Grafico 1. Alunni con cittadinanza non italiana per alcuni Paesi di Provenienza Anno scolastico 2007/
14. CAPITOLO 5: TRA ITALIA E MAROCCO
14.10 Note metodologiche
Obiettivo della ricerca è stato quello di tentare di cogliere il vissuto dei ragazzi rispetto alla migrazione, le modalità del loro inserimento nel circuito assistito, l’efficacia delle risposte ricevute in termini di trattamento dalle nostre istituzioni rispetto ai bisogni espressi; i tentativi di costruzione della loro identità – quella di adolescenti che si trovano a vivere sui confini - e la sfera dei consumi e degli stili di vita così come rimodulata dal processo migratorio. Immergersi nell’universo motivazionale che li spinge alla partenza ha significato ripercorrere le linee del loro viaggio tanto in senso fisico, verso l’esterno, ricostruendo cioè il loro storico dal paese di partenza a quello di arrivo, quanto sotto il profilo “emotivo”, verso cioè l’interno del loro sentire. Si tratta infatti di giovani che rompono gli schemi tanto al di qua che al di là del confine e in questo processo di ridefinizione è coinvolta anche la strutturazione della loro identità.
Posti tali obiettivi, è stato evidente fin dal principio della ricerca, che uno dei nodi fondamentali fosse proprio quello di accostare dei minori e rendere quindi un’etnografia dell’infanzia senza correre il rischio di semplificare, spesso banalizzandolo, il loro punto di vista e/o procedere sulla scorta di preconcetti e pregiudizi che gli sono convenzionalmente attribuiti.
Il vizio che sottende questo punto di vista si riallaccia a quei filoni di ricerca che finora hanno visto nel minore una “propaggini di soggettività adulte”, privandolo di un proprio status specifico (Theis, 2001, p.100). Un vizio da cui neanche l’antropologia, da sempre considerata “la scienza dell’altro” e della “differenza” (Callari Galli, 1994), risulta esente. Le stesse monografie antropologiche sull’infanzia e l’adolescenza finora prodotte hanno visto i minori per lo più protagonisti di quei rituali e cerimoniali che segnano i momenti di passaggio verso la condizione adulta ovvero l’entrata nel gruppo di coloro che rappresentano normalmente gli interlocutori privilegiati di un’indagine antropologica convenzionale (Bindi, 2007). Il monito di Margaret Mead (cfr. Mead, 1933, p.1) secondo la quale “the anthropologists should expand the questions all good ethnographers ask and include the study of child behaviour in their rubric of investigation”, dimenticato per lungo tempo, sembra allora tornare di particolare attualità ai nostri giorni.
É chiaro che ribaltare il punto di vista della ricerca, dando diritto di ascolto e di parola ai minori, comporti diverse difficoltà metodologiche e quindi una trasformazione delle convenzionali tecniche di indagine utilizzate (Theis, 2001). Quando si parla di minori, in particolare di minori stranieri, la diffrazione del flusso comunicativo è infatti duplice: allo scarto culturale che è alla base di ogni ricerca antropologica e che ne rappresenta la sua stessa matrice, si aggiunge quello di tipo generazionale che distorce ulteriormente la comunicazione tra i due soggetti della relazione etnografica (Bindi, 2007). Alle comuni metodologie demoetnoantropologiche - basate sul dialogo, l’interazione tra ricercatori e testimoni privilegiati e – come nella lectio dei padri fondatori e dell’etnologia “classica” (cfr. Rosaldo, 2003) – sull’osservazione partecipante – si impone, quindi, nel caso di ricerche svolte con bambini e adolescenti, una trasformazione dell’approccio relazionale, un grado di empatia e di scambio così intenso con i minori oggetto della ricerca tale da rendere possibile superare il fossato tra la propria mentalità di adulto, il proprio mondo adulto e le forme di vita infantili (Bindi, 2007 p. 202). Anziché quindi semplificare le formule delle nostre domande, occorre più
propriamente ripensarle. I bambini e i ragazzi, infatti, non semplificano cose pensate in modo più complesso dagli adulti, le pensano, piuttosto, in modi diversi.
In secondo luogo la precipua natura transnazionale dei fenomeni indagati di essere, come più volte ribadito, “transnazionali” ha richiesto una ricerca di campo multisituata (Marcus G.E., 2000). In accordo cioè con quanto esposto da uno dei suoi pionieri, Marcus (2000), si è ritenuto che solo una ricerca “de territorializzata” e “multivocale” potesse essere in grado oggi di rispondere alla complessità dei fenomeni contemporanei. Le trasformazioni generate dalla globalizzazione: l’espansione del capitale, il fluire di merci e di immagini oltre “confine” e certamente i fenomeni di migrazioni di massa impongono di indagare il fenomeno migratorio dei minori non accompagnati da più punti di vista e da più luoghi del “sistema - mondo” (Capello, 2008, p. 24).
