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Il ‘parliamentary government’: un descrittore più moderno del modello inglese

Capitolo 2. Dal 1848 all’avvento della Sinistra Storica: dal ‘governo misto’ al ‘governo

2.3 Gli anni Sessanta: il consolidamento del panorama lessico-concettuale

2.3.2 Il ‘parliamentary government’: un descrittore più moderno del modello inglese

Nella seconda parte dell’Ottocento anche la costituzione inglese si sta modificando. Il sovrano sostanzialmente ha perso la maggior parte delle sue prerogative, tanto da spingere alcuni osservatori ad abbandonare il vecchio modello del ‘governo misto’, in cui il monarca giocava un ruolo fondamentale per realizzare una situazione di armonico equilibrio, ed optare per una

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descrizione più realistica del modello costituzionale. Infatti al vecchio ‘government by prerogative’ sembra si sia sostituito un ‘parliamentary government’ o meglio un ‘cabinet government’, in cui i poteri persi dal sovrano sono stati “ereditati” in parte dal Parlamento (soprattutto dalla Camera bassa) ed in parte dal Gabinetto, ovvero dal consiglio dei ministri. Echi di questa nuova lettura della costituzione inglese giungeranno anche in Italia, ma per il momento non verranno accolti entusiasticamente. Gli osservatori italiani infatti rimangono affascinati da una descrizione quasi mitizzata del modello inglese e per questo sono restii a fare propria qualsiasi lettura alternativa di quel modello che implica addirittura un cambiamento di lessico, valorizzando per l’appunto il termine ‘parliamentary government’. Nel panorama italiano, a proposito della descrizione del “modello inglese”, già si davano per acquisiti i lavori tardo-settecenteschi di William Blackstone (1723-1780)1, tradotti in francese, di Jean-Louis De Lolme (1740-1806), scritti originariamente in francese e tradotti anche in italiano2, e di Montesquieu3. Tuttavia nuove fonti possono essere sfruttate dai commentatori italiani nella seconda metà del diciannovesimo secolo per approfondire la conoscenza del contesto politico-costituzionale inglese.

In un articolo comparso tra il maggio e il giugno 1864 sulla «Rivista contemporanea nazionale italiana»4, Giovanni Battista Michelini (1797-1879) , giornalista e deputato piemontese, ci fornisce una panoramica delle fonti che i commentatori italiani possono utilizzare per studiare le istituzioni inglesi tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Dall’articolo emergono alcune considerazioni degne di nota: innanzi tutto i nostri compatrioti si trovano palesemente in difficoltà a leggere testi in lingua madre inglese e per questo, nella maggior parte dei casi, devono affidarsi o alla traduzione in francese di testi inglesi, oppure sperare in traduzioni italiane degli stessi; in secondo luogo, come facevo notare poco sopra, le fonti citate da Michelini sono accumunate da una lettura idealizzata della costituzione inglese, associata nella totalità dei casi al modello del ‘mixed government’.

Molti sono i testi citati da Michelini.

Un posto d’onore merita Henry Brougham con la sua The British Constitution, scritto nel 18615: il pubblico italiano infatti conosceva bene l’autore che però in quest’opera si limita a ribadire quanto già espresso in Political Philosophy, risalente al 1842, e tradotta in italiano tra il 1850- 51. Inoltre Michelini cita The constitutional history of England from the accession of Henry VII

to the death of George II di Henry Hallam (1777-1859)6, opera questa più datata, risalente al

periodo 1827-28 e di cui già esisteva una traduzione in francese di Guizot, ma che oggi «è stata felicemente tradotta nella nostra favella dal Barone D’Ondes Reggio»7. Sia Brougham che Hallam nelle loro opere seguono il filone tardo settecentesco e definiscono l’Inghilterra un ‘mixed government’.

1

W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, Dublin, Exshaw, 1766-1769, 4 voll. 2 J.L. De Lolme, Constitution de l’Angleterre, Amsterdam, van Harrevelt, 1771.

3

lo Spirito delle leggi venne tradotto in italiano in quattro edizioni successive già nel corso del Settecento: 1751, 1773, 1777, 1797. In merito si veda E. De Mas, Montesquieu, Genovesi, e le edizioni italiane dello Spirito delle Leggi, Firenze, Le Monnier, 1971.

4

G.B. Michelini, L’Inghilterra e le sue istituzioni, in «Rivista contemporanea nazionale italiana», volume 37, anno 12(1864), pag. 215-228 e 422-433.

