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CAPITOLO 3: TUTELA E PROMOZIONE DEI DIRITTI DELL’INFANZIA 9.

9.1 3.1 L’Età dei diritti dei minori nella prospettiva antropologica

Abbiamo visto nel capitolo precedente che il termine “minore” è già un “intero cosmo educativo” (Dal Lago in introd. Petti, 2004) e che rimanda ad una dimensione anagrafica negativa (sono minori tutti coloro che non hanno raggiunto l’età in cui si è in pieno possesso di sé), definisce una mancanza. Analogamente all’umanità pre- illuministica di Kant, la minore età è soprattutto una “minorità”, ovvero una situazione che rende naturalmente indispensabili operazioni di tutela, educazione, assistenza, correzione.

Il 900 è il secolo in cui l’età infantile ha guadagnato un posto centrale nelle ricerche, nelle cure e negli interessi educativi, sanitari e sociali, ma anche nell’ambito dei diritti. Così come siamo passati da un’assenza quasi totale di interesse nei confronti dei minori ad un eccesso di discorsi che lo riguardano e lo coinvolgono, allo stesso modo si è parlato di un processo di “proliferazione dei diritti umani” (Harrison, 2001) - specie di quelli che riguardano la sfera minorile - che, messo in moto a partire da questo secolo appena concluso, è venuto a diffondersi su scala mondiale ad un ritmo quale mai si era verificato nella storia88. Come ha scritto Noberto Bobbio “non può passare inosservata la crescente attenzione che in ogni parte del mondo è rivolta ai diritti umani, sia per la coscienza sempre più sensibile e profonda che si forma nei singoli e nelle comunità intorno a tali diritti, sia per il moltiplicarsi delle continue violazioni di esso” (Bobbio, 1992, p. 256).

Tale processo di “proliferazione”, nella prospettiva critica antropologico- culturale, appare ambiguo e gonfio di contraddizioni (Harrison, 2001). Se è, infatti, consolidata la tendenza mass- mediologica a considerare i diritti umani nel loro aspetto “universale”, è riscontrabile anche la netta consapevolezza altrettanto diffusa che ogni essere umano debba essere considerato soggetto di diritti diversi, a seconda della sua specificità di genere, della sua collocazione sociale, della sua appartenenza generazionale, secondo una visione dinamica e del tutto personale della attribuzione dei diritti (Ibidem). E sono giustappunto i valori occidentali della “tradizione culturale personalistica” quelli che emergono come universali dalle carte dei diritti umani, e in particolare dai Trattati Internazionali che riguardano i minori, anche se ci si sforza di connettere la centralità della persona umana, attribuita sin dai suoi primi istanti di vita, al pluralismo valoriale dei differenti mondi culturali tradizionali (Callari Galli, 2005).

88I Diritti Umani non sono certamente una invenzione del nostro secolo: ogni forma di costituzione a nota

a partire dalla Magna Charta sancisce, a proprio modo, una separazione tra ciò che all’interno della società stessa è lecito e ciò che non lo è. Tuttavia, il concetto di diritto come noi oggi lo conosciamo è un’acquisizione giuridica e culturale recente (Cassese, 1999). Quando parliamo delle origini dei Diritti Umani facciamo infatti solitamente riferimento al XVIII secolo ed al periodo Illuminista: è infatti a partire dalla Dichiarazione Francese del 1789 che, almeno idealmente, siamo passati da una concezione sociale dell’onore e del privilegio per nascita ad una in cui le differenze passano in secondo piano a favore di un concetto di dignità universalmente diffuso. Il diritto diviene allora garanzia dell’unità del genere umano (cfr. Taylor, 1993). Ma è solo in questo secolo, ed in particolare dal secondo dopo guerra, che il concetto di dignità umana ha assunto un carattere non solamente etico, ma anche e soprattutto giuridico. La progressiva complessificazione del reale ha contribuito a mettere in luce i limiti del modello nazionalista (basato sul diritto stato centrico) in favore di un modello alternativo che vede al centro dell’attenzione l’individuo come soggetto primario di diritto (norma umano centrica) (Castiglione, 2000).

Come più volte ribadito, la centralità della tutela della formazione e dello sviluppo della personalità del minore diviene centrale in questo percorso secolare di rivendicazione dei diritti umani fino a divenire il tema cardine del Summit mondiale per l’infanzia del 1990: in tale occasione i Capi di Stato e di Governo hanno ribadito di assumersi con un “urgente appello universale” l’impegno comune di “offrire un futuro migliore ad ogni bambino” e hanno statuito che l’infanzia debba essere considerata il “settore privilegiato” di ogni società, quello a cui ogni gruppo umano deve assicurare le cure, le attenzioni, le protezioni più adeguate. Nel medesimo Vertice è stato anche ribadito l’articolo 24 del Patto del 1966: con cui la tutela dei diritti civili e politici, che è assunta come fondamentale per ogni essere umano senza discriminazione alcuna – di razza, di sesso, di origine nazionale o di condizione sociale, di lingua o di religione – viene estesa al minore aggiungendo nuovi diritti in suo favore. Perché per favorire nel modo più pieno il godimento dei diritti dei quali il minore è titolare e soggetto attivo, è necessario riequilibrare, in via pregiudiziale, la posizione del minore rispetto a quella dell’adulto89.