Lo studio di campo condotto nella città di Roma e durato circa de anni (dal 2006 al 2008) è stato integrato da due viaggi in Marocco, e precisamente a Khourigba, città di provenienza dei miei interlocutori. Il primo viaggio è avvenuto nel 2006, grazie alla disponibilità offertami da uno stretto amico di un mio collega di lavoro conosciuto alcuni anni prima in Sicilia – durante una missione di MSF - in occasione di uno dei numerosi sbarchi dei migranti sulle nostre coste; il secondo viaggio ha avuto invece luogo nel 2008: in occasione del rientro a casa per le “‘vacanze” di un giovane ragazzo ospite al momento presso una comunità di accoglienza di Roma, ma conosciuto molti anni prima durante la medesima missione di lavoro.
Sayad (2002) ha mostrato bene come il solo fatto di essere ascoltati inneschi nei propri interlocutori una presa di coscienza della propria condizione e la stipula implicita di un “patto autobiografico” fondamentale per il fiorire della discorsività etnografica e del dialogo. Entrambe le permanenze sono state rese possibili grazie alla forza e alla fiducia delle relazioni intessute in Italia con i ragazzi e i loro mediatori durante alcuni periodi di permanenza nelle scuole e nelle comunità di accoglienza dove erano ospiti.
Avere avuto la possibilità di seguire i miei interlocutori attraverso i “confini”, fin dentro i loro focolari domestici mi ha consentito di assaporare dal di dentro quella parte di vissuto in Italia non “accessibile” e non “trasmissibile”. Quel Marocco fatto di suoni, di odori, di colori che la sola parola non può restituire e di calarmi in quei ricordi di infanzia e di vita quotidiana, bagaglio imprescindibile di ogni immigrato che è (ed è stato) ancor prima un emigrato. Dato il breve tempo a disposizione dei soggiorni in Marocco, la ricerca è stata focalizzata su temi specifici previamente individuati. Durante il primo viaggio, l’attenzione si è concentrata sulle seguenti aree: le ragioni della “partenza”, le attese, le aspettative, le immagini che alimentano il sogno chiamato “Europa”. Un’attenzione particolare è stata rivolta al “sentire” la vita familiare in un contesto dove l’emigrazione è ragione di vita, cultura pervasiva in quanto storia del passato, alimento del presente, aspettativa per il futuro. Durante il secondo viaggio invece si è cercato di mirare l’analisi agli aspetti di scarto tra le aspettative di rientro e la realtà, alle difficoltà della re- integrazione seppur nel breve periodo, ai gap culturali e generazionali che nel frattempo erano andati maturando. In entrambe le occasioni le traduzioni dei miei interlocutori sono state fondamentali.
Accanto al lavoro di campo “decentrato”, questa analisi si sviluppa sul terreno delle istituzioni di presa in carico e gestione sociale dei MSNA; attività facilitatami dall’aver collaborato per periodi alterni per alcune delle strutture del volontariato sociale e del III settore della città di Roma. Lo studio delle strategie di inclusione ed esclusione dei MSNA e l’efficacia delle politiche di accoglienza offerte da alcune delle
strutture pubbliche e del sociale dalla capitale ha comportato uno studio prevalentemente descrittivo- etnografico centrato su differenti piani di analisi e diversi attori. Il disegno della ricerca è chiaramente di tipo esplorativo e i metodi adoperati, di tipo qualitativi, sono stati chiaramente rivolti più a censire le possibili dimensioni soggettive e strutturali che non a determinarne frequenza e peso relativo.
L’analisi di sfondo ha richiesto lo studio della letteratura e della normativa in materia; una “mappatura del territorio” al fine di individuare gli attori chiave del sistema; la richiesta di poter intervistare i minori ospiti qualora si trattasse di comunità e la somministrazione di alcune interviste in profondità ai testimoni privilegiati per cogliere i punti salienti del tema per poter indirizzare la ricerca. I minori intervistati a Roma sono quelli ospiti delle strutture della prima e seconda accoglienza. Si è ben consapevoli che il punto di osservazione non permette di analizzare il fenomeno nella sua completezza, ma soltanto quella parte dell’universo indagato che viene intercettato dal sistema: si tratta qui di verificare se i meccanismi di tutela posti in essere siano adeguati alla complessità della situazione ed alla molteplicità delle forme di disagio con le quali ci si trova ad interagire.