5 H. Brougham, The british Constitution, London, Glasgow, Richard Griffin and Company, 1861. 6

H. Hallam, The constitutional history of England from the accession of Henry VII to the death of George II, London, Murray, 1827-28, 4 voll.

7 Ivi, pag. 216. La traduzione a cui Michelini fa riferimento è: H. Hallam, Storia costituzionale di

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Sulla falsa riga di questi scritti si trova anche la History of England from the accession of James II1 di Thomas Babington MacAulay (1800-1859), opera in numerosi volumi, composta tra il 1848 e il 1859, i cui primi due volumi vengono tradotti da Paolo Emiliani Giudici tra il 1852- 1853. MacAulay lascia intendere che la forma di governo inglese è rimasta sostanzialmente immutata dal periodo medioevale ad oggi: per descriverla usa perifrasi o sintagmi quali ‘monarchia limitata’, ‘monarchia temperata’, ‘monarchia/governo costituzionale’, ‘governo misto’, ‘governo rappresentativo’.

Molta diffusione inoltre avrà l’opera Das heutige englische Verfassungs- und Verwaltungsrecht del giurista tedesco Rudolph von Gneist (1816-1895), che poi verrà tradotta in francese da Théodore Hippert nel 1867-68 con il titolo La constitution communale de l'Angleterre: son histoire, son état actuel, ou le self-government.

Forse però l’opera che avrà più eco in questo frangente è The Constitutional History of England: since the accession of George III (1760-1860), scritta nel 1863 da Thomas Erskine May (1815-1886) che verrà poi tradotta in francese nel 1865 da Cornelius de Witt. L’opera, ristampata in edizioni successive fino al gennaio 1912, a differenza delle precedenti non è ordinata in senso cronologico ed ogni capitolo ha a oggetto un tema specifico, tuttavia fin dalla prima pagina dell’introduzione l’obiettivo e la forma mentis di Erskine May risulta chiaro: affrontare «the history of our mixed government»2.

Da questo insieme di autori emerge dunque l’immagine vetusta di una monarchia inglese descritta come ‘governo misto’: una descrizione che gli italiani apprezzano e da cui si distaccheranno poco volentieri.

Uno dei primi scritti innovatori che giungono in Italia da oltremanica sono le Considerations on representative government del filosofo radicale inglese John Stuart Mill (1806-1873), scritto nel 1861, immediatamente tradotto in italiano, successivamente in francese e poi di nuovo in italiano nella Biblioteca di Attilio Brunialti negli anni Ottanta.

Difficile sostenere che l’opera afferisca al campo della storia o del diritto costituzionale poiché in essa non si descrive come è un ‘representative government’ ma come invece esso dovrebbe essere.

Secondo Maria Teresa Pichetto3 tra il 1832 e il 1867, anni di importanti riforme elettorali per il sistema britannico, i radicali ed i liberali inglesi cercano di elaborare teorie che sostengano l’allargamento del suffragio, ma che contemporaneamente tendano a mantenere il potere nelle mani di una élite illuminata anziché distribuirlo tra masse incompetenti: è in questo contesto che si colloca l’opera del nostro autore

L’obiettivo di Mill è quello di creare un ‘governo rappresentativo’ o ‘democrazia rappresentativa’ «in cui la nazione tutta, o almeno una parte numerosa di essa, esercita per mezzo dei deputati da essa eletti l’ultimo potere di controllo»4. Al contrario da evitare è una ‘pura democrazia’ ovvero «il governo di tutto il popolo per mezzo di una semplice maggioranza rappresentata in modo esclusivo»: questo tipo di governo infatti assomiglia molto alla tirannia del numero visto che in esso non vengono tutelate minoranze etniche, nazionali, sociali.

1

T. B. MacAulay, History of England from the accession of James II, Boston, Phillips, 1848-1859, 4 voll. 2

T. Erskine May, The Constitutional History of England: since the accession of George III (1760-1860), Boston, Crosby and Nichols, 1863, prefazione pag. V.

3

M.T. Pichetto, Verso un nuovo liberalismo. Le prospettive politiche e sociali di John Stuart Mill, Milano, FrancoAngeli, 1996.

4 J.S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo, [1861], introduzione e traduzione a cura di P. Crespi, Milano, Bompiani, 1946. La citazione si trova a pag. 82.

