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Un’identità problematica

La Scu: una mafia regionale mancata

3.4. Un’identità problematica

3.4.1. I personaggi

Posta in essere la sostanziale continuità che si instaura nel modo di agire della cri- minalità organizzata salentina tra passato e presente, cerchiamo ora di capire perché la Sacra Corona Unita ha avuto maggiore successo rispetto alle altre associazioni mafiose pugliesi verificando se, e in che misura, essa possa dirsi mafia; o meglio, possa essere considerata tale in senso proprio.

Come qualsiasi altra organizzazione criminale, anche la Sacra Corona Unita è fatta innanzitutto di uomini, che con le loro azioni ne determinano il destino. Per compren- dere chi sono i boss sacristi, è utile partire dal momento fondativo della consorteria. Questa era modellata sulla base di un progetto definito e aveva un corredo ritualistico- formale che ne faceva una mafia in divenire. Nei suoi primi anni di vita, dunque, la Scu si preparava ad entrare in scena, ma non era ancora riuscita a prendere piede sul territorio pugliese, nonostante annoverasse tra le sue fila personaggi di grosso calibro malavitoso. Scorrendo l’elenco degli imputati del primo processo di Bari, si può avere un’idea dello spessore criminale del sodalizio sacrista: Giosué Rizzi, Giuseppe Iannelli, Cosimo Cappellari, Oronzo Romano, Aldo Vuto, Antonio Dodaro, Giuseppe Rogoli sono tutti per- sonaggi che hanno alle spalle un ampio curriculum criminale.

Il richiamo ai fondatori della Scu è necessario per valutare il profilo e l’operato dei protagonisti della fase centrale della storia dell’organizzazione, quella che, come abbia- mo già detto, è racchiusa tra il 1986 e il 1994 e si svolge prevalentemente nel Salento brindisino e leccese. All’interno di questa fase, però, si deve fare un’ulteriore distinzione tra i sacristi che avevano partecipato alla fondazione della consorteria nel carcere di Bari e quelli che, invece, sono entrati a farne parte in un secondo momento, costituendo e guidando direttamente sul territorio i gruppi mafiosi.

20 Sulle considerazioni finora svolte cfr. M. Massari, La Sacra Corona Unita, cit., pp. 169-172; A. Apollo- nio, Storia della Sacra corona unita, cit., pp. 266-267.

Tra i primi vanno menzionati certamente Pino Rogoli, Tonino Dodaro e Vincenzo Stra- nieri, che si consideravano gli autori di un disegno complesso, ad inclinazione egemo- nica. Seguono poi i boss emergenti, destinati, in un certo senso, a personificare la storia della Scu a livello mediatico. Per tutti, ricordiamo Gianni De Tommasi e Mario Tornese, intorno ai quali si concentreranno i due schieramenti contrapposti che si affronteranno senza esclusione di colpi nella guerra sacrista che dividerà simmetricamente la provin- cia di Lecce in due zone di influenza criminale.

Concentriamoci ora su questi personaggi, cercando nelle loro vicende personali spun- ti per una riflessione generale. De Tommasi (classe 1960) e Tornese (classe 1962) sono due giovanissimi colonnelli della Sacra Corona Unita scarsamente istruiti, spregiudicati e violenti. Pur di ingrandire le loro famiglie, essi assoldano senza filtro selettivo giovani delinquenti locali: ragazzi sbandati ed emotivamente instabili, spesso tossicodipendenti, per i quali sentirsi parte di un gruppo e individuarne un capo significa costituire un legame di sangue.

Le bande criminali di De Tommasi e Tornese si annientarono progressivamente da sole. Armati fino ai denti, i sacristi in guerra si rincorrevano per le strade dei piccoli centri della provincia di Lecce, massacrandosi tra di loro. Inoltre, nonostante fossero quasi tutti ricercati, risiedevano stabilmente nei loro comuni, ostentando in maniera sprezzante il loro prestigio criminale, e quindi anche economico.