Le strutture che hanno partecipato alla ricerca sono: le case famiglia (“Mediterraneo”, “Virtus”, “Gemelli Diversi”, “In Famiglia”; “Borgo Armigò”) e i centri di pronta accoglienza (CPIM; Sacra Famiglia) per il volontariato sociale; il V Dipartimento, il Servizio Sociale Internazionale e il Comitato Minori Stranieri per il settore pubblico. In alcuni casi214, a seconda della disponibilità dell’ente, è stato possibile utilizzare quale strumento di indagine per brevi periodi l’osservazione partecipante. In questo senso, l’osservazione partecipante permette di affiancare i molti elementi di resistenza e di scarto che i bambini e adolescenti mostrano costantemente rispetto al modello egemonico- centrale; la ricombinazione continua e fantasiosa dei materiali culturali di base in forme inedite e alternative, il bricolage identitario in cui non esiste affatto solo conformità e obbedienza alla norma condivisa.
Le tecniche adottate sono comunque molteplici (osservazione partecipante, intervista in profondità e semi- strutturate, focus group, disegno, diario di campo) a seconda di ciò che richiedeva e consentiva la situazione e in relazione soprattutto al volere dei miei interlocutori. Certamente poi non sempre è stato facile battere i muri della tutela e così alcuni degli incontri sono stati mediati agli operatori loro responsabili e organizzati quindi compatibilmente con i loro orari, altri si sono svolti in presenza dei mediatori con analoghe problematicità di organizzazione, altri ancora nel tempo libero dei ragazzi e quindi fuori delle strutture. L’estrema mobilità sul territorio del fenomeno poi e i frequenti tentativi di fuga dalle strutture non hanno consentito di seguire un percorso “lineare”’: alcuni minori sono stati intervistati più e più volte, altri di rado, alcuni in momenti alterni in accordo evidentemente al proprio bisogno di tutelare la propria “intimità” da occhi esterni.
Come scrive l’antropologa Matilde Callari Galli (2000, p. 63):
per seguire la molteplicità dei luoghi e delle forme in cui si manifesta il problema che si intende ricostruire, narrare, presentare al pubblico, l’osservazione partecipante rimane sempre lo strumento basilare per la ricerca antropologica, ma gli “informatori” divengono gli interlocutori di un dialogo, gli allievi di un metodo, gli amici di una esperienza; i “testi” analizzati si moltiplicano: non più solo il racconto orale,
l’osservazione personale, ma gli articoli dei quotidiani, i “depliant” turistici, i documenti governativi, i discorsi politici, le trasmissioni televisive regionali, nazionali e internazionali, e all’osservazione partecipante se ne affiancano altre: a volte, più che di osservazione partecipante è corretto parlare dell’osservazione della partecipazione, cioè della relazione che ha prodotto la situazione di campo così allargata.
Interviste in profondità e interviste semi- strutturate sono state rivolte a responsabili di strutture pubbliche e del volontariato sociale, operatori sociali (assistenti sociali ed educatori) insegnanti delle scuole elementari, medie inferiori e dei corsi professionali a seconda se avessero o avessero avuto in classe ragazzi MSNA marocchini a mediatori culturali. Le interviste sono state condotte seguendo una griglia tracciata in via preliminare rispetto agli stessi incontri, ma in modo non rigido, piegando di volta in volta lo schema alle effettive esigenze della conversazione, assecondandone le digressioni, i richiami di argomento, le esposizioni di temi anche non strettamente pertinenti all'obiettivo della ricerca. Di fatto, le domande sono state sottoposte lasciando piuttosto libero l'intervistato di anticipare alcuni temi o di richiamarne altri già esposti; si è preferito far scaturire l'espressione degli argomenti dalla sequenza naturale della conversazione piuttosto che obbligare alla rigida alternanza dei turni di domanda e risposta. Talvolta la direzione della conversazione è stata garantita attraverso il monitoraggio del canale non verbale della comunicazione, confermando come, ad esempio, il silenzio di un ascoltatore attento e interessato sia più proficuo di un succedersi serrato di interrogativi specifici per massimizzare gli esiti dell'interazione.
Per quanto riguarda invece il coinvolgimento dei minori, la raccolta delle loro storie di vita ha consentito di indagare in profondità l’universo motivazionale, le implicazioni personali e relazionali delle loro “scelte”, gli elementi discriminanti e i punti di svolta dei percorsi adottati, i bisogni celati e mal riconosciuti di cui sono portatori in quanto “minori” e in quanto “stranieri”. Le loro storie, oltre ad aver fornito importanti spunti di riflessione sulle dinamiche dei flussi migratori, hanno avuto la funzione di cartine tornasole relativamente alla salute del sistema. La tecnica del focus groups, è stata spesso preferita all’intervista frontale, in quanto consente di cogliere maggiormente gli aspetti relazionali e dinamici e le interazioni tra i soggetti osservati, ed ha avuto anche il merito di ridurre le difficoltà connesse allo scarto tra ordini linguistici presente tra ricercatore e interlocutori. I minori sono stati sollecitati su argomenti di volta in volta diversi espresso si è ritenuto necessario l’utilizzo di storie- tipo o piccoli racconti di simulazione. In alcuni casi sono riuscita a registrare i dialoghi, in altri a prendere solo degli appunti, altre volte ancora a restituire quanto percepito durante il mio soggiorno solo attraverso le pagine del mio diario di bordo. Se comprensibile alla lettura il materiale è stato lasciato alla stato grezzo, altrimenti rielaborato da me o a volte dal mediatore linguistico - culturale se in lingua originale, come ad esempio le tracce dei loro diari. In alcuni casi quando il gap linguistico e/o generazionali era troppo ampio ho preferito procedere chiedendo loro di fare un disegno sul tema oggetto di indagine, avendo poi cura di leggerlo e interpretarlo con le insegnanti e/o gli educatori di riferimento.