Una sezione speciale è stata inoltre riservata ai processi di socializzazione e acquisizione della cultura asserendo che l’educazione infantile e giovanile debba essere intesa come una discriminazione positiva in favore del minore: attraverso l’adozione di misure speciali devono essergli attribuite uguaglianze sostanziali di condizione, di chances e di scelta, in contrasto con la sua attuale condizione, che tanto nella famiglia quanto nella società, è quella di un soggetto debole. Il diritto all’educazione è ora inteso come “diritto sociale”, e non più solo come “diritto individuale”. I diritti sociali, per altro, sono gran parte di quelli che sono stati recepiti dalla Convenzione: il diritto alla salute e all’alimentazione, il diritto al lavoro e al tempo libero, a vivere in un ambiente sano e superare gli handicap. “Solo se la prospettiva del loro appagamento considera tutti questi diritti – e quello dell’educazione in particolare – appunto come diritti sociali, politici e culturali, ci si preoccuperà, nella loro promozione e nella loro protezione, di appagarli assicurando ai minori utenti non solo il riconoscimento formale della loro reciproca uguaglianza di fronte gli adulti, ma direi ancor di più la loro uguaglianza reale che si sostanzia assicurando loro il diritto alla diversità di questa fase della loro esistenza, la dignità della loro attuale particolarità” (Harrison, 2000).

Il merito maggiore della Convezione del 1989 è stato però forse quello di aver modificato radicalmente il concetto di “età minorile”90. Oggi una nuova e diversa sensibilità la considera centrale e le conferisce una soggettività sociale attraverso la forza di un vero e proprio trattato sovranazionale – la Convezione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, giustappunto – che ha inteso ribadire il primato dell’interesse superiore del minore, fissando la tutela delle sue convenienze, dei suoi bisogni e delle

89Su questa linea si situano i Kiddy Libbers, centrati sulla capacità di auto- determinazione del minore, in

contrapposizione ai Child Savers che vedono invece in lui un soggetto bisognoso di tutela dalla corruzione del mondo e dallo sfruttamento degli adulti (Harrison, 2001; Peti, 2004). Si tratta di due vere e proprie “crociate morali” scrive Becker (cfr. 1963) con attività e ricadute nazionali e internazionali. La concezione dell’infanzia propria dei Kiddy Libbers rivendica iniziative sociali e processi educativi che siano in grado di emancipare il minore dalla dominanza degli adulti e di attivare processi di affrancamento dalla sua subalternità e utilizza, a suo proprio sostegno, il progressivo concretarsi legislativo dei diritti dei minori quale legittimazione di un etero- intervento compensatorio.

90É comunque da notare come già fosse stato questo lo spirito e lo scopo di cui si era fatta interprete, sin

dal 1920, la Croce Rossa Internazionale attraverso la fondazione dell’Unione Internazionale per il soccorso dell’infanzia. Questa prima affermazione dei diritti del bambino aveva però ancora una accentuata caratterizzazione in senso assistenziale che manteneva i diritti umani del minore a livello di

sue facoltà, con garanzie realmente innovative quando determinano una nuova concezione degli status e dei ruoli del bambino, del ragazzo, dell’adolescente. La Convenzione stabilisce che il minore è un cittadino con diritti che devono non solo venirgli riconosciuti, ma anche concretamente garantiti. Come scrive Gualtiero Harrison (2001, p. 149), il “diritto minorile” passa dall’essere un “diritto dei minori” al dover essere un “diritto per i minori”. É una mutazione antropologica dell’essere bambino e dell’essere giovane, quella che viene ad imporsi: una rivoluzione culturale, quindi, della condizione e del ruolo di colui o colei che ancora comunemente chiamiamo minore”.

Attorno a tale Dichiarazione “il consenso è stato sì corale nelle esternazioni nominaliste, ma assai meno sostanziale nella prassi quotidiana del sociale” (Ibidem). E se le mille violazione dei diritti umani che costellano la cronaca politica della contemporaneità sembrano mettere in crisi la nostra fiducia nella loro applicazione, ogni volta dobbiamo constatare che rappresentano l’unico baluardo, che pur nella sua fragilità, riesca ancora a raccogliere consensi e azioni dotate di richiamo a valori se non universali, almeno comuni a molti gruppi (Callari Galli, 2005). Certo è che per un concreto e realistico passaggio dalle “carte dei diritti” alla “qualità della vita” dell’infanzia in ogni paese sono necessarie e particolarmente pressanti alcune norme di ratifica e di attuazione negli ordinamenti interni perché ogni convenzione internazionale possa avere reale e concreta applicazione.

9.2 3.2 I diritti dell’Infanzia tra universalismo e particolarismo

10. La nostra principale difficoltà nell’accordarci su come mettere a