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CANONE: TEORIA E SCRITTURA CREATIVA POSTCOLONIALE

3.6 La scrittura creativa postcoloniale: quale futuro?

La scrittura creativa postcoloniale, mediante il processo culturale di divorazione, assimilazione, digerimento e riformulazione del canone occidentale, ha realizzato la terza fase di decolonizzazione culturale e sembra ormai di fatto entrata in una quarta fase interna al canone stesso, inteso in senso aperto, come espressione di valori multiculturali. Ma quale percorso può suggerire a questo punto? Come si deve muovere? La storicizzazione del testo ha consentito di rivedere il concetto di canone: quale sarà il passo successivo?

109

Ibid., 93.

110

Cfr., Guilroy, J., Cultural Capital: The Problem of Literary Canon Formation, Chicago and London, University of Chicago Press, 1993.

Nell’Introduzione al citato Le letterature in inglese e il canone, Maria Renata Dolce esprime l’auspicio che:

la polifonia e la coralità della scrittura creativa postcoloniale possa costituire un modello per una convivenza pacifica in termini culturali e ideologici che si riverberi sul sociale, modello pertanto, per una relazione improntata al rispetto per l’Altro, partner ideale in un dialogo volto all’ascolto e al reciproco arricchimento111.

Le letterature della postcolonialità, qualora evitino di incorrere nel rischio di formulare un controcanone che esalti il carattere esotico delle esperienze ai margini, hanno invece la possibilità di rappresentare e aiutare a capire la globalità in continua trasformazione dall’interno del canone, dove vengono ora a trovarsi proprio a causa delle continue e rapide evoluzioni e trasformazioni verso una cultura globale.

Più che formulare un anti-canone, le letterature postcoloniali possono invece suggerire un ipotetico ‘canone minore d’emergenza’, in continua revisione ed evoluzione, sulla base di principi diversi dal concetto d’inclusione che implica sottomissione e assimilazione alle strutture del canone dominante. Non avrebbe alcun senso una scrittura finalizzata all’inclusione in un canone ufficiale allargato. Le letterature postcoloniali hanno invece la possibilità di costruire i propri testi individuali, espressioni del proprio essere locale, della propria esperienza peculiare di marginalità, che è comune e allo stesso tempo diversa, entrando così di diritto in una tradizione letteraria non più statica e normativa, ma dinamica e trasformativa, in cui le opere possono essere aggiunte o sottratte senza alterare l’impressione di totalità e omogeneità. Così facendo esse rappresenteranno una realtà globale multiculturale in continua e irrefrenabile evoluzione, evitando al contempo di perdere il significato e la valenza dell’esperienza e specificità locale; esse rifuggiranno da un concetto di globalità omologante e favoriranno lo sviluppo di una ‘World Literature’ in tutte le lingue del mondo.

Se la scrittura creativa postcoloniale ha la potenzialità di realizzare questi obiettivi è perché si tratta di una scrittura “storica”, “globale” e “trasformativa” – caratteristiche su cui si è molto insistito nel secondo capitolo. Queste tre valenze possono essere sfruttate al meglio se, come si è anticipato, il postcoloniale si impegna nel realizzare quello che Silvia Albertazzi chiama un ‘canone minore d’emergenza’. Sarà ora necessario chiarire il significato di tale concetto.

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L’espressione ‘letteratura minore’ viene utilizzata per la prima volta da Franz Kafka nei suoi Diari e riproposta da Deleuze e Guattari in Kafka. Per una

letteratura minore. Essa non si riferisce alla letteratura di una lingua minore, ma a

quella prodotta da una minoranza in una lingua maggiore. Tale letteratura non nasce sotto l’influsso di maestri o modelli nazionali e di conseguenza – come spiega Kafka – si fa espressione della collettività assumendo una valenza politica. Deleuze e Guattari ne identificano i tratti salienti nella cancellazione della voce individuale a favore di quella collettiva, impegno e militanza politica e rivoluzionaria, abbattimento delle frontiere ideologiche e culturali e deterritorializzazione linguistica, uso intensivo e non rappresentativo della parola e polilinguismo. Queste caratteristiche, tutte comuni alle letterature postcoloniali, possono diventare i paradigmi su cui fondare un ‘canone minore’, sempre qualora se ne avverta la necessità: ipotesi che porta al concetto di ‘emergenza’.

