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Capitolo 4. Dagli anni Novanta alla Prima Guerra Mondiale: dal ‘governo parlamentare’ al

4.2 La degenerazione del sistema: ‘il parlamentarismo’

4.2.1 I caratteri del ‘parlamentarismo’

‘Parlamentarismo’ nelle decadi precedenti era un’espressione sinonimica di ‘governo parlamentare’, ma ad oggi invece indica più specificamente una degenerazione del sistema politico: nella maggior parte dei casi una corruzione del ‘governo parlamentare’; talvolta addirittura la deformazione del ‘governo rappresentativo-costituzionale’. Si tratta di un lemma molto utilizzato in ambito “giornalistico” nel filone della “letteratura antiparlamentare”, che tende a rispecchiare il linguaggio più comune. Generalmente il lemma denota l’alterazione nell’equa distribuzione dei poteri tra gli organi dell’impianto costituzionale. Il “male” più citato del ‘parlamentarismo’ è l’”onnipotenza parlamentare”, legata ad una debolezza dell’Esecutivo (pronto però a rivalersi verso l’amministrazione e nel “controllo” delle elezioni), ma vengono evidenziati anche altri aspetti del problema, più o meno incidentali. Ciò non dipende solo dallo spettro delle posizioni politiche che tali osservatori occupano (dai liberali più o meno conservatori, ai socialisti, ai cattolici, fino ai nazionalisti), ma anche dallo sviluppo di alcuni ambiti di ricerca scientifica tipici del periodo (la psicologia collettiva, per esempio).

Presentiamo dunque, seguendo un criterio cronologico, una carrellata di mali e cause (e rimedi) che commentatori di varia estrazione legano al fenomeno degenerativo del ‘parlamentarismo’.

Secondo Lorenzo Ratto (1870-1937), alto burocrate ministeriale, avvocato e libero docente di filosofia del diritto, negli ultimi quaranta anni il trapasso degenerativo dal ‘governo parlamentare’ al ‘parlamentarismo’ è stato palese in molti Paesi europei, tra cui l’Inghilterra, la Francia e ovviamente l’Italia.

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puramente costituzionale alla parlamentare è difficile revocarlo, ed è ben’anco difficile ostacolare la tendenza ad annullare le prerogative della corona. Però lo squisito senso politico degli inglesi neutralizza gli effetti dannosi del parlamentarismo»1), ma in Francia, «data la forma repubblicana, il governo di gabinetto è entrato con maggiore facilità nella china del parlamentarismo»2. Addirittura in Italia «il sistema parlamentare si corruppe troppo presto per l’insano spirito di imitazione dei governi esteri, e il parlamentarismo si è accentuato col regno di Umberto»3.

Per l’autore il tratto che contraddistingue il ‘parlamentarismo’ è la crisi della rappresentanza: essa «attraversa ora un periodo di transizione e di degenerazione a un tempo»4. Si registra uno scollamento tra le opinioni che sussistono fuori del Parlamento e ciò che invece i deputati effettivamente rappresentano tra gli scranni di Montecitorio:

« Nel Parlamento non si riproduce affatto la lotta dei partiti nazionali, ma soltanto si discute tra ministeriali e oppositori sul programma di governo. I rappresentanti non si dividono in partiti, ma in gruppi più o meno favorevoli al Governo e più o meno contrarii. E’ falso quindi identificare i così detti partiti parlamentari coi veri partiti nazionali.»5.

Come se non bastasse, nessuno dei partiti parlamentari è abbastanza grande da poter supportare l’azione governativa, anzi nel ramo rappresentativo del Parlamento si trovano moltissimi gruppi pulviscolari. Di conseguenza si vengono a creare sempre più «gabinetti di coalizione»: in poche parole la crisi della rappresentanza porta inevitabilmente al trasformismo. Deputati, con idee molto diverse, che non riescono comunque a rappresentare le vere tendenze politiche del paese, si uniscono in aula “in maniera trasversale” e appoggiano o contrastano il Ministero. Il Gabinetto si trova in balia di maggioranze eterogenee e più che tentare di realizzare un suo programma, può cercare di realizzare solo il programma che la maggioranza raffazzonata che lo supporta gli consente. L’articolo di Ratto termina con un’apertura verso le istituzioni tedesche, a cui l’Italia potrebbe ispirarsi.

