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La concessione dello Statuto: la forma di governo tra linguaggio e modelli costituzional

Capitolo 2. Dal 1848 all’avvento della Sinistra Storica: dal ‘governo misto’ al ‘governo

2.1 La concessione dello Statuto: la forma di governo tra linguaggio e modelli costituzional

marzo 1848 con «lealtà di Re e con affetto di padre», come recita pomposamente il preambolo della nuova carta costituzionale. Esso corona tutta una serie di timide riforme politico- amministrative che erano state introdotte nel Regno di Sardegna nei mesi e negli anni precedenti, tuttavia, è bene sottolineare sin da subito che, memore dei moti del ’21 in cui era stato obtorto collo coinvolto, Carlo Alberto si mostra restio a compiere questo cambiamento epocale. La situazione internazionale agli inizi del 1848 sembra peggiorare rapidamente e sul sovrano vengono esercitate varie pressioni: a Genova scoppiano tumulti popolari contro i gesuiti che celano insoddisfazioni contro la dinastia regnante; sia il consiglio comunale torinese che la stampa della capitale (capeggiata da Cavour direttore de «Il Risorgimento») non nascondono le loro simpatie liberali; il 29 gennaio il Re delle Due Sicilie decide di concedere una costituzione, seguito a ruota dal Granduca di Toscana e addirittura dal sommo pontefice Pio IX; infine, il 25 febbraio, in Francia verrà proclamata la Seconda Repubblica. Carlo Alberto esita di fronte a tutto ciò, probabilmente pensa anche ad abdicare in favore del giovane figlio, ma alla fine si lascia convincere dai suoi ministri e dai suoi collaboratori più stretti: paradossalmente l’unico modo per mantenere lo status quo è fare delle concessioni, ottriando una carta costituzionale, magari ispirata al modello francese, che contenga principi rappresentativi. Si tratta di una decisione improcrastinabile, d’altra parte il tempismo in politica è tutto. Così lo incalza il primo ministro Borrelli riferendosi ad una futura Costituzione: «Bisogna darla, non lasciarsela imporre; dettare le condizioni, non riceverle; bisogna avere il tempo di scegliere con calma i modi e l’opportunità, dopo aver promesso di impiegarli»1. Il da farsi è presto deciso: aspettare troppo sarebbe deleterio dal momento che il vessillo della Repubblica e il labaro dell’Anarchia potrebbero presto sventolare sui pennoni del palazzo reale torinese. Perciò l’unico modo per resistere è anticipare i tempi: l’8 febbraio, dopo un Consiglio di Conferenza fiume durato sette ore e aperto sia ai ministri, sia ad altre eminenti personalità2, viene emanato un proclama che illustra in appena 14 stringati articoli i futuri principi del «governo rappresentativo» (parole del proclama) che sarà alla base del nascituro Statuto. Tra

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dal processo verbale della seduta del Consiglio di conferenza n. 6, tenuta il 3 febbraio 1848, in L. Ciaurro, Lo Statuto Albertino illustrato dai lavori preparatori, Roma, Dipartimento per l’ informazione e l’editoria, 1996, pag. 114. Nell’opera sono contenuti i processi verbali delle sedute del Consiglio di conferenza che vanno dal 16 settembre 1847 al 4 marzo 1848. Tali verbali sono integralmente tradotti in italiano dagli originali francesi da Marina de Marte, proprio in occasione della realizzazione del volume di Ciaurro (precedentemente se ne possedeva solo traduzioni parziali).