Il dibattito sul canone letterario ha messo in discussione il senso stesso della sua esistenza nel presente, pertanto, si ricorrerà a una sua formulazione solamente qualora se ne percepisca il bisogno, un bisogno che comunque prima o poi si farà inevitabilmente sentire perchè, come sostiene Romano Luperini in Il

dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialista (1999):

ogni corpo sociale ha bisogno di istituti che diano una qualche relativa stabilità ai propri saperi e al proprio patrimonio culturale112.

A tale bisogno si potrà sopperire con la formulazione di un ‘canone minore’, a cui si ricorrerà solo in uno stato di ‘emergenza’. Il concetto d’emergenza di cui Silvia Albertazzi parla in ‘Canone’ viene mutuato dal pensatore tedesco Benjamin che nelle sue tesi di Filosofia della Storia scrive che ‘la tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola’113. Se la contemporaneità è caratterizzata dalla provvisorietà e dal continuo e repentino cambiamento, non avrebbe alcun senso includere i testi letterari del presente in un canone estetico fondato su principi universali e senza tempo, né tanto meno avrebbe senso continuare a ribadire l’esistenza di un canone, anche se rinnovato, allargato, fondato su principi multiculturali, perché comunque esso continuerebbe a sottendere un processo d’inclusione che equivarrebbe a sottomissione a

112

Luperini, R., Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialista, Roma - Bari, Laterza, 1999, 37.

113

un’ideologia gerarchica. Se però continuiamo a manifestare l’esigenza di un

corpus che dia un senso di sicurezza e stabilità al nostro patrimonio culturale su

scala mondiale e locale, ci si può appellare a questo ‘canone minore d’emergenza’ che deve essere fondato su un patto di dissimulazione, deve essere storicizzato, ma allo stesso tempo realizzarsi nella contemporaneità e dunque essere costantemente soggetto a revisioni e rivalutazioni. Si tratta, in ultima analisi, di un canone le cui opere sono continuamente scelte non in base all’intenzione autoriale, ma alla luce delle loro reciproche contaminazioni e del loro relazionarsi alla tradizione occidentale, del loro infiltrarsi nel discorso dominante finché la distinzione fra una letteratura ‘maggiore’ e una ‘minore’ non ha più senso perché i due termini stessi si contaminano. Come sottolinea Maurizio Ascari, lo spazio di ‘indecidibilità’ in cui a fine secolo si collocano i processi di lettura, di scrittura, di definizione dello statuto di canone, implica il rifiuto di essenzialismo e relativismo e impone invece una riflessione sul rapporto fra i caratteri intrinseci del testo e il contesto di ricezione, fra tradizione e innovazione, etica ed estetica:

alla ricerca di un percorso interpretativo che è ‘giusto’ non perché unico, ma perché il suo equilibrio è la migliore risposta che ci è dato concepire nel qui e ora114.

La necessità ancora diffusa nella contemporaneità di ipotizzare l’esistenza di un canone seppure provvisorio, minore, d’emergenza, di sopravvivenza, per creare un senso di stabilità attorno al nostro patrimonio culturale, rende di fatto le letterature postcoloniali canoniche, segnando così il loro ingresso in una nuova da poco ipotizzata quarta fase di decolonizzazione culturale in cui non solo esse assimilano e riformulano la tradizione occidentale, ma entrano e operano di diritto all’interno di essa. In questa nuova fase esse devono evitare di prestarsi alla definizione di un canone allargato e omologante che includa senza distinzioni tutte le letterature del mondo, descrivendo una globalità senza specificità, senza tratti distintivi.

