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CANONE: TEORIA E SCRITTURA CREATIVA POSTCOLONIALE

3.3 Il canone e la teoria: storia di un dibattito interno

Il dibattito sul canone letterario che ha segnato la storia culturale europea del Novecento in relazione alla crescita della cultura di massa ha raggiunto toni accesi negli ultimi due decenni non tanto ai margini della cultura occidentale, ma nel cuore di essa. Non a caso l’opposizione fra l’intellighenzia che difende la sacralità del canone e i sostenitori di una sua revisione e apertura, se non dissoluzione, si è s sviluppata negli Stati Uniti, modello per eccellenza di società multietnica, di quell’ibridazione e contaminazione che minacciano la compattezza del canone stesso.

Premessa di questo dibattito critico di fine Novecento e del processo di revisione canonica attualmente in corso è costituita dall’evoluzione dei modelli di lettura che tra Ottocento e Novecento hanno spostato l’enfasi dall’intenzionalità autoriale all’apporto del lettore. L’idea del testo come veicolo di un’interpretazione univoca e inattaccabile non soddisfa la maggior parte dei teorici che negli anni Sessanta, invece, spostano l’attenzione sul lettore e sull’idea che il significato del testo non dipenda esclusivamente dall’intenzionalità del suo autore, ma piuttosto dal processo collaborativo tra il testo e le conoscenze che il lettore ha acquisito.

Nella diffusione di tale ideologia ha avuto un ruolo fondamentale Roland Barthes che in un famosissimo saggio intitolato ‘La mort de l’auteur’ (1968) e nel successivo Le plaisir du texte (1973) dichiara che una volta raccontato un fatto,

l’autore entra nella propria morte, lanciando così provocatoriamente una sfida al principio autoriale. Così egli scrive:

Sappiamo oggi che un testo non consiste in una serie di parole esprimenti un significato unico, in un certo senso teologico (che sarebbe il messaggio dell’Autore-Dio), ma è uno spazio a più dimensioni, in cui si congiungono e si oppongono svariate scritture, nessuna delle quali è originale91.

La sua provocazione viene appoggiata da Michel Foucault in una conferenza dal titolo ‘Qu’est-ce-qu’un auteur?’ (1969) e l’idea di una comunicazione che ruota attorno alla figura del lettore si sviluppa sempre nel corso degli anni Sessanta nell’ambito degli studi promossi dalla “scuola di Costanza”, cui appartengono Hans Robert Jauss e Wolfang Iser che, a differenza di Barthes, relativizzano in senso storico il testo, non concependo il lettore come individuo, bensì come collettività. L’idea poi di collettività e dell’esistenza di ‘comunità interpretative’ viene ripresa ancor più radicalmente dallo studioso americano Stanley Fish che in

Is There a Text in this Class? (1980) dichiara che i significati non sono

prefabbricati, ma sono prodotti dai lettori che mettono così in atto delle strategie interpretative.

La sempre più sentita importanza del lettore come singolo o come comunità nell’interpretazione dell’opera letteraria implica necessariamente una concezione di canone aperto e relativo, soggetto al mutamento dei tempi. Sull’onda di questo crescente interesse per il dato storico e contestuale si sviluppano a partire dagli anni Ottanta, entro la stessa tradizione di pensiero occidentale, due correnti di pensiero: una americana, conosciuta col nome di Neostoricismo, cui esponente di spicco è Stephen Greenblatt, e una inglese che, ispirandosi al pensiero di Raymond Williams, prende il nome di Materialismo culturale, entrambi legate a una volontà politica di resistenza – al conservatorismo del presidente Ronald Regan nel primo caso, a quello del primo ministro Margaret Thatcher, nel secondo –. Neostoricismo e Materialismo culturale producono una consapevolezza teorica della storicità dei testi e della testualità della storia che però – come sottolineano Vita Fortunati e Giovanna Franci in Il Neostoricismo

91

Barthes, R., ‘La mort de l’Auteur’, in Le bruissement de la langue, Paris, Seuil, 1984 [1968], 61-67 (tr. it. ‘La morte dell’autore’, in Il brusio della lingua: Saggi critici IV, Torino, Einaudi, 1998, 51-54, 54).

(1995) – si accompagna anche alla coscienza della ‘complessità figurale e retorica’92 del testo letterario.

Il dibattito accademico del secondo Novecento, mettendo in discussione il concetto stesso di letteratura, ha per contrapposizione provocato però anche delle reazioni conservatrici, ‘frutto del timore che il discorso metacritico si sostituisca al dibattito letterario’93. Il tentativo di revisionare o decostruire il canone ha suscitato la risposta dell’élite culturale conservatrice che si è barricata in una serrata difesa dei pilastri della cultura occidentale. Già nel 1988 Frank Kermode si erge a difendere l’istituzione del canone sostenendo che ogni ipotesi alternativa a esso rimane ancorata alla sua struttura. Egli sostiene che:

the minorities who want to be rid of what they regard as a reactionary canon can think of no way of doing so without putting a radical one in its place94.

L’anno seguente Robert Alter in The Pleasure of Reading in an

Ideological Age, pur riconoscendo che il canone rappresenta l’ideologia di

un’epoca, sostiene che lo scrittore crea sotto l’influsso di un modello originale costituente una tradizione letteraria coesa in cui la forma estetica è fondamentale e aggiunge che un principio centrale del letterario si riscontra nel piacere della lettura.

Ma, la figura di spicco nell’élite conservatrice, promotrice di una nozione di canone chiuso, è quella dell’americano Harold Bloom che in The Western

Canon: The Books and School of the Ages (1994) difende la tradizione letteraria

dagli attacchi del relativismo culturale. Nell’incipit del testo egli dichiara di studiare ventisei scrittori autorevoli nella cultura occidentale cercando di individuare le qualità che li hanno resi canonici e insistendo sul valore della scrittura e della lettura come fenomeni individuali, selettivi, che hanno luogo su un piano puramente estetico attraverso la facoltà della memoria. Egli si scaglia contro quella che definisce ‘School of Resentment’ – materialisti culturali, neostoricisti e femministe – e sostiene che scrittura e lettura non sono fatti sociali dall’implicazione politica e ideologica, ma fenomeni individuali ed estetici, interdetti alla moltitudine e trasmessi nel nome dell’univocità.

92

Fortunati, V. e Franci, G., a cura di, Il Neostoricismo, Modena, Mucchi, 1995, 23.

93

Ascari, M., I linguaggi della tradizione: canone e anticanone nella cultura inglese, 112-13.

94

Le “Culture Wars” che hanno scosso il mondo anglofono nell’ultimo trentennio e che, a causa del configurarsi di società multietniche e multiculturali, hanno reso necessaria una riconsiderazione teorica della nozione di canone letterario e della sua funzionalità, dando vita a un acceso dibattito fra sostenitori e detrattori di una concezione tradizionale di cultura e letteratura, hanno minato dall’interno l’assetto costitutivo del canone stesso, fondato su principi di normatività e fissità. In altre parole, sollevando dubbi sull’appropriatezza del termine di fronte al possibile configurarsi di una “World Literature” che si spinge oltre i confini linguistici, hanno finito per testimoniarne la mobilità, il suo essere in divenire, la sua apertura a contaminazioni e ibridazioni. Il classico diventa – nella definizione datane da Italo Calvino –:

un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire95.