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Il «vecchio»: un leader poco prudente

La Scu: una mafia regionale mancata

3.2. Il «vecchio»: un leader poco prudente

Come abbiamo già detto, il mesagnese Giuseppe (Pino) Rogoli è il principale fondatore della Sacra Corona Unita. Figlio di un pastore, rientrato in Puglia dopo alcuni anni vissuti in Germania, si sposò con Domenica (Mimina) Biondi, di 6 anni più piccola di lui.

Nel 1981 Rogoli rapinò una banca e ammazzò un tabaccaio a Giovinazzo, nel Barese. Per questi reati, egli venne arrestato e condannato all’ergastolo dal Tribunale di Bari. Finì nel carcere di Porto Azzurro, nell’isola d’Elba, dove ebbe come compagno di cella il boss calabrese Umberto Bellocco, che la notte del 25 dicembre dello stesso anno lo «bat- tezzò» col grado di santista e gli trasmise i codici di affiliazione della ‘ndrangheta. Circa un anno e mezzo dopo, Pino Rogoli fondò una nuova organizzazione criminale e ne ideò lo statuto per contrastare lo strapotere dei camorristi cutoliani all’interno delle carceri pugliesi. Durante un’udienza giudiziaria tenutasi il 3 settembre 1986, Rogoli dichiarava innanzi al Tribunale di Bari: «La S.C.U. fu fondata da me e da altri 5 o 6 detenuti dei quali non intendo fare i nomi, al solo scopo di impedire che qualche detenuto fosse avvicinato dai napoletani (in numero ragguardevole nell’83 erano giunti nel carcere di Bari) in quanto ritenevo pericoloso che, in conseguenza degli approcci di questi ultimi, si potesse diffondere anche presso di noi il fenomeno di intimidazione che volevano instaurare»3.

Grazie al suo carisma e alla sua intelligenza, il «vecchio» riuscì inizialmente ad im- porsi come capo indiscusso dell’associazione e giudice di ultima istanza sull’operato dei suoi affiliati. La sua autorità e il suo potere assoluto erano allora riconosciuti dagli altri detenuti pugliesi che lo avevano aiutato a realizzare il suo progetto criminale. La prove- nienza di questi ultimi da diverse zone della Puglia era un indicatore delle ambizioni della Scu rogoliana, strutturatasi come una federazione tra clan che mirava a controllare l’intera regione.

L’attività criminale del Rogoli e dei suoi seguaci si interruppe appena undici mesi dopo la nascita della Sacra Corona Unita con l’arresto di molti esponenti di rilievo del- l’organizzazione, che parteciperanno come imputati al maxi-processo indetto nel 1986 dal Tribunale di Bari nei confronti degli affiliati alla «Nuova Camorra Pugliese». Il rico- noscimento della Scu come associazione a delinquere semplice da parte dei giudici ba- resi al termine del processo comportò l’assoluzione di molti imputati, che furono lasciati liberi di agire sul territorio pugliese. In virtù dei suoi precedenti penali, Rogoli rimase comunque in carcere, da dove continuò a dirigere l’associazione criminale da lui fondata tramite la moglie Domenica Biondi, che diramava i suoi ordini agli affiliati e che, per questo motivo, sarà condannata per associazione mafiosa e sottoposta a libertà vigilata. Nonostante il suo esito, il processo condotto dai giudici del Tribunale di Bari finì per essere una causa indiretta del fallimento del progetto di un’organizzazione mafiosa re- gionale poiché favorì una spaccatura tra i gruppi criminali che si riconoscevano nel so- dalizio sacrista. Fu lo stesso Rogoli a porre le basi di questo processo involutivo ammet- tendo l’esistenza della Sacra Corona Unita e riconoscendo il proprio ruolo di rappresen- tante carismastico nel corso di un interrogatorio a cui venne sottoposto dai carabinieri di Bari alla metà degli anni Ottanta. Proprio il «capo», dunque, con il suo comportamento violò uno dei principi fondamentali di qualsiasi sodalizio criminale: la segretezza. Le sue dichiarazioni avventate non vennero viste di buon occhio soprattutto da foggiani e ba- resi, che dopo il processo avrebbero deciso di staccarsi dalla Scu e di costituire famiglie mafiose autonome.

Un ulteriore fattore di squilibrio all’interno dell’organizzazione erano i contrasti che stavano emergendo tra Rogoli e i suoi più stretti collaboratori, tra cui il suo vecchio amico Antonio Antonica, responsabile unico delle attività illecite in provincia di Brindisi, che avrebbe pagato con la vita la sua opposizione nei confronti del «capo»4.