Invece il futuro della scrittura creativa postcoloniale dall’interno del canone risiede nel concetto di provvisorietà che essa può suggerire e diffondere attraverso la riscrittura dei classici tradizionalmente intesi, sottintendendo dunque la loro storicità, e divulgando l’idea di continuità e al contempo di costante

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necessità di trasformazione, il bisogno di uniformità e allo stesso tempo di distinzione, di globalità e di specificità locale.

Le letterature postcoloniali possono essere una chiave di lettura della Letteratura mondiale come ‘modalità di circolazione’ piuttosto che come un elenco di opere chiuse all’interno di un canone omologante. La Letteratura mondiale si può classificare, se sussiste ancora la necessità di farlo, non come un insieme definito di testi che la comunicazione di massa avvicina per similitudine, incorrendo così nel rischio di sottrarli al loro carattere distintivo, ma piuttosto – come piega David Damrosch in What is World Literature? (2003) – come una modalità dinamica di circolazione fondata sul principio della variabilità:

[…] world literature is not an infinite, ungraspable canon of works but rather a mode of circulation and of reading, a mode that is as applicable to individual works as to bodies of material, available for reading estabilished classics and new discoveries alike. […] It is important from the outset to realize that just as there never has been a single set canon of world literature, so too no single way of reading can be appropriate to all texts, or even to any one text at all times. The variability of a work of world literature is one of its constitutive features – one of its greatest strengths when the work is well presented and read well, and its greatest vulnerability when it is mishandled or misappropriated by its newfound foreign friends115.

E’ la forza e la potenzialità del carattere variabile, trasformativo ed evolutivo della World Literature che le letterature postcoloniali hanno la possibilità di esaltare. Attraverso il processo specifico della riscrittura esse possono evidenziare come i testi ritenuti comunemente appartenenti al passato evolvano nel tempo, siano aperti ai più diversi significati, utili alla comprensione del presente e proiettati entusiasticamente verso nuovi futuri. La storicizzazione del testo ne mette in evidenza il carattere imprevedibile, il suo poter entrare a far parte solo di un canone provvisorio d’emergenza, mai statico e universale.

L’imprevedibilità che il testo esprime riflette la condizione del mondo in cui viviamo, una totalità in movimento che produce continuamente imprevisto e che lo scrittore martinicano Édouard Glissant chiama ‘mondo-caos’, costruito e determinato dallo choc fra culture, piuttosto che da conflitti fra nazioni o Stati. Egli lo chiama mondo-caos:

[…] non tanto perché è in disordine – lo è –, ma perché è imprevedibile. Non si può fare una cartina della realtà; non si possono più dedurre progetti dalla cometa. E questa imprevedibilità del mondo ci costringe a un nuovo approccio che è sicuramente più fragile, più ambiguo. Non traccia delle strade sistematiche, ma si accorda su questo dato, che il

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mondo non è più il luogo dei conflitti tra le nazioni, o tra gli Stati, ma tra le culture. Ed è indubbio che le catastrofi attuali (popolazioni sterminate, purificazioni etniche) provengano da questi choc tra culture, anche se prendono a volte l’aspetto di guerre di religione. Al momento della colonizzazione della Americhe o dell’Africa, i popoli colonizzatori non concepivano i popoli colonizzati come possessori di una cultura. Si andava presso i Maya per prendere l’oro, non alla ricerca di pezzi da museo o di elementi culturali. Cosa che non è più possibile, anche se lo si tenta attraverso la globalizzazione mercantile, rete di multinazionali che cercano di farci mangiare le stesse cose, condurci a vestirci allo stesso modo, a comprare gli stessi prodotti e così via. Ma sappiamo che c’è una realtà culturale di tutte le comunità della terra. Questo choc tra culture, o questa simbiosi, mi sembrerebbe costruire quello che chiamo un mondo-caos perché non sappiamo assolutamente che cosa ne verrà116.