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Al Consiglio di conferenza del 7 febbraio, oltre ai 7 ministri, partecipano ben 10 eminenti personalità espressamente invitate dal sovrano. Tutti i componenti possono essere considerati dei moderati anche se tra loro vi sono coloro apertamente favorevoli alle riforme ( Alfieri di Sostegno), i tiepidamente favorevoli (Des Ambrois, Sclopis, Gallina), i dubbiosi o frenatori, ovvero coloro che ormai sono rassegnati ad accettare le istituzioni rappresentative per evitare eventuali moti rivoluzionari (Coller, Gromo, San Marzano, Broglia). Molto più significative delle presenze sono le assenze: il sovrano infatti non convoca esponenti delle due posizione più estreme. Spiccano così le assenze sia di esponenti apertamente contrari al regime rappresentativo, come il conte Solaro della Margherita, sia dei simpatizzanti liberali nelle personalità di Camillo di Cavour, Lorenzo Valerio, Giacomo Durando, rispettivamente direttori de «Il Risorgimento», «La Concordia», «L’Opinione».

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l’emanazione del proclama e la promulgazione della carta le sedute del Consiglio di Conferenza sono soltanto cinque, per cui la maggior parte dell’attività costituente viene svolta al di fuori di esso in riunioni informali a cui partecipano i ministri ma non il monarca e che presumibilmente vengono tenute ogni due giorni circa: di esse non abbiamo resoconti ufficiali1.

Lo Statuto Albertino viene pubblicato ufficialmente il 5 marzo 1848, a Torino in italiano e a Chambéry nell’originale francese. L’accoglienza è piuttosto tiepida, per non dire fredda. E’ la compagine liberale, per di più esclusa dalla fase costituente, quella che rimane più delusa, tanto che il 10 marzo Cavour è costretto a scrivere un breve articolo sul suo giornale per calmare le acque2. Nell’apologia cavouriana lo Statuto racchiude «tutti i più grandi principi delle libere istituzioni», come per esempio il principio elettivo. Per cui non deve spaventare la parola IRREVOCABILE, scritta nel preambolo della carta: ciò significa che d’ora in avanti in Piemonte, come del resto in Inghilterra, sarà in vigore la cosiddetta onnipotenza parlamentare, ovvero il Re non potrà apportare modifiche allo Statuto di sua spontanea iniziativa, ma solo con l’approvazione della Nazione stessa, impersonata, o meglio rappresentata, dai membri del Parlamento, in virtù di una sorta di “patto” che ormai il Sovrano ha sottoscritto con il popolo. Cavour dunque apprezza quanto è stato fatto finora, ma non nega la possibilità che in futuro si potranno apportare dei «miglioramenti».

Cambiamenti dunque, ma riguardo a quale aspetto dello Statuto?

Come ammette Paolo Colombo3, sul banco degli imputati non può che finire la forma di governo tratteggiata dallo Statuto stesso. Infatti se Cavour nel suo articolo si dimostra un attento conoscitore della realtà inglese, tirando in ballo un concetto vetusto e raffinato come quello dell’onnipotenza parlamentare (direttamente discendente dal King in Parliament), di certo avrebbe gradito maggiore precisione nella definizione della forma di governo, magari specificando proprio la natura del rapporto tra il Re ed i ministri.

Ecco il nocciolo della questione che ci interessa dipanare, sia dal punto di vista sostanziale che dal punto di vista lessicale: la forma di governo statutaria.

Rispetto alla descrizione della forma di governo, il testo albertino si dimostra scarno e conciso, in quanto essa è desumibile da pochi articoli. Il verbo ‘desumere’ non è impiegato a caso, poiché gli articoli descrivono il minimo indispensabile e il lettore deve usare ago e filo per ricucire intuitivamente le varie disposizioni e desumerne per l’appunto un quadro completo. Nonostante ciò, a mio modo di vedere, risulta apprezzabile il tentativo definitorio dei costituenti che all’art. 2 stabiliscono che «Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo», tuttavia molto più fumoso si rivela l’effettivo funzionamento dell’impianto costituzionale. Infatti a fronte di un sovrano, dotato di ampie prerogative, che partecipa al potere legislativo insieme alla Camera dei Deputati e al Senato (art. 3) attraverso la sanzione e la promulgazione delle leggi (art. 7) e che detiene esclusivamente il potere esecutivo (art. 5), è chiaro che quest’ultimo verrà esercitato non da lui in prima persona in quanto irresponsabile, ma da ministri, costoro definiti sì responsabili (art. 67), e che il sovrano stesso potrà nominare e revocare ai sensi dell’articolo 65. Inoltre, ai sensi dell’articolo 9, al sovrano è permesso anche di sciogliere la camera dei Deputati purché ne venga convocata un’altra nel termine di quattro mesi.

