiato lo scandalo di Tangentopoli: diverse inchieste giudiziarie con- cernenti soprattutto i nastri trasportatori di Manfredonia, la bonifica del golfo di Manfre- donia, i centri turistici di Vieste e il centro commerciale «La Mongolfiera» di Foggia com- portarono arresti e avvisi di garanzia che decimarono la classe politica locale.

Il caos regnante nel capoluogo dauno favoriva i disegni dell’imprenditore Pasquale Casillo, che insieme al fratello Aniello era titolare di un gruppo costituito da 62 aziende specializzate nel settore della macinazione del grano duro. Casillo era inoltre armatore di una flotta mercantile, maggiore azionista di diverse squadre, come il Bologna, la Sa- lernitana e il Foggia, ed editore di un quotidiano napoletano (il «Roma»), con una reda- zione distaccata a Foggia.

Nel 1982 un collaboratore di giustizia aveva dichiarato che gli imprenditori Casillo, originari di San Giuseppe Vesuviano (NA), avevano relazioni con la camorra16, essendo

legati da rapporti di parentela con Vincenzo Casillo, braccio destro di Cutolo. Attraverso Enzo Casillo, la Nco si serviva delle aziende dei cugini per realizzare traffici illeciti, in particolare per nascondere e trasportare armi e droga.

16 Secondo il pentito Pasquale D’Amico, Pasquale Casillo era presente alla riunione tenuta da Cutolo all’hotel Florio di Lucera nel 1979, quando, come si è detto, furono affiliati alla Nco numerosi delinquenti pugliesi (Tribunale di Bari, Sentenza contro Rogoli Giuseppe più altri, cit., pp. 215 sgg.).

Nel 1989 Pasquale Casillo era stato coinvolto in una frode di circa dieci miliardi di lire ai danni dell’Azienda per gli Interventi sul Mercato Agricolo (Aima). Nel dicembre del 1992 l’imprenditore campano venne eletto presidente dell’Unione Industriale di Foggia e si candidò a governare la città. Nel giro di pochi mesi la sua posizione fu messa in crisi dalle rivelazioni di un giudice e di due pentiti.

Il 28 gennaio 1993 il magistrato inquirente che si era occupato dell’omicidio di Gio- vanni Panunzio raccontò ai delegati della Commissione parlamentare antimafia in visita a Foggia che il costruttore edile, prima di essere ucciso dalla mafia del racket, aveva de- ciso di denunciare i suoi estorsori. Panunzio confessò al magistrato di essere stato avvi- cinato da un mafioso, che gli aveva detto di pagare perché tanto c’era un amico impren- ditore in grado di procurargli i lavori al Comune. Nella dichiarazione a verbale, egli non rivelò l’identità del mafioso né quella dell’imprenditore, ma poi disse agli investigatori che il primo si chiamava Pinuccio Spiritoso e che il secondo era Pasquale Casillo. Il so- stituto procuratore aggiunse poi che dopo l’omicidio del costruttore un malavitoso di nome Pompeo Carella gli aveva confermato l’episodio riferito da Panunzio.

Il 13 luglio 1993 Pasquale Galasso, un camorrista legato al boss Carmine Alfieri, fu in- terrogato dalla Commissione parlamentare antimafia, alla quale raccontò il presente e il passato della famiglia Casillo. Egli rivelò che Pasquale e Aniello Casillo erano associati a Carmine Alfieri e avevano molta influenza non mafiosa su Foggia. Inoltre, raccontò del ruolo di mediazione svolto da Alfieri per risolvere i contrasti tra i due «re della crusca» del Sud Italia: Pasquale Casillo e Franco Ambrosio della Italgrani. Poi parlò di Gennaro Casillo, padre di Pasquale e Aniello e zio di Vincenzo Casillo, che era sempre stato sim- patizzante della malavita campana e amico di qualche camorrista. Alla fine degli anni Settanta, insieme ad Alfieri, Galasso era stato ospitato varie volte dai Casillo a Foggia. Secondo il pentito, Gennaro Casillo, capostipite della famiglia di imprenditori di grano, aveva creato in Puglia un impero industriale nel settore cerealicolo, sfruttando i poveri contadini e manipolando le leggi statali per ottenere le sovvenzioni dell’Aima e della Cee. Successivamente Galasso si soffermò sull’omicidio di Giuseppe Sciorio, un camorrista che, inviato a soggiorno obbligato a Foggia nel 1979, era stato assunto nelle aziende del Gruppo Casillo in veste di «guardiano». Sciorio faceva da tramite tra gli imprenditori campani ed alcuni esponenti di Cosa Nostra. Grazie alla sua mediazione i Casillo, in- teressati a operare nel porto di Palermo, erano riusciti ad ottenere la protezione della fa-