La dinamicità e il carattere trasformativo delle letterature postcoloniali traducono in termini letterari la realtà del mondo-caos contemporaneo e la potenzialità che esse hanno è data dalla convinzione che tale caos non sia, come nella concezione postmoderna, fonte d’inquietudine, sintomo di un’apocalisse imminente, ma piuttosto segno delle infinite possibilità del mondo contemporaneo, un caos positivo, foriero di elementi d’incontro fra le più svariate culture. Il merito, o se così si può dire, la via d’uscita che la scrittura creativa postcoloniale trova al caos negativo della globalizzazione omologante concepita in termini postmoderni, consiste nel sottrarsi a un pensiero di sistema, prevedibile e continentale, che tende all’inglobamento senza distinzioni, che non lascia spazio alla specificità delle culture, che non sa suggerire altro che l’allargamento del canone tradizionale mediante un processo gerarchico d’inclusione in cui l’accorpamento del tutto implica esiti apocalittici, e adottare fiduciosamente un pensiero ambiguo, provvisorio e di relazione, che sempre Glissant in Les

poétiques du chaos-monde definisce ‘pensiero arcipelago’. L’immagine

dell’arcipelago è per lui significativa perché l’arcipelago è costituito da un insieme di terre frammentate, divise, ma allo stesso tempo legate tra loro da un bisogno di unità, bisogno che passa attraverso la consapevolezza di una diversità reale che garantisce che nell’unità non esplodano ancora volontà di potenza e di dominio. In altri termini, una globalizzazione totalizzante reitererebbe, attraverso l’inclusione e la subordinazione, principi autoritari, al contrario una globalizzazione concepita nei termini di incontro, contaminazione, creolizzazione di culture diverse, consente di mantenere un’idea di unità, di totalità del mondo, ma al contempo di differenziazione, riconoscendo la necessità di tutti gli elementi che costituiscono il caos della realtà.

116

Leclair, B., Weitzmann, M., Scivolando sulle pendici del tutto-mondo (intervista a É. Glissant), in Il mucchio

La letteratura contemporanea non può più essere espressione di una cultura nazionale; sebbene essa si esprima in lingue diverse, condivide altresì con le altre letterature nazionali tecniche, retorica, usi linguistici, uno stesso modo di affrontare la realtà, di frequentare il mondo. Essa deve pertanto farsi espressione di una cultura transnazionale, cosciente di un’appartenenza a una comunità più grande di quella originaria, al ‘caos-mondo’ costantemente in movimento.

La letteratura però non può farsi globale rinunciando alla specificità, non può sacrificare la propria identità locale in nome di un’identità unitaria concepita come una sorta di amalgama indistinta. La letteratura postcoloniale può suggerire come evitare tale omogeneizzazione e cioè – come scrive Glissant nella

Introduction a une poétique du divers (1996) – vivendo la totalità del mondo a

partire dal proprio luogo, stabilendo la relazione e non consacrando l’esclusione. In altre parole, la letteratura postcoloniale può contrapporsi all’assimilazione totalizzante occidentale esaltando la differenza nella comunanza, recuperando le radici primigenie, nella coscienza che è a partire da queste ultime che le culture ora si creolizzano, si ibridano. Per poter frequentare con positività il mondo globale contemporaneo caratterizzato da una costante imprevedibilità, è necessario ricercare, ritrovare e ricomporre le tradizioni locali, i valori umani autoctoni che il colonizzatore ha sempre negato, ripercorrere e rimettere insieme quelle tracce che ormai nel caos-mondo si sono mescolate, nella coscienza che soltanto a partire da esse si può costruire l’immagine di una nuova cultura creolizzata. Si tratta di un processo difficile e lento che secondo Glissant si realizza ‘pensando per tracce’ piuttosto che per sistemi, riconoscendo la totale assenza di valori universali, non facendosi spaventare dall’imprevedibilità di un’identità che non è monoliticamente radicata, ma che si fonda sulla relazione, che si contamina continuamente con l’Alterità e il suo divenire.