In Germania, a fronte di una forte autorità regia, non essendoci un rapporto di fiducia tra Esecutivo e Legislativo, il Gabinetto si presenta più forte in quanto «al disopra dei partiti»: ciò gli permette di essere naturalmente in linea con le istanze che provengono dall’opinione pubblica e soprattutto di varare un suo programma su cui le forze dell’assemblea potranno convergere oppure no, ma senza per questo essere costretto a scendere a patti compromettenti con loro per rimanere in carica.

Secondo l’avvocato Raffaello Ricci, il tratto distintivo del ‘parlamentarismo’ è ancora la prevalenza del Parlamento ed in particolare della Camera elettiva:

«La decadenza del nostro Parlamento non appare al paese come un problema morale e politico soltanto; ma come la causa prima delle sue miserie, essendosi accentrato in esso ogni potere, e starei per dire la vita stessa della nazione, negli ordinamenti economici ed amministrativi, sociali e politici. Il Parlamento si sente dappertutto, e pur troppo non con suo vantaggio, né con vantaggio della nazione, la quale se un torto ha, non consiste nel gridare contro il parlamentarismo, ma nel non rinvenire in sé

1 L. Ratto, Rapporto tra i partiti politici e la rappresentanza, in «Antologia giuridica», 7(1894), pag. 131. 2 Ivi, pag. 136. 3 Ivi, pag. 137. 4 Ivi, pag. 121. 5 Ivi, pag. 124.

152 stessa l’energia sufficiente a porvi rimedio.»1.

Il prevalere della camera elettiva nel sistema istituzionale costituisce per Ricci il sintomo evidente della decadenza della vita italiana. Tale tendenza è stata favorita da tre fattori: la mancanza di una vera questione dirimente nel corso della storia costituzionale italiana che abbia conferito legittimità al Parlamento; il prevalere della tendenza sociologica nel Diritto costituzionale, secondo cui la forma di governo non è oggetto di scelta, non avrebbe contrastato l’affermarsi della forma parlamentare a scapito di quella costituzionale prevista dallo Statuto2; la «mancanza di omogeneità» del popolo avrebbe contribuito a far prevalere il particolarismo e il regionalismo nella lotta politica sia fuori che dentro il Parlamento a scapito dei veri interessi nazionali.

Le conseguenze della degenerazione in corso sono sotto gli occhi di tutti: da una parte l’onnipotenza parlamentare ha condotto ad una funzione legislativa «turbolenta», che produce leggi «affrettate, confuse, imprecise e campate in aria», invece dal punto di vista del potere esecutivo, «il parlamentarismo ha condotto ad un governo, ora debole, ora arbitrario»3: «le crisi ministeriali troppo frequenti non sono che dannose al potere governativo, perché gli tolgono continuità, stabilità e tranquillità, e ne dirigono l’azione più al soddisfacimento degli appetiti di una maggioranza fluttuante ed ingorda, che al bene generale del paese. Scaduto ogni sentimento di responsabilità, e perdutasi qualunque tendenza al generale, il governo, il quale, secondo il sistema presente, deve curarsi più della fiducia della Camera che di quella della Corona, è inevitabilmente condotto a sacrificare alle tumultuose e imprecise discussioni parlamentari ogni sua vigoria, ogni suo indirizzo deciso, ed ora a non poter nulla, ora a strapotere, secondo le spinte che riceve dal Parlamento; e nella stessa guisa, che non conosce più il punto, a cui si debbono fermare le sue concessioni alle esigenze parlamentari, ignora i confini legittimi del suo potere, quando è sicuro di una maggioranza compiacente.»4.