miglia di Cosa Nostra competente sulla zona del capoluogo siciliano controllata da Ste- fano Bontate. Tuttavia, il 28 settembre 1983 Sciorio venne ammazzato a Foggia insieme al suo «autista»17.

Anche Salvatore Annacondia confermò ai magistrati i sospetti su Pasquale Casillo, aggiungendo che a Foggia erano presenti la camorra e la ‘ndrangheta e spiegando che, nella terminologia mafiosa, «l’intoccabile» era «l’imprenditore» avente il diritto di deci- dere la vita e la morte delle persone. Ed effettivamente la persona di cui si parlava non poteva essere toccata né dalle istituzioni né dalla criminalità organizzata.

Nel settembre del 1993 «don» Pasquale Casillo annunciò le sue dimissioni dalla pre- sidenza dell’Unione Industriale di Foggia. Le dimissioni furono respinte all’unanimità dagli imprenditori.

Il 21 aprile 1994, su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, Casillo venne arrestato per truffa e mafia. Dopo aver minacciato querele a tutti quelli che lo indicavano come colluso con le organizzazioni mafiose, l’imprenditore diventò un colla- boratore di giustizia.

Nel 1992 nella provincia di Foggia fu scoperta la cosiddetta «mafia del pomodoro». Infatti, nell’estate di quell’anno i camionisti, che trasportavano quotidianamente casse piene di pomodori dalle campagne del Tavoliere alle industrie di trasformazione della Campania, cominciarono ad essere minacciati e a divenire bersagli di attentati. Fermati ai bordi delle strade da gruppi armati, erano costretti ad abbandonare i tir, che poi venivano dati alle fiamme. Allo scopo di scongiurare il ripetersi di questi episodi, per un certo periodo le forze dell’ordine scortarono i veicoli con i loro carichi di «oro rosso». Poi, le indagini degli investigatori coordinati da un magistrato della Procura distrettuale antimafia di Bari sfociarono in un’operazione nel corso della quale fu individuata un’or- ganizzazione locale, composta da elementi di Poggio Imperiale e di Cerignola, che si occupavano del racket del pomodoro e lavoravano in collegamento con esponenti di altre organizzazioni della provincia e clan camorristi del Napoletano.

Secondo l’accusa, sette pregiudicati del Foggiano chiedevano il «pizzo» per la raccolta del pomodoro a due associazioni agricole, l’Assodaunia e l’Assopoa, pretendendo il pa- gamento di cento lire per ogni quintale trasportato. Alla richiesta si accompagnavano lettere minatorie e atti intimidatori nei confronti di camionisti e titolari delle industrie di

trasformazione. Dopo una serie di attentati e richieste di pizzo, si giunse ad un accordo che costrinse i produttori ⎼ in gran parte agricoltori diretti ⎼ a pattuire con gli industriali del settore una sottostima del prodotto di circa il 20%.

Nell’agosto del 1993 produttori, commercianti ed industriali del pomodoro si incon- trarono presso la Prefettura di Foggia. All’incontro era presente anche l’industriale Anto- nino Russo, soprannominato «il re del pomodoro», il quale propose «di ridurre il peso effettivo della merce trasportata da ogni camion, da 264 a 220 quintali, con una so- pravvalutazione rilevante della tara e del calo fisiologico»18. Dopo un iniziale disaccordo,

i produttori accettarono la proposta di Russo. Una volta raggiunto l’accordo, non vi fu più alcuna azione intimidatoria o violenta riconducibile al commercio del pomodoro.