1 P. Colombo, Con lealtà di re e con affetto di padre : Torino, 4 marzo 1848: la concessione dello Statuto albertino, Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 101.

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C. Cavour, Contro i critici malevoli dello Statuto, in «Il Risorgimento», anno I, 10 marzo 1848, n. 63, in G. Falco, Lo Statuto albertino e la sua preparazione, Roma, Capriotti, 1945, pag. 305-308.

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Gli articoli statutari sono soggetti ad interpretazioni diverse perché non è specificato:

1) l’effettivo rapporto tra i ministri ed il Re : quest’ultimo è completamente libero nella scelta di quelli che diverranno a tutti gli effetti i suoi ministri, oppure egli per la nomina dovrà tener conto anche degli equilibri della camera rappresentativa, optando per quelle figure che godono sì della sua fiducia ma che contemporaneamente sono anche supportate dalla fiducia della maggioranza parlamentare?

Oltre a tacere importanti delucidazioni sul rapporto di fiducia tra Re e ministri, lo Statuto non fa neanche menzione di un organo collegiale costituito dagli stessi ministri, né tanto meno di una figura di primus inter pares o primus super pares che possa coordinare o dirigere i lavori di tale organo;

2) l’altra faccia della medaglia riguarda la questione della responsabilità. Ai sensi dell’art. 67 « i ministri sono responsabili » ma verso chi? Si tratta di un quesito strettamente connesso a quello precedente poiché non è specificato se essi siano responsabili solo verso il Re, solo verso il Parlamento, verso entrambe queste istituzioni oppure verso il popolo, questo sconosciuto. In più non è specificato se esista una sorta di responsabilità collettiva che l’intero gabinetto ha nei confronti di un determinato organo (Re o camera dei deputati) oppure se il rapporto fiduciario sia un rapporto “tra singoli” ovvero tra il singolo ministro ed il suo Re. Inoltre non è specificato di che tipo sia la responsabilità ministeriale. E’ facilmente intuibile che i ministri siano responsabili penalmente per gli eventuali abusi penali, civili e amministrativi che compiono mentre sono in carica. In questo caso (art. 47) la Camera dei Deputati ha il diritto di accusarli e di tradurli in giudizio dinanzi all’Alta corte di giustizia. Tuttavia ci si domanda se costoro siano anche responsabili politicamente per le scelte compiute, dato che, essendo il sovrano irresponsabile, devono controfirmarne ogni atto politico-amministrativo. Ed ancora, appurata questo tipo di responsabilità politica, verso chi si esplica ed eventualmente chi la sanzionerà?

Tali interrogativi afferiscono ad un campo concettuale che la scienza politica di stampo tardo novecentesco ha definito ‘forma di governo’. Con essa si analizza il modo in cui si distribuisce il potere politico fra i vari organi dell’ ordinamento costituzionale, tenendo ben presente quale organo detenga il potere di indirizzo, ovvero quel potere di dettare una linea di condotta politica che coinvolga l’intera comunità.