Ecco il motivo per cui gli inquirenti riuscirono a stanare i criminali sacristi con una certa facilità, a differenza di quanto accadeva altrove. Osservando gli eventi in prospetti- va storica, si notano banali errori di strategia commessi dai più importanti capi della Scu. Pensiamo ad esempio alla cattura di De Tommasi e dei componenti del suo gruppo di fuoco, che «capi ruessu» aveva fatto riunire e soggiornare con lui in una villetta alla pe- riferia di Gallipoli, presa in affitto dal padre di uno dei suoi gregari, Adriano Franco. Ora, è difficile spiegare perché il gruppo stanziò proprio in questa cittadina, feudo del clan rivale dei fratelli Padovano, alleati dei Tornese, piuttosto che nella vicina Nardò ⎼ con- trollata dal giovane capo-zona Marcello Dell’Anna21 per conto di De Tommasi. Comun-

que, al di là di tale questione, gli agenti di polizia che fecero irruzione in questa villetta il

21 Marcello Dell’Anna (Nardò, 4 luglio 1967), è attualmente recluso nella casa circondariale di Nuoro, dove sconta una condanna all’ergastolo per associazione a delinquere di stampo mafioso. Il 4 luglio 2012, giorno del suo 45° compleanno, si è laureato in giurisprudenza all’Università di Pisa con il massimo dei voti. Un riferimento utile su questa vicenda è fornito da C. Spagnolo, Il boss si laurea in carcere: tesi pre-

22 dicembre 1989 furono colti da grande sorpresa nel trovarvi l’intera banda del boss di Campi Salentina. Questa vicenda ci porta a percepire una grande distanza dalle strategie ponderate e dalle precauzioni che caratterizzarono le latitanze decennali dei boss ca- labresi o siciliani.

Solo nella seconda metà degli anni Novanta si registrarono casi di latitanze relativa- mente lunghe, il cui epicentro era il Montenegro, paese che permetteva tranquilli stan- ziamenti oltre l’Adriatico. Tra queste, ricordiamo la latitanza di Vito Di Emidio, uno dei killer più spietati della Scu, le cui ricerche tennero impegnati poliziotti e carabinieri di Brindisi per circa 7 anni (dal 1994 al 2001).

Tornando a quanto si diceva, non può dunque stupire il fatto che, nel corso del primo maxi-processo alla Scu leccese, tutti i principali imputati fossero già stati catturati e partecipassero al dibattimento chiusi nelle gabbie, inveendo contro giudici e pubblico. Ovviamente, non tutti gli affiliati alla Sacra Corona Unita hanno alle spalle la stessa carriera criminale di De Tommasi o Tornese. Abbiamo già avuto modo di esaminare le figure di Tonino Screti, storico «cassiere» della Sacra Corona Unita, e di Erminio Cava- liere, «contabile» del contrabbando; così come la figura di Giacomo Profilo, che veicola i guadagni del clan De Tommasi in qualche attività commerciale. Nella Scu mancano però uomini che siano in grado di agevolare la penetrazione dei capitali illeciti nell’economia o il radicamento della consorteria nelle amministrazioni pubbliche. Questo spiega l’in- consistenza di fondo del sodalizio sacrista sul piano imprenditoriale.

La diversità dei profili degli esponenti della «prima generazione» ci permette di com- prendere meglio alcuni aspetti e passaggi che hanno caratterizzato la storia della Sacra Corona Unita, come il pentitismo dilagante, l’abuso di sostanze stupefacenti all’interno dell’organizzazione, gli omicidi eseguiti con metodi estremi e brutali e soprattutto la mancanza, nei singoli boss, di un agire criminoso razionalmente funzionale al persegui- mento di un progetto di conquista e governo di un dato territorio.

Almeno sotto questo aspetto, molti clan salentini che operano a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta sembrano più simili a bande criminali (gangs), che a veri e propri agglomerati mafiosi. E non solo per la giovane età di affiliati e vertici, ma soprat- tutto per un incontrollato uso della violenza, sia nell’affermazione del predominio del territorio, sia nel compimento di attività illecite ad alto rischio (come rapine ed estorsio- ni), che generavano profitti minimali ma immediati, destinati ad «esigenze» quotidiane.

Ovviamente, non si può dimenticare che nella seconda metà degli anni Novanta vi saranno soggetti criminali più propensi ad instaurare un progetto mafioso di tipo im- prenditoriale che a dichiararsi guerra l’un l’altro; anche perché dal mare giungeranno scafi carichi di stecche da vendere a contrabbando, e di guadagni per tutti.

3.4.2. Cultura e ritualità

I criminali sacristi danno generalmente molta importanza alla ritualità. Si tratta cer- tamente di un retaggio delle origini della Scu, che discende formalmente dalla n’dran- gheta, nella misura in cui il suo statuto è stato approvato dai boss calabresi.