2.3.3. La mafia del Gargano

A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta nel nord-est della Puglia si è svi- luppato un microcosmo criminale denominato «mafia garganica», i cui obiettivi primari sono l’usurpazione militare e il controllo della terra19. Questa realtà delinquenziale,

caratterizzata da un’inedita violenza, si è radicata originariamente nell’area rurale di Monte Sant’Angelo, una zona montuosa in cui l’attività più diffusa è l’allevamento. Qui si sono registrati omicidi legati a fenomeni di abigeato, di cui si sono rese responsabili alcune famiglie che, spesso in contrasto tra loro per l’imposizione di vassallaggi sulle terre, hanno dato vita a scontri violenti e sanguinosi. Due di queste famiglie erano i Li Bergolis e i Primosa, che, dopo aver agito congiutamente, si contrapposero in una lunga faida. Il conflitto nacque alla fine degli anni Settanta «per una volontà di potenza disatte- sa, per una simbiosi criminale che rendeva potenti gli uni (i Li Bergolis) ed emarginava gli altri (i Primosa)»20 e si protrasse per 20 anni. Si trattò di una guerra molto violenta,

basata sulla ricerca ossessiva della vendetta. Le opposte fazioni in campo erano i clan Li Bergolis e Lombardi da una parte e il gruppo Alfieri-Primosa dall’altra. Nel 1980 presero avvio i sanguinosi scontri tra le famiglie garganiche: il 13 settembre di quell’anno, infatti,

18 N. Palmieri, Criminali di Puglia, cit., p. 94.

19 Una puntuale ricostruzione delle vicende della mafia garganica è contenuta in D. Seccia, La mafia

innominabile, La Meridiana, Molfetta 2012.

Francesco Li Bergolis e Raffaele Primosa, capi delle omonime famiglie, si affrontarono armi alla mano nelle campagne di Monte Sant’Angelo.

Tra il 1980 e il 1992 a Monte Sant’Angelo si verificarono ben 27 fatti di sangue, tra omicidi e tentati omicidi. In particolare, il 15 agosto 1992 Michele Primosa (figlio di An- tonia Alfieri e Raffaele Primosa) fu gravemente ferito da due sconosciuti a bordo di una moto di grossa cilindrata, con il volto coperto dal casco e armati di una mitraglietta calibro 9. Lo stesso giorno in cui avvenne l’episodio la madre del ragazzo, nell’ospedale di San Giovanni Rotondo decise di collaborare con la giustizia. La donna parlò con gli inquirenti raccontando le vicende che avevano scandito la guerra tra le due famiglie e indicò i Li Bergolis come responsabili dell’omicidio dei suoi fratelli, Pietro e Giuseppe. Dopo l’omicidio del figlio Nicolino Primosa, avvenuto il 16 settembre 1992, che se- guiva il ferimento dell’altro figlio Michele, Antonia Alfieri rese ai carabinieri di Desio e di Nova Milanese (dove il ragazzo fu raggiunto dai suoi killer) e poi ai pubblici ministeri di Monza e di Foggia una serie di dichiarazioni in cui narrava quanto sapeva, «fornendo un rilevantissimo contributo alla ricostruzione di taluni fatti di sangue e, più in generale, dell’intera faida e delle organizzazioni criminose ad essa sottese»21. Le dichiarazioni

della donna permisero agli inquirenti di ricostruire l’omicidio di Nicolino.

Al termine delle indagini, vennero rinviati a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise di Monza, per concorso in omicidio, Francesco Li Bergolis, Libero Frattaruolo, Matteo Lom- bardi, Ludovico Pacilli e Antonio Scarabino: i primi tre come mandanti e gli altri due come esecutori materiali. Il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il 3 dicembre 1992 il Tribunale per i Minorenni di Bari emise una sentenza di con- danna nei confronti del minore Michele Alfieri, che nove mesi prima aveva ucciso Matteo Li Bergolis, figlio del boss Francesco, per vendicare la morte del padre Giuseppe.