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Quali dovrebbero essere le caratteristiche di questo regime che, lo ripetiamo, Mill definisce il più delle volte ‘governo rappresentativo’, ‘democrazia rappresentativa’ e solo in pochissimi casi ‘monarchia/governo costituzionale’? (Mill usa la locuzione ‘governo parlamentare’ una sola volta nel suo scritto).

Innanzi tutto nel sistema proposto da Mill deve vigere il suffragio universale, dunque anche le donne devono votare. Dal voto però sono esclusi gli analfabeti (per questo l’insegnamento e l’istruzione devono precedere il suffragio universale) e i debitori, poiché chi non paga un’imposta non ha il diritto di decidere il modo in cui ognuno deve contribuire alla spesa pubblica dell’intera comunità. Inoltre il voto deve essere palese: in tal modo l’elettore è caricato di una responsabilità politica e non voterà seguendo il suo interesse personale o quello della sua classe sociale, ma seguendo i dettami dell’interesse pubblico.

Sono le tecniche di voto, i meccanismi elettorali, che permettono di realizzare una vera ‘democrazia rappresentativa’. A più riprese infatti già nel corso della sua carriera Mill aveva dimostrato la sua simpatia verso il voto plurimo (assegnare cioè un maggior numero di voti alle persone ritenute più istruite o che, dopo aver superato degli esami, si dimostrano più preparate), il voto cumulativo (la possibilità di esprimere più voti per un singolo candidato) e il sistema di Hare chiamato anche voto trasferibile (nel quale l’elettore scrive sulla scheda i nomi dei candidati, locali o nazionali, in ordine di preferenza, in modo tale che se il primo della lista risulta già eletto in una circoscrizione, il voto può essere trasferito alla seconda preferenza del votante e così via: ciò garantisce un effetto sostanzialmente proporzionale).

Per quanto riguarda invece l’organizzazione del potere esecutivo Mill immagina un sistema in cui il perno del sistema sia la responsabilità individuale. Il partito uscito vincente dalle elezioni indica ‘virtualmente’ il primo ministro mantenendo un rapporto di fiducia tra il capo dell’esecutivo e l’assemblea rappresentativa, seppur con una specificazione. Infatti Mill arriva ad affermare che non «sarebbe sempre e dovunque desiderabile che il capo dell’esecutivo dipendesse dai voti di un’assemblea rappresentativa»1 : secondo questo autore infatti il capo dell’esecutivo deve avere un forte deterrente per difendersi dalla riottosità della camera: lo scioglimento. Solo così il Ministero potrà continuare a dipendere da essa ma a non esserne succube e a non essere costretto a dimettersi ogniqualvolta riceva un voto contrario.

Le riflessioni di Mill devono aver fatto presa sul pubblico italiano, pubblico che poteva capirne il linguaggio visto che sempre di ‘governo rappresentativo’ si parla, tuttavia a mio avviso è probabile anche che gli italiani non abbiano afferrato fino in fondo il messaggio del filosofo inglese.

Infatti mentre sappiamo bene che nella grande maggioranza dei casi per gli italiani il governo rappresentativo costituiva una rielaborazione del governo misto, la forma di governo proposta da Mill ha poco o nulla a che vedere con il governo misto stesso. Mill tratteggia una forma di governo molto avanzata, “molto democratica”, dove l’assemblea rappresentativa e la sua composizione hanno un ruolo preponderante, mentre poco risalto hanno gli altri elementi che dovrebbero comporre la mistione ovvero il sovrano, di cui si parla poco nelle Considerazioni, e la seconda Camera, a proposito della quale lo stesso Mill afferma di non credere in un suo ruolo “di freno” del sistema.

Dunque le tesi di Mill portano un messaggio democratico molto avanzato, quasi utopistico, ma il filosofo inglese, per descrivere il suo modello costituzionale, usa un lessico non del tutto innovativo. Il sistema costituzionale inglese non viene definito una volta per tutte un ‘governo

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69 parlamentare’.

Le vere innovazioni nella dottrina costituzionale inglese sono apportate invece da autori quali Grey, Todd e Bagehot.

Earl Grey (1802-1894), politico e statesman, nel suo Parliamentary government considered with reference to reform, scritto nel 1858, è molto chiaro. Egli vuole analizzare «in what respects Parliamentary Government, as it now exists in this country, differs from others forms of Representative Government»1.

