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Tra passato e presente

La Scu: una mafia regionale mancata

3.3. Tra passato e presente

Oggi non vi è più traccia del disegno federativo di Giuseppe Rogoli, né degli uomini che hanno costruito e difeso la Sacra Corona Unita nel sangue e nella violenza. No- nostante ciò, quell’esperienza mafiosa viene richiamata costantemente nell’attualità. In primo luogo, dagli stessi criminali oggi in circolazione, che si definiscono «sacristi» al fine di esercitare una maggiore carica di intimidazione nel compimento delle loro atti- vità illecite di tipo predatorio. Del resto, la dimensione simbolica del vincolo associativo ha sempre influito in maniera decisiva sul rapporto tra malavitosi e vittime, ed è la que- sta la ragione per cui molti delinquenti comuni sono divenuti parte integrante della Scu nel corso degli anni Ottanta. A tal proposito, sono molto esplicite le parole di un com- merciante di Squinzano (paese a nord di Lecce) taglieggiato da affiliati al clan De Tom- masi, che «sottolineava come la capacità di intimidazione di piccoli delinquenti locali fosse cresciuta enormemente con la loro affiliazione alla Sacra Corona Unita: “io prima a quelli neanche cento lire se me le chiedevano per strada gli avrei dato”»16. Circa tre de-

cenni dopo la nascita della Scu, permane il peso determinante che assume, nel rapporto tra criminale e vittima, il far presente all’interlocutore i propri legami con il passato sa- crista. Dunque, se da un lato è vero che la storia della Sacra Corona Unita può dirsi ormai conclusa, dall’altro oggi in Salento essa è diventata un marchio, vale a dire una sorta di simbolo mitico che serve a «dare forza a una realtà altrimenti incapace di manifestar- si»17. I gruppi criminali operanti sul territorio utilizzano e sfruttano questo simbolo per

accrescere la propria credibilità ed esercitare un forte potere di intimidazione nei con- fronti della popolazione. In tal senso, nel mondo criminale salentino il marchio sacrista rappresenta un ideale collante tra passato e presente. L’unico vero interesse che acco- muna i vecchi e i nuovi clan è la conservazione e la difesa di questo marchio.

Da un altro punto di vista, si potrebbe dire che, pur non avendo la capacità militare della Scu né la sua propensione al radicamento monopolistico, le nuove famiglie mafiose

16 M. Longo, Sacra Corona Unita, cit., p. 195n. 17 D. Gambetta, La mafia siciliana, cit., p. 181.

continuano ad influenzare e a condizionare la società applicando una metodologia ispi- rata alla tradizione sacrista. Infatti, in alcune zone del Salento e tra alcuni strati della po- polazione locale si nota tuttora un clima tipicamente mafioso di omertà e di assoggetta- mento. Spesso non vi è più la famiglia criminale, smembrata da arresti e condanne, ma circolano i singoli malavitosi, conosciuti e temuti da tutti.

Soprattutto i gruppi criminali di recente formazione cercano di richiamarsi costan- temente all’esperienza sacrista. Un esempio significativo di questa tendenza si riscontra a sud-est di Lecce, e precisamente nell’area costiera comprendente Lizzanello, Vernole, Calimera e Melendugno, dove ha operato il clan «Vernel». Questo gruppo criminale ⎼ il cui nome deriva dal soprannome del boss di Vernole Andrea Leo, a suo tempo affiliato a Filippo Cerfeda ⎼ è stato smantellato con l’operazione denominata «Augusta» (2011). Nel corso di tale inchiesta, gli investigatori hanno ottenuto l’arresto di decine di affiliati, molti dei quali avevano già alle spalle una condanna per aver fatto parte della Sacra Corona Unita negli ultimi anni Novanta del Novecento.

Il clan Vernel puntava ad una conquista del territorio che, in base ai moduli tipici del controllo mafioso, doveva tradursi in una estesa attività estorsiva18. L’elemento di novità

introdotto da questo sodalizio è però un altro: la ricerca di un’investitura che doveva essere riconosciuta da storici boss sacristi, ai quali i nuovi criminali richiedevano una vera e propria autorizzazione ad agire. Si tratta di un gesto puramente formale di defe- renza, che ha permesso ai gruppi mafiosi emergenti di utilizzare strumentalmente il marchio della Scu nei confronti di vittime o di altri soggetti criminali concorrenti.

A questo punto, vale la pena riflettere sullo strano destino a cui la Sacra Corona Unita è andata incontro nelle discussioni pubbliche svoltesi durante la sua esistenza. Fino alle soglie degli anni Novanta, istituzioni e opinione pubblica consideravano il fenomeno cri- minale pugliese come una insolita «malapianta» cresciuta e prosperata in un territorio sostanzialmente sano. Questa concezione si sviluppava in un periodo durante il quale la Scu non era ancora riuscita a imporre sul piano culturale e sociale quel clima di intimi- dazione e di soggezione che si riscontrava in altre regioni meridionali storicamente ca- ratterizzate dalla presenza mafiosa. Di conseguenza, i giornali parlavano genericamente di malavita o di camorra; l’opinione pubblica assisteva con indifferenza alle guerre tra bande criminali, mentre la magistratura pugliese sottovalutava il fenomeno; ne è riprova