Peraltro, come già sappiamo, Pino Rogoli aveva realizzato il suo progetto malavitoso da affiliato alla cosca ‘ndranghetista di Umberto Bellocco. Inoltre, in una lettera del 1986 indirizzata ad Antonio Dodaro, egli stesso affermava che gli innalzamenti ai gradi più alti della gerarchia sacrista potevano essere compiuti soltanto dai compari calabresi; e lo invitava a recarsi in Calabria per compiere i processi d’innalzamento di grado.

Da un punto di vista rituale, la Sacra Corona Unita era evidentemente in una posizione subalterna rispetto alla ‘ndrangheta. Come scrive la sociologa Monica Massari, l’orga- nizzazione criminale salentina «si era appropriata di una tradizione che le aveva per- messo di acquisire non solo una struttura organizzativa particolarmente accurata, ma anche una cultura, un patrimonio ideale di riferimento in grado di legittimare, agli occhi degli affiliati, l’identità peculiare che il sodalizio andava assumendo»22. Almeno fino alla

fine degli anni Ottanta, però, la Sacra Corona Unita ha subito influssi anche dalla camorra e dalla mafia siciliana; non si spiegherebbero, altrimenti, molti aspetti eterodossi e folk- loristici dei riti d’affiliazione, che si presentano come miscugli di differenti formule. Rispetto alle altre organizzazioni mafiose, la Scu presenta un’anomalia consistente nel fatto che gli affiliati si lasciano dietro una cospicua documentazione: appunti, codici, for- mule, addirittura gradi e nomi dei sodali, sono scritti e conservati, per poi essere se- questrati alla prima perquisizione. Persino il capo, Pino Rogoli, conserva un’agenda de- dicata alla Sacra Corona Unita. Inoltre, si parla spesso dell’organizzazione: Rogoli stesso e molti altri boss ne ribadiscono più volte l’esistenza e ne certificano la scomparsa.

Così, negli anni Ottanta, mentre gli inquirenti campani, calabresi e siciliani fanno fa- tica a trovare prove sull’esistenza di determinati gruppi malavitosi, nelle celle carcerarie e nelle abitazioni dei sacristi, invece, si rinvengono fin da subito con una relativa facilità formule e giuramenti, che la magistratura utilizza per creare uno schema d’imputazione e decapitare l’organizzazione dopo appena qualche anno di attività sul territorio, con il primo maxi-processo di Lecce.

La scarsa segretezza della Sacra Corona Unita è indice della sua modesta caratterizza- zione. All’origine di ciò si potrebbe collocare il tentativo da parte della consorteria sa- lentina di strutturarsi in un contesto culturale che le era ostile. A tal proposito, lo stesso Rogoli sostiene: «Siamo vittime di un sistema. Se fossimo veramente mafiosi la situa- zione sarebbe decisamente diversa […] Non dico che non abbiamo commesso reati, ma qui da noi non esiste la cultura mafiosa dei siciliani o dei calabresi, né abbiamo i loro mezzi»23. Proprio la carenza di cultura criminale in Puglia e specialmente nel Salento è

stata un fattore decisivo nell’involuzione del sodalizio e nella sua vulnerabilità ai fre- quenti attacchi della magistratura. I sacristi ne hanno dato riprova non soltanto facendo rinvenire facilmente numerosi scritti, ma anche nella «selezione» dei loro uomini: sban- dati, tossicodipendenti, delinquenti comuni in cerca di un sostentamento economico, individui emotivamente fragili e instabili che potevano trasformarsi da un momento all’altro in killer spietati. I colonnelli della Scu hanno creato così i presupposti affinché si verificassero defezioni, spaccature, tradimenti e, soprattutto, pentimenti.

Sulla base di queste considerazioni, confermate dai riscontri giudiziari, si può so- stenere che la Scu non è stata una mafia «completa» e «duratura». Non per caso, infatti, già dopo il 2000 si registra una tendenza all’abbandono dei meccanismi di affiliazione in favore di una «effettiva appartenenza» al singolo clan, o di una «partecipazione» ad al- cune sue attività.

3.4.3. Debolezza strutturale

I principali boss sacristi hanno determinato l’insorgenza di un’accesa conflittualità all’interno della Scu; tanto che, di fatto, già nel 1991 uno dei gruppi più numerosi (il clan

De Tommasi) tenterà di fondare un’organizzazione autonoma (la Rosa dei Venti) con l’appoggio di Stranieri e della compagine tarantina. Tuttavia, come si è già detto, questa consorteria non operò mai con la nuova denominazione e gli affiliati continuarono ad agire nell’ambito della Sacra Corona Unita.