Nel frattempo, la guerra continuava. Dal 16 ottobre 1992 al 20 ottobre 1994 si regi- strarono altri 16 fatti di sangue e due casi di «lupara bianca». Il primo caso, avvenuto il 9 ottobre 1994 a Monte Sant’Angelo, fu la scomparsa di Giovanni Ricucci, cognato del de- funto Matteo Li Bergolis e di Antonio e Mario Scarabino. Pochi giorni dopo, il 14 ottobre, si verificò il secondo caso: Giuseppe Tomaiuolo fu rapito nella propria abitazione da al- cune persone travestite e non più trovato.

Un anno prima di questi fatti la moglie di Matteo Basta, assassinato il 23 settembre 1993, aveva raccontato agli inquirenti la dinamica del delitto e aveva espresso il timore della vittima di essere bersaglio delle stesse persone che avevano ucciso i suoi fratelli Li- bero e Pasquale. Anche la figlia della vittima, Grazia, aveva parlato di attentati subiti dal- la sua famiglia e in particolare dell’uccisione dei due fratelli del padre, precisando che era rimasto in vita solo lo zio Domenico, allontanatosi da Monte Sant’Angelo per sfuggire alla stessa sorte dei familiari.

Il 16 giugno 1995 si verificò a Monte Sant’Angelo uno più significativi fatti di sangue della faida del Gargano: alle 3 del mattino il boss Pasquale Li Bergolis e suo figlio Ar- mando vennero colpiti da numerosi colpi di pistola calibro 7,65 mentre percorrevano il centro della cittadina a bordo di un’utilitaria insieme a Matteo Ciuffreda. Pasquale Li Bergolis e Matteo Ciuffreda caddero sotto i colpi dei sicari, mentre Armando Li Bergolis fu ferito all’addome. La reazione dei Li Bergolis non si fece attendere: dieci giorni dopo, venne assassinato a Monte Sant’Angelo Carmine Primosa, nipote del boss Raffaele. Negli anni successivi si verificheranno con regolarità altri fatti di sangue cruenti e fe- roci. Nel 1998, dopo un nuovo agguato ai danni di Armando Li Bergolis, ferito al braccio sinistro mentre percorreva in auto la strada tra Manfredonia e Monte Sant’Angelo, si scatenò una reazione che nel giro di due settimane e mezza portò all’uccisione di Biagio Silvestri e di Antonio Biancofiore, ritenuti responsabili dell’attentato. Così si concluse la prima mattanza della guerra di mafia garganica.

Tutti gli eventi delittuosi che seguirono si inquadrarono nella seconda mattanza del conflitto. Questi avvenimenti formarono parte integrante dell’inchiesta «Iscaro-Saburo» (23 giugno 2004), che accertò ufficialmente l’esistenza della mafia garganica.

Il 12 aprile 1999 a San Nicandro Garganico Giuseppe Quitadamo, Francesco Prencipe e Daniele De Nittis vennero uccisi mentre ritornavano da Bari in auto. Le prime indagini su questo episodio delittuoso si indirizzarono nel senso dell’antica faida garganica per- ché due dei tre soggetti uccisi (Quitadamo e Prencipe) erano membri del clan Primosa- Alfieri contrapposto ai Li Bergolis. Durante l’attività investigativa si scoprì che il triplice omicidio rappresentava un segnale di forza inviato dai «montanari» (i Li Bergolis) al gruppo Primosa-Alfieri e che De Nittis era stato ucciso solo perché presente al fatto. Il 30 marzo 2001 a San Nicandro Garganico, piccolo comune situato nel promontorio del Gargano, venne ucciso a colpi di fucile calibro 12 Michele Tarantino, un ragazzo di 23

anni. Per questo omicidio sarà poi condannato Gennaro Giovanditto, fedele alleato dei Li Bergolis, che avrebbe agito per vendicare un‘offesa ricevuta proprio dal Tarantino. In una conversazione intercettata dalle forze dell’ordine, lo stesso Giovanditto aveva detto che dietro l’assassinio di Michele Tarantino c’erano Franco Li Bergolis (figlio di Pa- squale e fratello di Armando) e Michele Santoro, killer spietato del gruppo criminale, indagato per oltre quindici omicidi di mafia avvenuti sul Gargano.

Il 10 novembre 2001 Franco Li Bergolis fu intercettato mentre conversava con il suo braccio destro Michele Santoro dei nuovi crimini che dovevano essere programmati. Il