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La disoccupazione in Marocco: la prima ragione dell’emigrazione

Grafico 1. Alunni con cittadinanza non italiana per alcuni Paesi di Provenienza Anno scolastico 2007/

14. CAPITOLO 5: TRA ITALIA E MAROCCO

14.11 Khouribga: la città di origine

15.1.4 La disoccupazione in Marocco: la prima ragione dell’emigrazione

Mentre consumavamo un pranzo a base di kebab, riso ed altre leccornie, si avvicina al nostro tavolo una giovane mamma, Sadiya, con due figli che credo avranno avuto rispettivamente 11- 12 il primo e una quindicina il secondo. Conosce Ali e si siede al tavolo con noi.

La giovane donna, dopo alcuni convenevoli ci spiega che l’idea dell’Italia è il loro obiettivo primario, che i due ragazzi in quel periodo “non pensavano ad altro”, completamente assorbiti da questa prospettiva.

Le chiedo le ragioni di questa scelta e la domanda provoca sconcerto, forse amarezza. Cosa ne può sapere un occidentale di come si vive qui a Khourigba? Sembra leggersi sul viso della giovane donna

In Marocco non c’è lavoro, sono tutti disoccupati, non c’è la possibilità di una vita normale. Mio marito lavora come muratore, guadagna poco. È tutta la famiglia ad avere bisogno di aiuto. Ora mio marito è a Fes, per lavoro. Poveretto, lavora tanto, per un lavoro rischioso, e guadagna dieci dirham l’ora. Capisci? dieci dirham! È per questo che abbiamo bisogno che loro partano. Speriamo che possano emigrare, così il padre si può riposare un po’. È tanto tempo che desiderano partire, non fanno che pensare a questo.

Mi permetto di chiederle come si sente a pensare di avere i figli lontani, se ha paura che facciano il viaggio da soli.

I figli vanno via per avere un avvenire migliore; quando lo fanno noi siamo contenti. Sappiamo quanto sia difficile per chi parte sans papiers; noi non sosterremmo mai l’idea di andare senza i documenti in regola. I genitori fanno tanti sforzi per aiutare i figli ad emigrare, perché qua non ci sono prospettive; non c’è lavoro, e per questo tutti noi siamo disposti a correre molti rischi.

Vorrei andarmene in Europa, per lavorare e studiare ancora; qualunque lavoro va bene, so che là ci sono tante opportunità…Vorrei guadagnare dei soldi e poi tornare a vivere qua, ma non in queste condizioni. Sarebbe per poco solo per aiutare mia famiglia.

La conversazione è interrotta diverse volte, ora dal cameriere, ora dalla radio. C’è molta confusione. Mi sorprende però che nessuno intervenga né per biasimare questa scelta, né per sostenerla. Nessun commento. Mi chiedo se io non fossi presente cosa avrebbero consigliato alla giovane donna, come, Ali e Mustafa, avrebbero fronteggiato le aspettative dei due ragazzi. Poco dopo Sadiya dice di dover andare via. La saluto, augurandole un sentito in bocca al lupo.

Ali commenta:

Vedi … Cercare di costruirsi un futuro in Marocco è molto difficile; ci sono ostacoli, corruzione, burocrazia. Comunque noi vorremmo partecipare alla vita del Paese che ci ospita, fare la nostra parte; non vogliamo venire in Europa solo per portare via dei soldi. I miei sentimenti sarebbero di restare in Marocco, ma non è possibile. Inoltre qui a Khouribga c’è un problema specifico che in altre zone del Marocco non c’è; a Rabat o a Casablanca è diverso, è meglio. Questa è la regione da dove partono tutti; da qui tutti vogliono solo andare via. Una volta se chiedevi ad un bambino che cosa volesse fare da grande rispondeva di voler fare il soldato, il muratore, il contadino; oggi dicono tutti la stessa cosa, che vogliono solo andarsene.