Alle esorbitanze della Camera corrispondono dunque le esorbitanze del Ministero: in particolare è nel momento delle elezioni che il governo «piglia la rivincita sui deputati»5: la corruzione elettorale è uno spettacolo dilagante e il Governo, con metodi torbidi e talvolta violenti, è pronto a supportare i candidati che si dichiarano “ministeriali” e ad ostacolare gli oppositori. Inoltre, dopo l’elezione, la corruzione acquisterà un carattere anche amministrativo proseguendo nelle «anticamere dei ministeri», dove i deputati, in veste di questuanti, «patrocinano gli interessi dei collegi elettorali» in cui sono stati eletti.

1

R. Ricci, Parlamentarismo italiano, in «La Rassegna Nazionale», 17 (1895), vol. 84, pag. 516.

2 A proposito del passaggio della forma di governo, scrive Ricci a pag. 511 dell’articolo: «Il nostro diritto pubblico, tutt’altro che chiaro e completo anche oggi, aiutò il governo costituzionale a pervertirsi, creando una situazione, nella quale, non dico l’equilibrio meccanico dei pubblici poteri, ma gli stessi limiti giuridici di questi poteri, erano lasciati in piena balia del senno politico dei governanti. Ora, sino a quando di quest’immensa libertà usò, e sempre con prudenza, la Corona o il ministero, per compiere l’unità, nessuno si avvide, o credette opportuno rilevarle, delle lacune del nostro diritto pubblico; ma quando il Parlamento divenne strapotente, l’imperfezione del sistema si rivelò, tanto più che esso si adattava a un regime costituzionale, dove cioè la Corona rappresentasse parte principale nell’azione dei poteri pubblici, e non a un regime parlamentare. Ne venne, che la pratica costituzionale fu diversa da quanto stabiliva la legge, e questa rimase lettera morta, e quella si svolse libera dalle leggi, perché nessuno pensò di formarle adatte alle mutate condizioni di fatto.».

3

Ivi, pag. 517. 4 Ivi, pag. 516. 5

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Mentre Lorenzo Ratto aveva legato il ‘parlamentarismo’ alla più vasta crisi della rappresentanza, Raffaello Ricci ci presenta quella che potremmo definire la vulgata “classica” a proposito del ‘parlamentarismo’, ovvero ci presenta un regime degenerato dove i poteri dei vari organi non sono più in equilibrio. Il processo degenerativo è cominciato con l’”appropriazione indebita” di numerosi poteri da parte della Camera elettiva che poi si è riverberata sul Gabinetto: quest’ultimo nella maggior parte dei casi si presenta come subordinato alla maggioranza dell’assemblea e alla sua linea politica, ma qualora (raramente) sia in grado di dominarla, la può sfruttare a suo vantaggio, diventando esso stesso molto potente e comportandosi addirittura in maniera arbitraria. La potenza del Ministero, nata come conseguenza dell’onnipotenza parlamentare, si manifesta sia nei confronti dell’amministrazione, sia nel momento della lotta elettorale.

Francesco Nobili Vitelleschi (1829 - 1906), senatore conservatore di tendenze filo-cattoliche di origini romane, mette invece in relazione il ‘parlamentarismo’ con l’allargamento del suffragio e lo statalismo accentratore. Secondo l’autore il ‘parlamentarismo’ è una forma degenerata del regime costituzionale.