E’ alla luce di questi quadri concettuali contemporanei che ai nostri occhi la forma di governo che emerge dallo Statuto può sembrare ambigua. Infatti in un primo caso può essere considerato il Re l’organo prevalente dell’impalcatura istituzionale: è lui che sceglie i suoi ministri non tenendo conto delle maggioranze parlamentari. Questi ultimi sono solo responsabili politicamente nei suoi confronti: così, utilizzando un lessico a noi “vicino”, avremo una forma di governo ‘costituzionale pura’. Altrimenti se consideriamo che il potere di indirizzo sia dettato congiuntamente dal Re (tramite il Gabinetto) e dal Parlamento, si realizzerà un assetto politico in cui il Re nomina ministri coloro che godono sia della sua fiducia che di quella della maggioranza parlamentare e sono responsabili politicamente verso entrambi: avremo quella che più volte è stata definita una forma di governo ‘parlamentare dualistica’. Addirittura si può immaginare anche che il re non abbia nessuno spazio di manovra e nomini ministri coloro che in un certo qual senso “gli vengono imposti”, in quando forti della fiducia della maggioranza parlamentare: in questo caso avremo una ulteriore configurazione della forma di governo, che potremmo definire ‘parlamentare monistica’. In questa terza ipotesi i ministri sarebbero responsabili solo verso la maggioranza della camera dei rappresentanti e di conseguenza solo verso il popolo: è la camera dei rappresentanti, ed in particolare la

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maggioranza al suo interno, che detiene in questo caso il potere di indirizzo politico a scapito del sovrano. Si può immaginare dunque che in questa ultima configurazione il governo non si presenti più come “governo del re” ma come un organo collegiale costituito dall’insieme dei Ministri e distinto dal Sovrano, un corpo cioè con una propria identità, istituzionalizzato, che esercita l’azione di governo seguendo strettamente solo i dettami della maggioranza parlamentare e prendendo talvolta esso stesso l’iniziativa politica tramite gli stessi Ministri ed il Capo del Governo.

Molti giuristi, storici o comunque osservatori si sono domandati, non solo sul finale dell’Ottocento ma anche nel corso del Novecento e ancora oggi, quali fossero gli intenti dei costituenti piemontesi riguardo alla forma di governo: avevano in mente di realizzare una forma ‘costituzionale pura’ oppure una forma ‘parlamentare’ (dualistica o monistica)?

Il paradigma storiografico che si è sviluppato con più forza è stato quello della rapida parlamentarizzazione: secondo molti autori infatti lo Statuto descriveva una forma di governo ‘costituzionale pura’ che poi per necessità o per convenzione si era evoluta verso una forma di ‘governo parlamentare’1.

A mio avviso, tralasciando per un attimo la questione della rapida parlamentarizzazione (su cui comunque ritorneremo successivamente), ha poco senso analizzare la forma di governo della carta albertina impiegando concetti quali quello di ‘governo parlamentare’ o ‘governo costituzionale puro’ che emergeranno concretamente solo nell’ultima parte del Diciannovesimo secolo e di cui i costituenti piemontesi, anche alla luce del quadro lessicale e semantico presentato nel precedente capitolo, potevano avere solo una vaga idea. La domanda che ci poniamo è dunque questa: ha un senso analizzare un certo periodo storico sfruttando concetti che in quel periodo storico ancora non erano stati ponderati? Mutatis mutandis e adottando metafore sportive, è come se si tentasse di spiegare le regole

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in Sul fondamento giuridico del governo parlamentare in Italia, in «Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia», 6 (1914), pag. 439-468, l’avvocato Luigi Raggi sostiene che per moltissimo tempo tra i giuristi italiani era opinio communis che lo Statuto delineasse una forma costituzionale pura, evolutasi poi, per tutta una serie di evenienze, in una forma parlamentare. Citiamo qui alcuni dei giuristi più autorevoli che egli riporta: T. Arabia, Trattato di diritto costituzionale e amministrativo, Napoli, C. Poerio, 1878; A. Brunialti, Il diritto costituzionale e la politica nella scienza e nelle istituzioni, Torino, UTET, 1896; G. Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia (1848-1898), Firenze, Civelli, 1898; A. Morelli, La funzione legislativa, Bologna, Zanichelli, 1893; A. Longo, Della consuetudine come fonte del diritto pubblico (costituzionale e amministrativo), in «Archivio di diritto pubblico», 2 (1892) pag. 241-308 e pag. 401-436; A. Ferracciu, Contributo allo studio della funzione regia nel governo di gabinetto, in «Il Filangieri» 27(1902), pag. 1-64; V. Miceli, Carattere giuridico del governo costituzionale, con speciale riguardo al diritto positivo italiano, Perugia, Tip. Umbra, 1894;G. Arcoleo, Diritto Costituzionale, [1907], in Le Opere di Giorgio Arcoleo, a cura di G. Paulucci di Calboli e A. Casulli, vol. III, Milano Mondadori, 1935.