È la povertà che ti spinge ad emigrare; è vero che c’è anche l’influenza dei mezzi di comunicazione e della ricchezza da chi torna, ma la realtà parla da sé, basta guardarsi intorno. I bambini vedono i genitori in difficoltà e vorrebbero aiutarli; pensano che emigrare da piccoli sia meglio che non farlo da grandi, perché prima si parte e prima si può cercare di fare qualcosa.

Lo scopo principale e comune dietro la partenza dei migranti è quindi quello di reagire, di abbandonare una situazione estremamente statica e limitata dalla quale non ci si aspetta nulla di buono. La via dell’emigrazione ricalca la volontà di aiutare i familiari in patria e di ricercare maggiori opportunità di lavoro e di studio per emanciparsi dalla povertà in quanto come ci dice Mohamed, mediatore culturale della Caritas di Roma: La mobilità spaziale non è un modo, ma è il modo, di superare la propria precaria condizione.

Per gli intervistati, infatti, il luogo di origine non è un luogo, ma piuttosto un coacervo di problemi e difficoltà di ordine economico e sociale. In particolare, ritengono che il loro paese sia incapace di fornire qualunque opportunità lavorativa. Se anche il lavoro si trovasse, sarebbe mal retribuito, duro dal punto di vista fisico per un giovane, insicuro e privo di tutela. Durante un focus group presso la comunità Mediterraneo di Roma, i ragazzi sostengono:

In Marocco ti prendono pure a lavorare, ma non per sempre, come qui in Italia. La se ti prendono lo fanno per 2- 3 settimane e poi devi ricominciare da capo a cercare lavoro.

Là in Marocco se vuoi prendere un buon lavoro, come fare il maestro devi pagare… se tu hai i soldi fai i lavori migliori, se no trovi solo lavori da poco. Io non avevo soldi per pagare lavoro buono.

Un punto cruciale che emerge dal dibattito riguarda la disparità tra i salari tra il Marocco e l’Italia; diversità che può essere appresa appieno solo se si considera che il salario minimo nel paese di origine è pari a circa 1800 dh, meno di 180 euro mensili.. Non c’è niente. Nessun lavoro. Lì si può fare solo il contadino, ma la paga è basa, molto bassa. Se tu fai il contadino qui in Italia prendi come minimo 5-6 volte tanto… In Europa si può trovare lavoro stabile con buon salario. Per esempio in Italia si guadagna anche 10 volte più che in Marocco. Tu lavori qualche anno e torni in Marocco con la casa e tua famiglia.

Quando lavori tutta la vita in Marocco non riesci a fare niente, ma quando lavori per esempio un anno in Italia puoi fare qualcosa: tipo automobile, soldi, anche perché il salario è molto più grande che là.

Sono così confermate le indicazioni contenute nelle più recenti analisi in materia laddove si indicava come maggioritario il flusso di minori che giunge in Italia alla ricerca di lavoro. In questo flusso è difficile però distinguere i minori che emigrano secondo il modello di emigrazione economica degli adulti e quelli che sono spinti dalla famiglia ad emigrare per sottrarsi ai rischi di una situazione sociale lacerata e pericolosa per il loro percorso formativo, modello in cui la componente economica, benché presente, risulta secondaria. Traspare, cioè, dal racconto di Sahida, così come da quello di molti minori un consenso alla partenza da parte dei genitori, preoccupati dal pericolo dell’anomia e dell’apatia in cui i ragazzi rischierebbero di trovarsi rimanendo nel paese di origine. La decisione di emigrare diventa quasi una sorta di banco di prova a cui i genitori sottopongono i figli, forse pensando che in Italia incontreranno maggiori opportunità in un quadro di maggiore benessere e tranquillità sociale (che poco corrisponde alla realtà) e che ciò potrebbe pertanto accelerare la formazione dei figli senza esporli ai rischi presenti in patria, dove la loro maturazione è altrettanto rapida, ma gli sbocchi lavorativi scarsi e poco interessanti.