Il secondo si caratterizza per un suffragio ristretto, per una rappresentanza di interessi di tipo corporativo e per un forte antistatalismo. Nel regime vigente oggi in Italia, cioè il ‘parlamentarismo’, ad un «discredito crescente delle istituzioni» e una «indifferenza sempre crescente a loro riguardo», va aggiunta una non equa distribuzione dei tre poteri e due fattori ben più gravi, come un eccessivo statalismo e un suffragio troppo largo:

« Quanto più si accrescono le ingerenze dello Stato e quanto più si estende il numero di coloro che hanno il voto, tanto più si accentuano questi vizi costituzionali del parlamentarismo, il quale si distingue da quel che si chiama il regime costituzionale principalmente per queste due qualità, cioè l’abbandono del concetto delle rappresentanze degl’ interessi in favore del suffragio illimitato fino a divenire universale e per l’ingerenza egualmente illimitata dello Stato in tutte le manifestazioni della vita sociale. L’inconciliabilità di queste due qualità è la causa principale e prima dell’insuccesso di questa ibrida forma.»1.

Nella ricostruzione di Nobili-Vitelleschi la camera elettiva è prepotente ma discreditata («non è più possibile tenerla riunita senza che si sollevino scandali e tempeste che impediscono il suo funzionamento e il sereno svolgimento della vita nazionale»2) e i Governi «sono costretti a vivere una vita stentata, a forza di compromessi e di concessioni, non di rado a carico dei veri interessi della nazione, il più sovente a carico della pubblica finanza»3. Come soluzioni al male del ‘parlamentarismo’ l’autore non suggerisce una limitazione del suffragio (esso andrebbe contro l’idea dominante del secolo, cioè la sovranità popolare), ma la riduzione delle funzioni statali affiancate da opportune forme di decentramento.

Particolare attenzione riceve nel 1895 l’opuscolo Contro il parlamentarismo, scritto dal sociologo, psicologo e irredentista bresciano Scipio Sighele (1868-1913). Influenzato dallo sviluppo della psicologia delle folle e dalla psicologia collettiva, portate alla ribalta da Cesare Lombroso in Italia e da Gabriel Tarde e Max Nordau in Francia, Sighele mette direttamente in connessione il ‘parlamentarismo’ con la crisi dell’individualismo.

Secondo l’autore ogni azione umana, in Economia, Politica, Morale o Diritto, non è più il

1

F. Nobili Vitelleschi, Del parlamentarismo in Italia, in «Nuova Antologia», 140 (1895), pag. 630. 2 Ivi, pag. 636

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prodotto della persona singola, ma della collettività umana, una collettività disomogenea e non organizzata, in sostanza una folla. L’individuo dunque non è più “arbitro del suo destino”, ma inevitabilmente l’ambiente nel quale agisce lo condiziona sensibilmente nelle sue scelte1. Questo assunto di base può essere applicato anche alla vita politico-costituzionale italiana ed in particolare a ciò che accade tra gli scranni di Montecitorio.

Per Sighele le decisioni prese a maggioranza da una collettività (anche se essa fosse costituita da geni e da persone eruditissime) risulterebbero sempre sub-ottimali rispetto alle decisioni prese dai singoli individui. Questo a causa della ineluttabile legge naturale: «Unirsi nel mondo umano vuol dire peggiorarsi».

Ecco dunque spiegata l’incapacità della Camera elettiva di produrre buone norme.

Inoltre ad aggravare la situazione contribuisce il fatto che i deputati eletti non sono che personaggi mediocri e che si sono fatti eleggere solo grazie a «suggestioni» psicologiche usate a proposito, ovvero l’arte oratoria mendace e l’uso partigiano della stampa. I condizionamenti della psicologia collettiva non avvengono solo a monte dell’elezione, influenzando l’elettore, ma sono tipici anche delle dinamiche interne dell’assemblea. Qui:

«Una parola, un gesto, un atto qualsiasi, mutano repentinamente le tendenze di un’assemblea come di una folla: il contagio fulmineo di un’emozione cambia in un momento il parere di tutti, come una folata di vento che curvi tutte da un lato le cime di un campo di biade: e quindi, oltre all’abbassamento del livello intellettuale, un’assemblea può andar soggetta ad un istantaneo traviamento intellettuale: dare cioè dei risultati non soltanto di valore minore di quello che darebbe ognuno dei suoi membri, ma altresì un valore totalmente diverso.»2.