L’idea della parlamentarizzazione inoltre si è riproposta anche in contributi di giuristi e storici a noi più vicini: O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico. Il nuovo diritto pubblico italiano, Padova, Cedam, 1935⁵; M.S. Giannini, A.C. Jemolo, Lo Statuto Albertino, Firenze, Sansoni, 1946; A. Caracciolo, Il parlamento nella formazione del regno d’Italia, Milano, Giuffrè, 1960; G. Perticone, Il regime parlamentare nella storia dello statuto albertino, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1960; L. Lettieri, La responsabilità politica dei ministri, in Studi sulla costituzione, Milano, Giuffrè, 1958; E. Flora, Lo statuto albertino e l’avvento del regime parlamentare nel regno di Sardegna, in «Rassegna storica del Risorgimento», 54 (1958), pag. 26-38; C. Ghisalberti, Storia delle costituzioni europee, Torino, ERI, 1964; M. Bertolissi, R. Menghelli, Lezioni di diritto pubblico generale, Torino, Giappichelli, 1993; G. Spadolini, Introduzione. Il parlamento nella storia d’Italia, in Il Parlamento italiano 1861-1988, Milano, Nuova CEI, 1988; P. Biscaretti di Ruffia, Statuto Albertino, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1990, Vol. XLIII; A. Pizzorusso, Lezioni di diritto costituzionale, Roma, Edizioni de Il foro italiano, 1978.

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del calcio storico fiorentino utilizzando non solo i concetti ma anche i lessici tipici del calcio o del rugby moderni: una operazione del tutto legittima finché serve a far capire sul momento ai nostri contemporanei i rudimenti dell’antico giuoco, sfruttando nozioni mutuate da sport odierni che già conoscono, ma in definitiva risulta una operazione fine a se stessa e con una bassa rilevanza storica dal momento che non si troveranno mai documenti risalenti al Cinquecento riportanti menzioni di ‘fuorigioco’, ‘goal’, ‘dribblig’, ‘mischie’, ecc.

Si tratta della stessa tematica che ha sollevato il già citato Otto Brunner nel suo Terra e potere: un certo “oggetto” deve essere descritto utilizzando lemmi, concetti e schemi mentali propri del periodo in cui tale “oggetto” viene ponderato, altrimenti si potrebbe andare in contro ad anacronismi e a mistificazioni storiografiche.

La riflessione brunneriana può essere applicata concretamente anche al nostro ragionamento sulla forma di governo tratteggiata dalla Statuto Albertino. Come nota Luca Mannori1, nel ricostruire la realtà dell’esperienza statutaria bisogna sforzarsi di usare lemmi, concetti e mentalità caratteristiche che appartenevano a quella realtà ed evitare al contrario di sfruttare categorie afferenti al patrimonio concettuale della scienza politica moderna per descrivere situazioni passate.

Alla luce di queste osservazioni, in linea con i dettami della Begriffsgeschichte, si intuisce come risulti incoerente dover decidere se la forma di governo statutaria fosse una ‘monarchia costituzionale pura’ oppure una forma ‘parlamentare’: si tratta infatti di due lemmi (con relativi concetti) mai esplicitati nei processi verbali delle sedute del Consiglio di conferenza piemontese immediatamente precedenti alla concessione dello Statuto. Da tali verbali non solo è possibile avere delucidazioni in merito ai modelli costituzionali tenuti a mente per costruire l’intero impianto statutario, ma è possibile anche avere precise informazioni sui sintagmi lessicali usati per indicare la forma di governo.