Dopo aver contribuito al fallimento del suo stesso progetto di una mafia regionale, Pino Rogoli rifondò la Scu, restringendo il suo territorio di competenza al solo Salento, dove consolidò il suo potere attraverso i suoi luogotenenti Salvatore Buccarella, Gio- vanni Donatiello, Antonio Dodaro e Vincenzo Stranieri: come abbiamo detto in prece- denza, i primi due gestivano le attività illecite praticate nella provincia di Brindisi, men- tre gli ultimi due controllavano rispettivamente il Leccese e parte del Tarantino.

Dopo la morte di Dodaro per mano dei boss emergenti in provincia di Lecce, l’autorità del «vecchio» e il suo ruolo di guida imparziale dell’organizzazione cominciarono ad essere messi in discussione. Lo scoppio della guerra tra i clan De Tommasi e Tornese per il controllo del Salento leccese fu il primo segnale della perdita di influenza da parte di Rogoli nei confronti dei boss sacristi attivi in quella zona. Costoro ormai agivano auto- nomamente senza consultarsi preventivamente con il «capo» sulle strategie da adottare. Consapevole della sua estraneità ai momenti autenticamente decisionali ed operativi della Scu, Rogoli scelse di schierarsi dalla parte dei Tornese, perdendo così il suo ruolo di

leader dirigista e accentratore e provocando l’ira di Gianni De Tommasi, che reagì all’af-

fronto subito dal «vecchio» fondando nel carcere di Lecce la Rosa dei Venti, «benedetta» da due capibastone calabresi, Francesco (Ciccio) Gattini e Domenico (Mico) Lombardo5.

Alla fine del 1989 la leadership di Rogoli cominciò a tramontare anche nel Salento tarantino sotto i colpi della famiglia Modeo, che contrastava in quella zona il clan sa- crista guidato da Stranieri e dal suo braccio destro Massimo Cinieri.

Nel frattempo, i rogoliani Buccarella e Donatiello, accordatisi con le famiglie di Ciro Bruno e Giuseppe Gagliardi, mantenevano un saldo controllo dei traffici criminali in pro- vincia di Brindisi rimanendo in stretto contatto con il «vecchio» attraverso la moglie Mimina Biondi. Il ruolo svolto da quest’ultima all’interno dell’organizzazione venne alla luce nel corso del primo maxi-processo alla Scu leccese, svoltosi tra il 1990 e il 19916. Al

termine di questo processo, i giudici della Corte d’Assise di Lecce condannarono in primo grado Rogoli per associazione a delinquere di stampo mafioso, disposero l’appli- cazione nei suoi confronti della misura di sicurezza dell’assegnazione ad una colonia agricola per la durata di due anni e lo dichiararono interdetto dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante la pena7.

Durante il successivo processo celebrato dalla Corte di Assise di Appello di Lecce, i magistrati utilizzarono come fonte di prova una copiosa documentazione, rappresentata da appunti, agende, lettere, quaderni e vari scritti prodotti dagli imputati o ad essi in-

5 Cfr. C. Motta, Sacra corona unita e rapporti con la criminalità dei Paesi dell’Est, in A. Dino, L. Pepino (a cura di), Sistemi criminali e metodo mafioso, cit., p. 59.

6 «La Biondi è la moglie di Rogoli e la sua posizione processuale è collegata a tale circostanza. Risulta infatti con assoluta certezza che la Biondi ha svolto con continuità la funzione di elemento di collegamento tra il marito e gli altri associati, consentendo a questo di dirigere, pur dall’interno del carcere dove si tro- vava ristretto, l’organizzazione criminale per cui è processo» (Corte d’Assise di Lecce, Sentenza contro De

Tommasi Giovanni più 133, cit., pp. 644-645).

dirizzati. Tra questi documenti figurava una lettera scritta da Pino Rogoli al suo luogo- tenente leccese Antonio Dodaro. Nella missiva, sequestrata in casa di Dodaro il 15 aprile 1987, il «vecchio» si sofferma a lungo su una serie di questioni, rivendicando a sé ogni potere decisionale e censurando aspramente comportamenti non in linea con il suo programma, «dispensando così cariche e sanzioni, con un linguaggio di rara cogenza terminologica, ed in perfetta aderenza con quel ruolo di preminenza che egli continua- mente si attribuisce: “sono io che ne rispondo dalle mie parti”….. io….. in diritto di tutte le doti”»8. In virtù di questo suo ruolo Rogoli impartisce ordini come un vero e proprio

comandante militare, precisando poi come la sua autorità gli provenga dal fatto di essere stato investito del massimo grado della gerarchia mafiosa. Il contenuto della lettera conferma quindi in modo chiaro ed inequivocabile che dalla sua cella nel carcere di Bari il Rogoli non solo ha gestito la Sacra Corona Unita, «ma ha ribadito, senza mezzi termini, il suo ruolo di capo, dando ordini (“prego, anzi dò disposizione che…”), decidendo sulle questioni più delicate quali le nomine delle alte gerarchie e la composizione di eventuali contrasti interni […], e mantenendosi in costante contatto con i suoi più qualificati “vassalli” attraverso l’opera preziosa della sua fidatissima ed abile “Mimina”»9.