Le differenze tra il sistema attuale e la descrizione “ideale” del sistema inglese per Grey sono evidenti:

«I have in the first place to remark, that, since the establishment of Parliamentary Government, the common description of British Constitution, as one in which the executive power belongs exclusively to the Crown, while the power of legislation is vested jointly in the Sovereign and the two Houses of Parliament, has ceased to be correct, unless it is understood as applying only to the legal and technical distribution of power. It is the distinguishing characteristic of Parliamentary Government, that it requires the powers belonging to the Crown to be exercised through Ministers, who are held responsible for the manner in which they are used, who are expected to be members of the two Houses of Parliament, the proceedings of which they must be able generally to guide, and who are considered entitled to hold their offices only while they possess the confidence of Parliament, and more especially of the House of Commons.»2.

Dunque non solo il Re ha perso parte delle sue prerogative “delegando” il potere esecutivo a ministri responsabili, ma lo stesso dogma della divisone dei poteri, sul quale l’intera impalcatura statuale sembrava essere costruita finora, è venuto meno perchè: «by this arrangement the Executive power and the power of Legislation are virtually united in the same hands, but both are limited, the executive power by the law, and the legislation by the necessity of obtaining the assent of Parliament to measureres brought forward»3. Lo stesso Alpheus Todd (1821-1884), storico costituzionale di origini inglesi poi emigrato in Canada, in On Parliamentary Government in England, dopo aver riportato lo stesso passo di Grey, ammette:

«Through the instrumentality of the cabinet, as a connecting link between the Crown and the Parliament, a close union, an intimate reciprocal action, has been effected between the executive and legislative powers. It is this which has given peculiar vitality to English parliamentary government.»4. Tali principi, secondo Todd saranno acquisiti in seguito alla rivoluzione inglese del 1688, giacché prima di essa, invece di avere un ‘parliamentary government’, in Inghilterra vigeva un ‘government by prerogative’ dove il Sovrano era il sole del sistema.

Se gli scritti di Todd verranno tradotti in italiano e recepiti in un contesto ben diverso dall’attuale solo negli anni Ottanta (come vedremo nei capitoli successivi), al contrario di immediata diffusione, grazie alla traduzione francese del 1869, è The English Constitution, del giornalista ed economista Walter Bagehot (1826-1877), opera risalente al 1867.

1 E. Grey, Parliamentary government considered with reference to reform, London, Richard Bentley, 1858, pag. 2.

2

Ivi, pag. 4. 3 Ibidem. 4

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L’obiettivo di Bagehot è proprio quello di smitizzare l’apologia del sistema inglese minandone i due pilastri fondamentali, ovvero la convinzione che in esso esista una rigida separazione dei poteri e che da tale divisione scaturisca un equilibrio positivo.

Secondo il giornalista inglese la costituzione britannica fonde insieme due elementi: la parte «nobile» (dignified part) e la componente «efficiente» (efficient part); si tratta di due parti complementari poiché mentre la prima garantisce l’obbedienza e la reverenza del popolo, la seconda garantisce l’efficienza nell’azione del governo. La parte «nobile», in apparenza puramente ornamentale, è costituita dalla Regina e dalla Camera dei Lord: questa parte ha un compito quasi semplificatorio in quanto rappresenta l’insieme di elementi sentimentali ed emotivi, teatrali e visibili, che suscitano reverenza e obbedienza; mentre la parte nobile è caratterizzata da una «grandezza gotica», la parte «efficiente» è semplice e moderna. Essa è formata dal tutt’uno composto dalla Camera dei Comuni e dal Gabinetto. Questa parte moderna ed efficiente tuttavia è obbedita a causa della presenza della parte antica e gotica: in questa fusione consiste la peculiarità eccezionale del sistema politico inglese.

Quindi, sebbene la Regina abbia perso parte delle sue prerogative (non partecipa più al potere legislativo apponendo il suo veto; ha perso la facoltà di sciogliere il parlamento, di scegliere il Premier e di nominare i Pari) e la Camera dei Lord sia totalmente subordinata alla Camera dei Comuni, sono queste parti nobili a garantire il corretto funzionamento dell’ordinamento grazie alla loro influenza.