Come già accennato in precedenza, i primi giorni di febbraio che portano al famoso proclama dell’8 del mese, in cui si promette l’instaurazione di un «compiuto sistema di governo rappresentativo», sono giorni concitati. Carlo Alberto infine accetta la concessione di una Carta, purché ministri e collaboratori si occupino di un progetto «nel quale si avesse cura di non imitare le altre nazioni in modo servile»2. In realtà i riferimenti al modello costituzionale francese del 1830, che paradossalmente in quel momento stava ormai soccombendo, sono numerosi e trasversali agli schieramenti interni del Consiglio : per il Conte Avet una costituzione moderata come quella di Francia indebolirebbe i nemici della pace interna3; Des Ambrois ritiene che una camera di Pari di nomina reale come quella francese possa aiutare l’equilibrio dei poteri4; il conte Gallina sostiene che il Piemonte ha sempre subito dalla Francia una positiva influenza nelle faccende politico-amministrative, per cui sarebbe logico instaurare il sistema rappresentativo che per l’appunto trova le sue radici oltralpe5; il conte de la Tour sostiene che in Francia vige il «sistema rappresentativo» importato a sua volta dall’Inghilterra: egli considera la costituzione francese «come quella che presenta meno inconvenienti» e per

1 L. Mannori, Il governo dell’opinione. Le interpretazioni dello Statuto Albertino dal 1848 all’Unità, in «Memoria e Ricerca», n.35, settembre-dicembre 2010, pag. 83-104.

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Processo verbale della seduta del Consiglio di Conferenza del 3 febbraio 1848, in L. Ciaurro, Lo Statuto Albertino, opera citata, pag.121.

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Ivi, pag. 119. 4

Processo verbale della seduta del Consiglio di Conferenza del 7 febbraio 1848, in L. Ciaurro, Lo Statuto Albertino, opera citata, pag. 134.

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questo sarebbe opportuno adottarla1; il sigillo finale lo mette il Primo Ministro Borrelli: ormai siamo arrivati ad un punto di non ritorno per cui non si può tardare nel concedere una costituzione, ma «se si deve adottare una Costituzione, perché non prendere la più monarchica, la più studiata da sessanta anni?»2, da qui la sua preferenza per la costituzione francese.

Il modello della costituzione inglese, da cui i modelli francesi traggono inevitabilmente spunto, rimane sullo sfondo, ma come tradurre in prescrizioni pratiche una costituzione che trova riscontri nei cuori e nelle menti del popolo inglese ma non è scritta da nessuna parte? Meglio dunque rifarsi a modelli più concreti come per l’appunto le Chartes francesi del 1814 e del 1830 e la costituzione belga del 1831 (di cui circa il 35% degli articoli deriva a sua volta dalle medesime carte francesi3). Quindi, dal punto di vista della forma di governo, lo Statuto Albertino non mostra particolari segni di originalità, anzi, un gran numero di articoli risultano essere traduzioni letterarie di omologhe disposizioni francesi o belghe.

Così gli articoli 13 e 15 della Carta del 1814, gli articoli 13 e 14 della Carta del 1830 e gli articoli 26, 29 e 63 della Costituzione belga del 1831 costituiscono la base sostanziale su cui si impianterà la forma di governo statutaria: in essi si ribadisce che mentre il potere legislativo viene esercitato collettivamente dal re e dalle camere rappresentative, il potere esecutivo appartiene solo al Re che lo esercita tramite i suoi ministri, che sono responsabili. Ritroveremo queste disposizioni negli articoli 3, 5 e 67 dello Statuto piemontese.

Inoltre l’articolo 65 della costituzione belga stabilisce che il re nomina e revoca e i suoi ministri: disposizione che sarà letteralmente tradotta in italiano, e per giunta inserita sempre