La letteratura contemporanea deve farsi espressione di una ‘dismisura della dismisura’; lo scrittore deve far riflettere le coscienze sulla necessità di trovare un equilibrio fra la propria comunità e la totalità di un caos-mondo non più sognato, ma concretamente frequentato, un equilibrio che permetta di accordarsi con gli altri senza rinunciare a se stessi. Così scrive Glissant nella Introduction a

une poétique du divers:

[…] c’è una domanda che la conoscenza non ingenua di questa comunità nuova e totale si pone: come essere se stessi senza chiudersi agli altri e come accordarsi all’altro, a tutti gli

altri, senza rinunciare a se stessi? E’ la domanda che agita il poeta e che egli deve dibattere quando è in sintonia con la sua comunità minacciata di cui deve rappresentare un sostegno. Egli deve difendere la sua comunità non con il sogno di una totalità-mondo da realizzare universalmente (come al tempo in cui questa totalità-mondo era ancora solo un sogno), ma deve difendere la sua comunità nella realtà di un caos-mondo che non consente più universalizzazioni generalizzanti 117.

Di fronte dunque alla messa in discussione del canone tradizionalmente inteso, muovendo dalla coscienza della storicità del testo e conseguentemente del suo essere imprevedibilmente in divenire, il futuro della letteratura postcoloniale – proprio come quello della quest cavalleresca ipotizzato per la teoria – è quello di recuperare ed esaltare il valore della specificità dell’identità locale ponendola costantemente in relazione dinamica e positiva col ‘Mondo-tutto’ in cui essa si trova a vivere e in rapporto al quale essa evolve continuamente creolizzandosi. Solo ponendosi in questa prospettiva sarà possibile sfuggire alle vecchie chiusure, a un canone che formula norme per dare certezza a una realtà che è invece caratterizzata dall’incertezza, dall’imprevedibilità e dalla mutevolezza. Alla tavola rotonda della stato della teoria e critica letteraria immaginato da Locke si può affiancare l’immagine, il ‘piccolo quadro incomprensibile’118 che Glissant propone ‘per sognare lo stato e la situazione della letteratura attuale’119:

[…] credo che la letteratura non sia bella, come diceva Henri Pichette, che “nel letto del mondo”. E credo che la mia identità, i miei problemi non siano abbordabili e accordabili a me stesso e agli altri se non li pongo nel contesto della dismisura del Mondo-tutto e dell’oggetto che questa dismisura propone ormai alla letteratura. E credo che sia soltanto per questo nuovo modo di concepire l’oggetto letterario che possiamo sfuggire alle vecchie fissità, alle vecchie chiusure, a tutto ciò con cui eravamo cresciuti, a tutto ciò da cui siamo sforzati, noi paesi, paesi concreti, paesi reali, e intellettuali, artisti, scrittori e poeti del Sud, di liberarci, nel nome stesso dei principi che ci sono stati imposti, senza che noi li avessimo mai rimessi in discussione. Rimettere in discussione i principi, questo significa forse lottare e sognare. Non credo che la lotta e il sogno siano in contraddizione120.

Mediante la riscrittura creativa del canone, il postcoloniale lo scredita della sua valenza universale e lo storicizza, ponendolo in relazione con la propria esperienza locale e rendendolo un testo d’interesse globale come espressione di una Letteratura mondiale la cui canonicità, se auspicata, risiede nella provvisorietà e nella contaminazione, interazione e creolizzazione culturale in cui l’importanza

117

Glissant, É., Introduction à une Poétique du Divers, Paris, Gallimard, 1996, (trad. it. di Neri, F., Poetica del diverso, Roma, Meltemi, 1998, 31). 118 Ibid., 76. 119 Ibid., 76. 120 Ibid., 76.

dell’elemento locale permette di rifuggire dalla formulazione di un ulteriore canone globale indistinto.