Inoltre la Costituzione inglese non si caratterizza né per la separazione dei poteri né per il loro equilibrio armonico: anzi, la sua caratteristica principale è il legame tra il potere esecutivo e quello legislativo:

« Il segreto che rende efficace la Costituzione inglese può essere individuato nella stretta unione, nella fusione pressoché completa del potere esecutivo con quello legislativo.».1

Il segreto di questa unione si trova proprio nel Gabinetto: esso non è altro che il «comitato esecutivo del parlamento», ma ricordiamo che il Gabinetto ha sempre la facoltà di decidere, e di decidere su tutto. Sebbene la Camera dei Comuni abbia numerose funzioni (la scelta del Premier, la funzione espressiva, la funzione pedagogica, la funzione informativa, la funzione legislativa, la funzione finanziaria) ci accorgiamo che l’elemento centrale della costituzione inglese è essenzialmente uno: il potere quasi assoluto del Primo Ministro e del Gabinetto. Se il Gabinetto è in grado di decidere su tutto, qualora ciò non sia possibile, il Premier può usare effettivamente, o solo come deterrente, un’arma fortissima: il potere di scioglimento. Tale potere infatti può essere utilizzato sempre come extrema ratio nei casi in cui la Camera si dimostri riottosa nei confronti del Governo o dei ministri o sia lo stesso Sovrano a intromettersi nelle politiche pubbliche con fini personali. Infatti le “baruffe” parlamentari erano sempre dietro l’angolo anche se, sin dal 1841, la Camera dei comuni aveva approvato alcune risoluzioni secondo le quali la permanenza in carica dei Ministri di sua Maestà che non possedessero più la fiducia della camera rappresentativa, così da non far approvare dalla stessa misure d’importanza essenziale per il paese, risultava in contraddizione con lo spirito della Costituzione.

1

W. Bagehot, The English Constitution, London, Oxford University Press, 1867, seconda edizione 1872. L’edizione tradotta a cui faremo riferimento nel paragrafo è La costituzione inglese, Bologna, Il Mulino, 1995. La citazione si trova a pag. 52.

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Il quadro dipinto da Bagehot è quello di un sistema parlamentare sostanzialmente monista, e quindi sbilanciato, in cui il potere di indirizzo politico, avallato dall’opinione pubblica, riposa nelle mani del Gabinetto e del Premier, i quali si possono difendere dalla riottosità dell’assemblea anche grazie ad un istituto basilare quale quello dello scioglimento.

Come succederà per Todd, anche Bagehot verrà “recuperato” dalla dottrina politica soltanto negli anni Ottanta, sebbene gli italiani non accetteranno mai né un ruolo subalterno del Re nell’intero sistema, né tantomeno che il Gabinetto possa essere considerato «il comitato esecutivo» della maggioranza parlamentare.

Un autore che a questa altezza sembra recepire almeno le innovazioni lessico-concettuali della dottrina inglese sembra essere Ruggiero Bonghi (1826-1895), nell’articolo I partiti politici nel

parlamento italiano, pubblicato sulla «Nuova Antologia» nel 18681.

Bonghi si rivela un profondo conoscitore della cultura costituzionale inglese: oltre a citare autori quali Von Gneist, Brougham, Erskine May e Russell, sembra adottarne anche i lessici. Infatti, sia per riferirsi alla forma di governo inglese che alla forma di governo italiana, egli usa solo due volte ed in modo generico i termini ‘sistema rappresentativo’ e ‘governo costituzionale’, mentre nella maggior parte dei casi usa sintagmi quali ‘governo parlamentare’ e ‘sistema parlamentare’.

Il ‘governo parlamentare’ che egli definisce come «il governo delle maggioranze d’una assemblea»2 è per questo, inevitabilmente, governo di partiti. Per la prima volta in maniera analitica i partiti entrano nell’analisi costituzionale: ovviamente non si tratta ancora di partiti politici di massa, ma fazioni «che dividono la classe che governa» e hanno una loro visibilità solo in parlamento, ecco perché, come sottolinea Massimiliano Gregorio3, possono essere definiti “partiti parlamentari”.

L’articolo di Bonghi si regge sul confronto tra l’assetto politico-costituzionale italiano e quello inglese: è il sistema partitico che distingue il corretto funzionamento dei due regimi.

In Inghilterra il sistema è pressoché bipartitico, con partiti ben strutturati su ideali diversi. Ciò fa sì che solo in casi molto rari si arrivi a governi di coalizione che riscuotono per di più il biasimo dell’opinione pubblica. Nella maggior parte dei casi vi è alternanza tra tories e whighs senza però, e questo è un punto fondamentale nella visione di Bonghi, che l’amministrazione risenta di questa alternanza rimanendo stabile ed indipendente dalla lotta politica:

«L’Inghilterra è stata insino ad ora il solo Stato nel quale la gara de’partiti, elemento così sostanziale del