Questa riformulazione delle tecniche di indagine ha permesso di comprendere meglio i mondi dei bambini e degli adolescenti che di volta in volta si vanno incontrando e di pensare diversamente il rapporto che con essi intrattiene il mondo adulto e quello delle istituzioni in particolare.
Quella che propongo è consapevolmente una ricostruzione soggettiva, provvisoria e situata: è il risultato di una selezione e interpretazione inevitabilmente personale dei materiali e degli eventi concreti prodotti in un determinato contesto e in un preciso periodo. Ciò non significa comunque che una ricostruzione di questo tipo sia arbitraria o che rinunci a descrivere una realtà del mondo sociale; seguendo esempi autorevoli ho preferito dare spazio alle esperienze concrete alle voci che le hanno raccontate. E riconoscere diritto di parola – nel senso profondo in cui lo si usava in precedenza – e di ascolto dell’infanzia e dell’adolescenza significa fare un passo importante in avanti nella comprensione della loro soggettività, allo stesso modo in cui per lungo tempo tale soggettività piena e autonoma è stata negata dagli studiosi occidentali ai nativi che pure essi si accingevano a studiare – ad esempio nel paradigma positivista – e che comparavano, non a caso, volentieri a “l’infanzia del mondo e della civiltà”.
Le conversazioni con i protagonisti hanno permesso, tra l'altro, di tracciare un quadro vivo, meno formale, sicuramente interessante delle problematiche dei MSNA sul territorio. Oltre a tenere conto del significato più strettamente informativo, non va sottovalutato che il sapere quotidiano, fatto di prime impressioni, aspettative, attribuzioni, giudizi di valore, ha, in verità, arricchito il bagaglio "ufficiale" di conoscenze sui servizi offerti ai mna da parte delle strutture sociali, fornendo suggestioni e, spunti di approfondimento utili e, talvolta, perfino inaspettati.
Dare parola ai minori ha consentito di spostare il cuore della questione “minori” dall’attenzione verso gli adulti responsabili ai diritti fondamentali del minore in quanto soggetto a sé stante. E ciò restituisce per la prima volta o dona nuovamente la parola e il diritto di ascolto a questi soggetti inascoltati. Il che ha consentito non solo di individuare gli aspetti di conformità e progressivo adattamento del soggetto minore agli standard culturali propri della sua comunità di appartenenza, ma anche gli elementi di distanza e riottosità agli aspetti meno graditi e più controversi della stessa (sistemi di repressione, ingiustizie, maltrattamenti, ecc).
Tutto ciò cercando di favorire strategie nuove di programmazione di uno sviluppo che sia pienamente partecipato e condiviso da tutti i soggetti coinvolti.
Nel complesso tra Novembre 2006 e Aprile 2009 sono stati incontrati 35 MSNA tra i 12 e i 18 anni, accolti in un primo momento dalle comunità di pronta accoglienza e successivamente affidati tramite provvedimento rilasciato dai servizi sociali o dal Tribunale dei minorenni alle comunità di seconda accoglienza. La maggior parte di loro, come si evincerà dalle seguenti interviste, sono arrivati in Italia accompagnati dal padre o da un parente molto stretto intorno ai 13- 14 anni.
Questi giovani si ripete non intendono costituire un campione rappresentativo dei MSNA in generale né di quelli marocchini. La loro scelta ha ragioni di esemplarità più che di riproducibilità statistica. Si ipotizza infatti che, in modo più esplicito che altri, possano evidenziare alcune tra le tendenze più significative della condizione sociale contemporanea per ciò che riguarda i processi di costruzione di linee di confine che consentono la “distinzione” e il “riconoscimento”. Si ipotizza che si trovino in un luogo sociale privilegiato per poter cogliere come si sviluppi e quali potenzialità abbia una prospettiva transnazionale e cosmopolita che vede i soggetti collocarsi in identificazioni e appartenenze aperte e negoziate entro un immaginario deterritorializzato e in movimento ma che rimane differenziato localmente in base ai contesti specifici di interazione e alle reti di appartenenza (Appadurai 2001).