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Grafico 1. Alunni con cittadinanza non italiana per alcuni Paesi di Provenienza Anno scolastico 2007/

14. CAPITOLO 5: TRA ITALIA E MAROCCO

14.11 Khouribga: la città di origine

15.1.3 Racconti di successo

Ali abita vicino al centro, nel quartiere delle Forze Ausiliarie, dove risiedono le famiglie dei militari di stanza in città: suo padre è un pensionato dell’esercito. Il quartiere, separato dalla città dalla ferrovia dei fosfati, è costituito da una ventina di case imbiancate disposte su due file parallele. Ci sediamo nel saloncino di casa, la mamma ci versa dell’ottimo tè. Mi raccontano le loro storie, di bambini, emigrati 10 anni fa, quando ne avevano 15, animati dal desiderio di un “futuro” diverso, migliore. Emigrati per necessità, ma anche abbagliati dalle storie dei rispettivi padri e di chi come loro tornava in Marocco durante le feste sfoggiando regali e abiti “made in Italy”, facendoli credere in un sogno di libertà e benessere.

Ciò che sembra caratterizzare la cultura dell’esilio a Khouribga è la sua pervasività, la sua diffusione tra le diverse componenti della società: coinvolge gli adulti, ma anche i minori, coinvolge gli uomini e in qualche caso anche le giovani donne. La “cultura dell’esilio” (Capello, 2008), o almeno alcune dimensioni di questo repertorio di significati condivisi, si è diffusa all’interno dello spazio sociale cittadino, fino a trasformare la città dell’oro bianco, la Ville OCP, che ruotava intorno alle miniere e da esse traeva la sua linfa vitale, nella città harrraga, degli zmagria, le cui rimesse sono ormai la principale fonte di ricchezza.

Per comprendere appieno le matrici dell’immigrazioni occorre considerare due dimensioni, l’una concreta, di matrice geopolitica, l’altra astratta (ma non meno “pratica”) di natura ideativa: la prima fa riferimento ad egemonie economiche e politiche, con le correnti di beni e prodotti che vengono risalite da soggetti alla ricerca di alternative a sistemi vissuti come chiusi e socialmente immobili; la seconda fa riferimento a fattori psicologici e culturali (rappresentazioni di sé e dell’altro) che si strutturano reciprocamente a partire da ciò che si dice (da ciò che si può dire) dell’Occidente e delle forme del suo benessere percepito. Entrambi questi presupposti, va sottolineato, relegano chi decide di emigrare in una condizione di svantaggio sistemico: il primo crea premesse per una subordinazione ad un lavoro “a qualunque costo”, il secondo fa di chi parte un soggetto che “sceglie” sempre condizioni di razionalità limitata. Limitata perché nessuno sa realmente cosa lo aspetti, dal momento che le attese sono mediate da immagini e stereotipi non falsificabili e perché le informazioni sui percorsi migratori più comuni sono sempre sistematicamente occultate. Per comprenderne le radici è necessario prendere in considerazione il significato che gli stessi attori sociali attribuiscono alle proprie condizioni di vita da un lato e all’opzione migratoria dall’altro.

Un dato è sicuramente l’effetto alone che si crea a partire dalle figurazioni vincenti che l’industria delle immagini importa, di cui parleremo successivamente; ora dobbiamo concentrarci sulla sorprendente collusione, che si crea con queste rappresentazioni “a senso unico”, a partire da quello che i migrati stessi dicono o fanno intendere dei luoghi di accoglienza. Un dato pressoché onnipresente nei racconti dei migranti è costituito dalla sensazione di “non dire tutto” o di “non poter dire tutto” durante i rientri in patria per le vacanze o durante i contatti telefonici con la famiglia.

Va considerato che il minore, così come l’adulto, ha l’obbligo del “successo”, che si esprime nei confronti di se stesso e in relazione alle attese della sua famiglia e del suo gruppo sociale. Sulle spalle del minore grava infatti una responsabilità che va ben

oltre la dimensione puramente individuale, essendo egli affidatario di un mandato collettivo che lo vede implicato nei confronti del suo gruppo di riferimento in quanto “forma di investimento” (psicologico e marcatamente economico) per tutti quelli che restano. Tale obbligo è quello che fa sì che si istituisca, fra l’emigrante e i suoi familiari, quel tacito accordo sul vincolo a “non dire” per il primo e sul corrispettivo impegno “a non credere” per i secondi (Sayad, 2002).