E ancora:

« La seduzione d’una frase felice, la pressione di qualche giornale, la necessità momentanea di non scontentar gli avversari, mille motivi estranei all’oggetto vero della discussione, possono far adottare un primo emendamento. Il giorno dopo, dei motivi d’altro ordine, ne fanno accogliere un secondo spesso contradditorio al primo, e votato da deputati assenti il giorno innanzi e non al corrente perciò della discussione. E così di seguito, fino al momento in cui la legge non sarà che un insieme confuso di articoli eterogenei, un mostro dinanzi al quale la Camera si spaventerà e ch’essa rimanderà nel nulla.»3. Insomma, conclude il Sighele, «la Camera è psicologicamente una femmina e spesso anche una femmina isterica»4.

Stando così le cose, quali sono i rimedi che Sighele propone?

La logica vorrebbe che se «ogni gruppo di uomini è moralmente e intellettualmente inferiore agli elementi che lo compongono», si dovrebbe abbandonare ogni tipo di forma rappresentativa. Per l’autore non è necessario tornare «alla tirannia personale e dispotica», ma sembra opportuno diminuire il numero dei deputati. In tal modo verranno scelti veramente i migliori («limitando il numero è difficile che rimangano fuori i buoni, ed è invece facile, per

1

Per approfondire si veda L. Mangoni, Una crisi di fine secolo: la cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino, Einaudi, 1985.

2

S. Sighele, Contro il parlamentarismo: saggio di psicologia collettiva, Milano, Treves, 1895, pag. 19. Il corsivo non è nostro.

3 Ivi, pag. 34. 4

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fortuna, che rimangano esclusi i cattivi»1) ed inoltre «si renderà finalmente possibile il pagare un’indennità ai deputati, obbligandoli a non fare che il deputato»2. Secondo Sighele lo stipendio non può che responsabilizzare i deputati, spingendoli finalmente ad abbandonare i propri affari e dedicandosi invece a tempo pieno ai problemi collettivi del Paese.

Naturalmente è necessario agire anche dalla parte dell’elettorato. Gli elettori non devono farsi abbindolare, «mandino in Parlamento chi ha mostrato d’aver doti politiche» e non solo chi ha dimostrato di avere ingegno: un poeta virtuoso non potrà mai diventare un ottimo deputato, anzi in questo caso il danno sarebbe doppio poiché «si crea un deputato mediocre, strappando all’arte o alla scienza un ottimo artista o un egregio scienziato»3.

L’opuscolo di Sighele crea un vivacissimo dibattito su riviste e periodici: per arricchire il nostro paragrafo citeremo le critiche di Leonida Bissolati e Francesco Ambrosoli.

Mentre le osservazioni che il socialista (di destra) Leonida Bissolati (1857-1920) rivolge a Sighele ci fanno capire la visione classista e materialista che i socialisti hanno del ‘parlamentarismo’, l’opuscolo del deputato, pubblicista e giornalista Francesco Ambrosoli (1854-1908) mostra il punto di vista di chi milita all’interno dello stesso Parlamento.

Secondo Bissolati le premesse delle tesi del famoso psicologo sono anti-positive e contraddittorie. Sono anti-positive perché la stessa legge «unirsi nel mondo vuol dire peggiorarsi» è anti-positiva. Al contrario secondo Bissolati (che cita Aristotele) è proprio unendosi che la società col passare del tempo ha potuto raggiungere il progresso.