la più volte citata sentenza emessa dal Tribunale di Bari il 24 ottobre 1986, la quale ha respinto l’idea che nel Barese si stesse sviluppando una vera e propria organizzazione mafiosa, nonostante il giudice istruttore avesse indicato numerose fonti di prova, tra le quali vi erano soprattutto documenti con formule, giuramenti e rituali d’affiliazione. La particolare conformazione assunta dalle diverse famiglie affiliate alla Sacra Corona Unita ha indotto numerosi interpreti a sostenere che ci si trovasse in presenza di una va- riante di quelle forme di gangsterismo urbano19 presenti nelle regioni del Centro-Nord

d’Italia. In effetti, a prima vista, i gruppi criminali pugliesi sembravano avere caratte- ristiche molto simili a quelle delle famiglie gangsteristiche. Innanzitutto, entrambi i rag- gruppamenti erano composti da un numero consistente di individui di età compresa fra i 25 e i 35 anni, con uno scarso livello di istruzione, selezionati secondo criteri poco re- strittivi, instabili dal punto di vista emotivo e comportamentale, coinvolti principalmen- te in attività illecite di tipo predatorio quali furti, rapine, estorsioni e spaccio di droga. Inoltre, sia i gangster che i giovani boss sacristi sembravano utilizzare in modo spre- giudicato una delle risorse fondamentali a loro disposizione: la violenza. Allo scopo di raggiungere il massimo profitto immediato in ogni attività illecita, entrambi ricorrevano sempre più frequentemente all’omicidio come strumento di risoluzione dei conflitti. L’ipotesi che la Sacra Corona Unita rappresentasse una forma di gangsterismo urbano ricevette il plauso dell’opinione pubblica e divenne uno degli aspetti caratteristici di quella grave miopia che portò i magistrati baresi a negare la realtà di un fenomeno che da lì pochi anni, si sarebbe diffuso a macchia d’olio in buona parte della Puglia.

Mentre la consorteria pugliese cresceva e si ramificava soprattutto nel Salento, le autorità istituzionali notarono che essa possedeva elementi nuovi rispetto alle bande di giovani gangster. Uno di questi elementi era il richiamo a una denominazione unitaria. La maggior parte dei clan attivi nella penisola salentina risultava affiliata alla Scu. I membri di queste famiglie dovevano agire nel rispetto dei principi contenuti nello sta- tuto fondativo del sodalizio.

Altri elementi innovativi erano il principio gerarchico che regolava l’articolata strut- tura interna dell’organizzazione e la presenza di un’embrionale struttura centrale di coordinamento, che aveva funzioni direttive ed era costituita dagli affiliati più vicini al «capo» Giuseppe Rogoli.

Alcuni sacristi di alto rango intrattenevano, poi, assidui rapporti con amministratori pubblici di numerose località salentine. Le già citate vicende relative allo scioglimento dei consigli comunali di Gallipoli e Surbo rivelarono come il condizionamento fosse arri- vato ad un livello tale da incidere pesantemente sulle scelte politico-amministrative. L’offensiva giudiziaria ⎼ che colpì molti clan sacristi durante gli anni Ottanta ⎼ aveva innescato un processo di ristrutturazione delle principali famiglie. Le funzioni di coor- dinamento svolte dall’organismo centrale di direzione furono ridotte a vantaggio di una maggiore autonomia dei singoli gruppi criminali. I criteri di selezione dei nuovi affiliati divennero più rigorosi e i componenti delle famiglie diminuirono sensibilmente. La co- stituzione di unità più piccole e coese all’interno di ciascun gruppo criminale tendeva a differenziare coloro che collaboravano occasionalmente nello svolgimento di alcune atti- vità illecite da coloro che erano stati affiliati formalmente.

Il processo di ristrutturazione interna appariva come un segnale della consapevolezza di dover migliorare il modello iniziale di riferimento per garantire la sopravvivenza del sodalizio sacrista.

Nei primi anni Novanta le istituzioni cominciarono a prendere atto del grado di peri- colosità raggiunto dalla Sacra Corona Unita in quanto organizzazione criminale. I princi- pali punti di svolta furono, per un verso, la sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 23 maggio 1991, che, a conclusione del primo maxi-processo, riconosceva finalmente la consistenza mafiosa della Scu; e, per altro verso, la considerazione della Puglia come area di insediamento della «quarta mafia» nella relazione presentata dalla Commissione antimafia nel 1994. Una formula che era oggettivamente appropriata in quel preciso momento storico, ma che appare ormai semplicistica e perciò inadatta a definire un fe- nomeno criminale complesso e stratificato come quello pugliese. Ciò nonostante, ancora oggi essa continua ad essere comunemente utilizzata a livello giornalistico, giudiziario e divulgativo come una specie di marchio indelebile, destinato a perpetuarsi in eterno. Si potrebbe quindi affermare che la Sacra Corona Unita, ampiamente sottovalutata nella sua fase iniziale, è stata largamente sopravvalutata dalle istituzioni, dai media e dall’opinione pubblica in generale dopo il suo irreversibile declino. La costante evoca- zione odierna della Scu in quanto mafia autoctona e attiva, insieme all’utilizzo continuo e strumentale delle sue vicende storiche da parte dei delinquenti nelle loro attività delit- tuose, ci spinge ad individuare una stagione post-sacrista che, pur collocandosi al di fuori

della storia della Sacra Corona Unita, è ancora molto legata ad essa. È proprio questa l’ambiguità di fondo che caratterizza il mondo criminale salentino dei giorni nostri20.