Ecco cosa emerge dalla conversazione tra i miei due interlocutori:

A. Io vedevo miei amici che venivano qui estate con macchine grosse, con i soldi e spendevano tutti soldi in giro tutto giorno. Poi mio padre diceva che vita in Italia era così, tutti in Marocco dicono che vita in Italia è così. Ma vita in Italia non è così. Nessuno crede, se racconti una cosa diversa.

M. Anch’io quando ritorno al Paese che vuoi che dica? Anche se dico di mio lavoro e tutte le altre cose, nessuno vuole sentire. Qui tutti vogliono credere che l’Europa è il Paradiso. E poi vuoi che racconto? Noi facciamo una vita di merda in Italia e tutto per due soldi. Nessuno può credere, vuole credere, a volte non ci credo neanche io.

I minori intervistati a Roma confermano quanto detto dai miei interlocutori e, data la tenera età, aggiungono che un motivo in più per non raccontare la verità risiede nella paura di far preoccupare la famiglia rimasta a casa o nell’impossibilità di smentire i racconti sciorinati dai propri amici, connazionali o dagli stessi parenti con cui convivono.

Mia madre chiedeva sempre come sto io a miei zii e loro dicevano: bene, bene. Io posso dire: male, male!! Non posso dire cose diverse perché lei crede a loro.

Cosa altro posso dire a mia famiglia? Posso dire a mia madre: no, sto male, Italia fa schifo? Mia madre muore di infarto se io dico che sto male. Si sentirebbe troppo in colpa. E forse direbbe di tornare, ma io non posso.

Su chi perde, infatti, pesa l’onta della sconfitta in quanto la responsabilità dell’insuccesso è tutta personale: non è il contesto di approdo ad essere insostenibile, con le sue regole marginalizzanti e con le sue disorientanti contraddizioni, ma l’immigrato ad essere colpevole. Su di lui gravano i sospetti di inadeguatezza, le paure di malattia e, ultima e insopportabile accusa, i dubbi del tradimento. Secondo Ali:

Qua la gente vede dei marocchini tornare con delle grandi macchine e pensa che sia semplice. Ancora oggi i miei amici mi dicono che sono stato fuori tanto tempo e non ho combinato niente, che se fossero stati al mio posto adesso sarebbero ricchi, uomini importanti. Io racconto loro che in Europa le cose non vanno come pensano; arricchirsi non è facile, è una vita dura e nessuno ti aiuta.

Quando le sempre più rade telefonate alla famiglia trascorrono in giustificazioni per il ritardo delle rimesse, ma soprattutto quando i confronti dei familiari con gli altri connazionali, parenti o conoscenti, si fanno stringenti, allora il senso di incapacità e inadeguatezza affiora attraverso le forme del disagio e del malessere o si concretizzano nella devianza. Continua Ali:

Molti fanno si mettono a spacciare senza farsi tante domande. Ti trovi nel giro senza rendertene tanto conto, e va bene finché dura... Per me vendere quella roba era come salvare mia vita, mia faccia davanti amici, famiglia mia. Spacciavo per dare soldi loro perché tutti dicono che Italia è facile lavoro e facile guadagno. La colpa se non riesci è tua, magari perché loro dice che noi facciamo altro. Magari perché dimentichiamo loro. L’emigrazione è la nostra speranza. Noi da quando siamo nati che sappiamo di emigrare. Senza emigrazione, noi moriremmo in Marocco. Tutti credono nell’emigrazione, è come la fede.

Dietro l’affermazione di Ali “Tutti credono nell’emigrazione, è come la fede” emerge un punto importante: chi è rimasto non può credere che il futuro sia diverso, che la propria unica possibilità di riscatto da una vita contrassegnata dalla povertà e dal disagio sia solo “polvere”, “diceria”. Sull’emigrazione si gioca la sopravvivenza di intere famiglie, i sogni e le speranze dei giovani, il futuro del paese stesso.