Tra il 1990 e il 1994 la Scu brindisina venne processata prima dalla Corte d’Appello di Lecce e poi dal Tribunale di Brindisi. Grazie soprattutto alle rivelazioni di alcuni pentiti, tra cui Cosimo Capodieci, ex componente del primo gruppo di fuoco istituito nell’orga- nizzazione10 e capo-zona di Latiano, entrambi i processi si conclusero con il riconosci-

mento della mafiosità del sodalizio guidato da Pino Rogoli.

Sulla base di quanto Capodieci scriveva nel suo Memoriale11, i giudici della Seconda

Sezione Penale del Tribunale di Brindisi sottolinearono in particolare la posizione ege- monica di Rogoli nella gestione degli affari della Sacra Corona Unita e la sua considera- zione da parte degli affiliati come «il depositario di verità inoppugnabili e, di fatto, l’in- discusso punto di riferimento, anche sotto il profilo carismatico, della S.C.U. […]»12. Da

ciò, si deduce «una identificazione del “capo” ⎼ tipica delle organizzazioni mafiose ⎼ non soltanto con colui che impartisce direttive inerenti la esplicazione di attività criminali, ma anche con una specie di “padre” saggio e rispettato, che ha una parola per tutti i

8 Corte di Assise di Appello di Lecce, Sentenza contro De Tommasi Giovanni più 104, cit., p. 208. 9 Ivi, p. 453.

10 Oltre a Capodieci, avrebbero fatto parte del gruppo di fuoco Antonio Musio e Filippo Locorotondo. 11 C. Capodieci, Memoriale, dattiloscritto inedito.

“figli” […] ed al quale costoro ricorrono per dirimere problemi e questioni anche di natura più strettamente personale […]»13. Con questi termini, la sentenza conclusiva del

processo indetto dal Tribunale di Brindisi inflisse un duro colpo al prestigio criminale di Rogoli e diede avvio al declino del sodalizio sacrista.

Nel 1996 a Brindisi si tenne un nuovo processo, nel corso del quale il «vecchio», ri- spondendo alle domande di un giornalista, dichiarò: «La Sacra Corona Unita? È morta. Anzi, non è mai esistita»14. Poi, lanciò gravi accuse contro i pentiti, che, a suo dire, gira-

vano armati di mitraglietta nel capoluogo adriatico e rapinavano persino i contrabban- dieri. Dalle sue dichiarazioni traspariva una sorta di delusione per lo sfaldamento a cui stava andando incontro l’organizzazione, ormai priva di una guida credibile e vittima degli interessi contrastanti dei capi-clan salentini.

Probabilmente, Pino Rogoli perse il residuo controllo che aveva sulla Sacra Corona Unita già nel 1997, quando la sua autorità cominciò ad essere messa in discussione an- che nel Brindisino da molti boss a causa di una ineguale distribuzione dei profitti delle attività illecite, la quale fu all’origine di una crescente conflittualità tra i clan locali. Para- dossalmente, furono proprio alcuni concittadini del «vecchio» (i mesagnesi D’Amico, Pasimeni e Vitale) a porre fine definitivamente al suo disegno originario di una fede- razione regionale costituendo un nuovo gruppo criminale che assunse il controllo della Scu brindisina dopo aver sconfitto i potenti colonnelli rogoliani15.

In conclusione, si può sostenere che la dimensione personalistica del potere di Rogoli è stata il principale ostacolo alla realizzazione del suo progetto di egemonia regionale poiché ha limitato oggettivamente le possibilità di azione di ogni singolo clan. Ad essa si aggiungevano l’incapacità di molti affiliati e dello stesso Rogoli di mantenere un rigido segreto sull’esistenza della Sacra Corona Unita e il dilagante fenomeno del pentitismo. Tra le condizioni che hanno impedito a Rogoli e ai suoi luogotenenti di creare una solida rete criminale in ampie zone della Puglia vi è anche il fattore tempo. La Scu, infatti, non ha avuto a disposizione il tempo necessario per impiantare nella cultura criminale pugliese una tradizione capace di mantenere intatto l’assetto dei principali clan anche durante periodi di profondo cambiamento. L’arresto, nel corso degli anni Novanta, di

13 Ibidem.

14 V. Sparviero, «I pentiti a Brindisi girano armati» (intervista a G. Rogoli), in «La Gazzetta del Mezzo- giorno», 13 novembre 1996.

quasi tutti i capi storici delle famiglie mafiose più agguerrite ha finito per trascinare l’intero sodalizio in una situazione di crisi, da cui non sarebbe più uscito.