La scissione di De Tommasi, così come quella dei «mesagnesi», sono eventi già affron- tati, ma che devono essere qui ricordati per ribadire l’estrema fluidità dell’universo criminale sacrista, in cui le etichette ⎼ «Rosa dei Venti», «Sacra Corona Libera» o la stessa «Sacra Corona Unita» ⎼ rinviavano spesso a qualcosa di poco tangibile. Anche se è vero che quest’ultima espressione ha avuto una popolarità immediata nel clima di esal- tazione collettiva che si respirava tra i delinquenti pugliesi alla fine degli anni Ottanta. Eppure, al di là di questo, esisteva un disegno complessivo per coloro che volevano fare ⎼ ed essere ⎼ parte della Scu. In tal senso, almeno fino ad un certo punto della sua storia, l’organizzazione criminale pugliese poteva dirsi «struttura».

Dal punto di vista figurativo, l’immagine che può rappresentare in modo più efficace la presenza della Sacra Corona Unita sul territorio salentino è il mosaico: le famiglie sparse nelle province di Brindisi e Lecce sono tessere di un mosaico che lascia intravedere le diverse zone di competenza e le alleanze tra gruppi, i rapporti di forza e gli equilibri. La Sacra Corona Unita non si presenta dunque come una struttura unitaria su base regionale. Tale constatazione trova conferma nelle dichiarazioni del pentito Salvatore Annacondia, il quale, ascoltato dalla Commissione Antimafia nel 1993, sostiene che la Scu «esiste perché vi sono accordi fra di noi […] summit volti a raggiungere accordi sulle attività svolte con riferimento alle zone di influenza reciproca»24; laddove tali accordi

fossero possibili, perché nel 1991 tutti i gruppi salentini «avevano scontri, guerre, faide. Vi era molto sangue sparso»25. Dall’articolata e confusa spiegazione del boss di Trani si

può dedurre una concezione della Scu come rete criminale (network), che ha presentato grossi buchi, riducendosi in alcuni periodi storici a entità puramente astratta.

Nei primi anni Duemila l’ingresso dell’etica di mercato nella rete criminale della Sacra Corona Unita ha provocato uno sfaldamento dell’assetto strutturale che aveva caratte- rizzato l’associazione tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento. Ormai cia- scuno pensa egoisticamente a come meglio sfruttare i traffici del momento, accumu-

24 Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali si- milari, XI legislatura, Audizione del collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia, Seduta del 30 luglio 1993, p. 2484.

lando soldi da reinvestire nella stessa attività. Il principio solidaristico fino ad allora vigente nell’organizzazione viene sostituito da logiche affaristiche.

Sicché, si può dire che la Scu è stata una struttura coercibile e visibile per poco più di una decina d’anni, a partire dal 1986, anno in cui inizia la «seconda fase» della storia sacrista. Quando nel 2000 lo Stato, dopo la morte di due finanzieri, è intervenuto con decisione blindando militarmente le coste e l’entroterra salentino, ha smembrato un’or- ganizzazione oramai priva di una struttura e di un sostegno.

3.4.4. Le finalità

Ora volgiamo lo sguardo ai caratteri finalistici che modellano la criminalità mafiosa. Essi sono: l’arricchimento mediante un uso sistematico della violenza; la regolazione e il governo della vita economico-sociale di un’area; l’intermediazione e l’infiltrazione tra gli strati della popolazione, tale da produrre condizioni di assoggettamento e di omerta; la permeabilità delle amministrazioni locali, che permette ai mafiosi di accaparrarsi ri- sorse pubbliche e di sfruttarle a proprio piacimento.

Queste finalità caratterizzano qualsiasi organizzazione mafiosa in quanto impresa e attore politico nel suo agire sostanziale. In altri termini, potremmo dire che ogni gruppo malavitoso tende al controllo dell’area di riferimento, della sua economia e della co- munità che vi risiede: un obiettivo che presuppone, però, una struttura consolidata, che ne permetta il riconoscimento da parte dei soggetti esterni.