La tesi dello scienziato risulta inoltre contradditoria in quanto non è lecito parlare di decadenza del Parlamento. Infatti, sin da quando sono nati, i Parlamenti sono sempre stati una riunione di molti. Per cui o hanno sempre funzionato bene, oppure hanno sempre funzionato male. Invece ammettere che l’istituto parlamentare sia in decadenza significa asserire che in realtà vi sia stato un periodo in cui funzionava bene e un periodo successivo in cui non funzionava affatto. Quindi delle due l’una:« o bisogna sostenere che i vizii del parlamentarismo sono stati comuni a tutta quanta la vita storica della istituzione parlamentare; o se si ammette che oggi soltanto si fa sentire la malefica influenza della “riunione dei molti”, è necessario dimostrare perché e come in altri tempi questa influenza sia stata parzialmente o totalmente paralizzata.»4. Successivamente Bissolati comincia a criticare la questione nel merito: in primis non è vero che la psicologia collettiva può essere utilizzata per spiegare dinamiche elettorali: gli elettori non vengono incantati con suggestioni oratorie e ammalianti articoli di giornale ma con armi ben più affilate, cioè la «corruzione e la pressione» a cui ricorrono ampiamente i partiti al potere. In secondo luogo nelle assemblee non prevalgono le idee ma gli interessi economici. Mentre effettivamente le idee potrebbero essere influenzate dall’agire degli altri, ciò non accade con gli interessi. Data la preminenza degli interessi in Parlamento è errato pensare che il comportamento del deputato, dettato da un interesse ben definito, sia influenzato dalla psicologia collettiva e dall’agire della massa. I deputati, non mutano i loro atteggiamenti, non cambiano le proprie opinioni neanche sentendo i discorsi altrui perché altrimenti non potrebbero più soddisfare determinate istanze. Per cui anche in questo caso le convinzioni di Sighele si rivelano sbagliate.

Cosa pensa dunque Bissolati del ‘parlamentarismo’? Esso è un meccanismo attraverso il quale 1 Ivi, pag. 51. 2 Ivi, pag. 52. 3 Ivi, pag. 51.

4 L. Bissolati, Pseudopositivismo: note all’opuscolo di S. Sighele “Contro il parlamentarismo” (I), in «Critica Sociale», anno V, 6, marzo 1895, pag. 87.

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si esplica la volontà della classe dominate: la borghesia. Il ‘parlamentarismo’ è sì corrotto da dinamiche esterne, sistemiche, che orientano l’agire dell’individuo, tuttavia tali dinamiche non si riscontrano nel comportamento della folla, come vorrebbe Sighele, ma nella predominanza della mentalità borghese. Il ‘parlamentarismo’ non è altro che:

« lo strumento degli interessi di una classe che vive della immoralità e che della immoralità si è foggiata un’arma a tutela dei propri barcollanti privilegi. *...+ I Tizio e i Cajo che, mercé la corruzione e la pressione, mandano al Parlamento i loro deputati, son gente che vive tuttodì di scrocco alle spalle della classe lavoratrice. Per tenere il loro comodo posto di parassiti, essi hanno bisogno della difesa politica. A ciò mandano in Parlamento - valendosi della propria immorale influenza - i loro avvocati e procuratori; i quali perciò hanno il mandato di tutelare a ogni costo il parassitismo dei loro mandatari. A questo criterio supremo vien quindi subordinata tutta l’azione del deputato.»1.

Paradossalmente il ‘parlamentarismo’2 non è in decadenza, anzi assolve benissimo alla sua «funzione storica» dal momento che attraverso di esso viene a galla quel «putridume» borghese che prevale nella società.

Compito dei socialisti, conclude Bissolati, è quello di sfruttare lo strumento della rappresentanza parlamentare, seppur imperfetta e con tutte le sue lacune, affinché anche i socialisti, una volta in parlamento, possano scalzare la classe borghese dominante.

Quella di Francesco Ambrosoli è una critica che parte invece dall’interno delle istituzioni, in quanto l’autore è egli stesso un deputato3, il quale si propone «di presentare proposte concrete di rimedii a mali così complessi, a mali così misteriosamente connessi alle condizioni

1 Ivi, pag. 105. 2

E’ opportuno notare che tutto il ragionamento di Bissolati, sebbene sia ricco di riferimenti ideologici e