Fatte queste necessarie considerazioni, analizziamo adesso il rapporto della Scu con il mondo imprenditoriale. Almeno fino alla seconda metà degli anni Novanta ⎼ periodo in cui i grandi traffici di contrabbando conobbero uno straordinario sviluppo ⎼ la Sacra Co- rona Unita è stata una mafia capitalista e imprenditrice «soltanto nelle intenzioni, nei suoi principi programmatici originari, del tutto sconfessati dall’incapacità gestionale dei boss»26. Tra il 1983 e il 1994 le attività illecite dei clan erano soprattutto rapine, estor-

sioni, traffico e spaccio di droga e gestione di bische clandestine. I ricavi di tali attività venivano spesi tra il sostentamento degli affiliati (in libertà e nelle carceri), l’acquisto di beni di lusso (gioielli, macchine ecc.) e l’adempimento di bisogni personali (consumo di

droga, prestazioni sessuali ecc.). Il capitale illecito accumulato non veniva dunque rein- vestito, ma veniva semplicemente consumato. Di conseguenza, in quegli anni non esi- steva una progettualità di tipo imprenditoriale dell’agire criminale.

Comunque, bisogna notare che, intorno alla metà degli anni Novanta, ogni famiglia sa- crista arrivava a guadagnare circa un miliardo di lire al mese, in particolare grazie al mo- nopolio (assoluto) sul narcotraffico27 e sul gioco d’azzardo28, all’epoca particolarmente

diffuso tra la popolazione salentina. Vi era, però, una eccessiva avidità e frettolosità nella ricerca e nel conseguimento del guadagno.

Nella seconda metà degli anni Novanta i profitti crebbero con il ricavato del contrab- bando e, come abbiamo visto, alla guida dell’organizzazione si posero personaggi dotati di una spiccata capacità imprenditoriale. È in questo periodo che si crea una sorta di im- presa capitalistica, capace di garantire non solo un arricchimento per pochi, ma anche e soprattutto un sostentamento per molti. L’inclinazione stragista dei primi anni nei con- fronti dello Stato e delle istituzioni (connessa maggiormente al contesto criminale lecce- se) lascia ora il posto ad una vocazione imprenditoriale (legata più al contesto criminale brindisino), che in pochi anni è riuscita a generare una ricchezza sporca di proporzioni gigantesche, come dimostra l’elevato numero di aziende e di immobili confiscati ai clan del Brindisino e del Leccese nei primi anni del Duemila29.

Le numerose confische avvenute di recente costituiscono una conferma del fatto che la capacità di arricchimento e di reinvestimento del denaro sporco diviene componente integrante del modo di agire della Scu in una fase avanzata della sua storia, e che l’atti- vità di intermediazione sociale viene effettivamente esercitata dai boss sacristi soltanto quando i clan mafiosi prendono parte alla gestione del contrabbando, potendo così ga- rantire occupazione e sostentamento per intere famiglie salentine.

27 «Una lunga tradizione, la cui offerta, inizialmente limitata a eroina e cocaina, come ordinato dal “nonno” Pino Rogoli, si è progressivamente ampliata fino a mettere su un vero e proprio supermercato della droga […]» (M. Chiarelli, Sacra Corona Unita, cit., p. 85).

28 Per i sacristi le bische clandestine erano luoghi adatti per il riciclaggio del denaro sporco. Tanto de- naro, una parte del quale, per regola imposta dallo statuto della Scu, andava versata al «capo», che ne destinava una percentuale alle famiglie dei detenuti. Ad esempio, proprio le bische clandestine furono la miccia che fece esplodere il conflitto tra Rogoli e Antonica nel Brindisino.

29 Secondo i dati forniti dall’Associazione Libera, su fonte Agenzia del demanio, negli ultimi anni in pro- vincia di Brindisi, precisamente a Mesagne e a Torchiarolo, sono stati sequestrati 48 immobili e oltre 35 ettari di terreno. Questi e altri dati, relativi alle confische effettuate dalle forze dell’ordine in diverse zone della Puglia, sono riportati in F. Lella, Beni sequestrati alla mafia. La Puglia quarta in Italia, in «La Re- pubblica», 3 giugno 2012.

Relativamente al rapporto con la politica, si nota che il legame dei sacristi con le amministrazioni locali è stato labile, pur mantenendo una certa significatività. Come si è detto30, infatti, per capire la portata del fenomeno non basta fermarsi ai due comuni

sciolti per mafia (Gallipoli e Surbo), ma considerare anche che tra il 1991 e il 1992 altri comuni salentini, colpiti probabilmente da infiltrazioni mafiose, si sono sfaldati per le di- missioni spontanee del sindaco o il venir meno di maggioranze consiliari. Alcuni consi- glieri comunali, poi, sono stati rimossi d’imperio dal Ministero dell’Interno per le stesse