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Capitolo 3. Gli anni Ottanta: dal ‘governo rappresentativo’ al ‘governo parlamentare’

3.2 Il lustro 1881-1886: la specificazione lessicale

Il quarto governo Depretis rimane in carica dal maggio 1881 al maggio 1883.

In questo arco di tempo accadono novità rilevanti per la vita politica-costituzionale del nostro paese: non solo si assiste ad un allargamento del suffragio elettorale (l’elettorato attivo passa da 600000 a circa 2 milioni di elettori), ma soprattutto ha luogo la modifica del sistema elettorale. Infatti da 508 collegi uninominali si passa a 135 collegi plurinominali con magnitudo compreso tra 3 e 5. Inoltre viene previsto anche lo scrutino di lista con plumping.

Tutto ciò influisce sui comportamenti strategici delle compagini politiche. E così alle elezioni del 1882 si presentano le cosiddette “liste trasformate” ovvero liste elettorali che contengono sia esponenti della Destra moderata facente capo a Minghetti, sia esponenti della Sinistra moderata facente capo a Depretis. A partire dalle elezioni del 1882 le “liste trasformate” otterranno la maggioranza dei voti impedendo una vera e propria alternanza di tipo bipolare tra quella parte della Destra e della Sinistra che non erano inclini a compromessi.

Al di là delle giustificazioni storiche (emarginazione della “sinistra di classe” e dei “cattolici intransigenti” e volontà di coinvolgere nella maggioranza ministeriale componenti territoriali diverse per mediare gli interessi tra centro e periferia), il trasformismo1 aveva anche giustificazioni pratiche: si voleva cioè creare una forte maggioranza numerica in grado di supportare il Governo.

In realtà l’eterogeneità di quella maggioranza era altissima e questo spiega il succedersi dei numerosi governi Depretis.

La situazione bloccata in cui si trova il nostro sistema politico porta gli osservatori a contribuire al cosiddetto filone della “letteratura antiparlamentare”: filone che a noi interessa particolarmente perché è in esso che si riscontrano palesi innovazioni lessico-concettuali.

1 Per quanto riguarda il trasformismo si veda: S. Rogari, Alle origini del trasformismo: partiti e sistema politico nell’Italia liberale 1861-1914, Roma, Laterza, 1998; G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 2003; F. Cammarano, Il trasformismo, in «Nuova informazione bibliografica», 4(2009), pag. 661-681; Il trasformismo dall’unità ad oggi, a cura di G. Carocci, Milano, Unicopli, 1992.

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Tommaso Edoardo Frosini definisce la letteratura antiparlamentare un vero e proprio fiume

carsico1: troviamo questa definizione perfettamente calzante per almeno due motivi.

Per prima cosa il filone antiparlamentare affiora spesso ad intervalli più o meno regolari nella storia delle istituzioni politiche italiane: per esempio abbiamo già visto negli ultimi paragrafi del capitolo precedente come tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta montasse una certa insofferenza per le istituzioni rappresentative. Inoltre proprio in apertura di questo capitolo abbiamo visto come venisse criticato lo stato del sistema politico costituzionale: le critiche si faranno estremamente più forti nel lustro che andremo ad esaminare in questo paragrafo, critiche che seguono dei vettori lessico-concettuali ben precisi. Alcuni commentatori cercheranno di arginare questo tipo di letteratura, ma essa riaffiorerà con forza sul finire del secolo.

In secondo luogo la letteratura antiparlamentare può essere definita un fiume carsico considerando che essa compare in vari campi del sapere: non solo in quello giuridico- costituzionale, ma tendenze antiparlamentari tra gli anni Sessanta e l’inizio del nuovo secolo sono rintracciabili anche in campo letterario2, psichiatrico3 e socio-antropologico4 (di cui ci occuperemo brevemente anche nel capitolo successivo).

L’universo antiparlamentare è dunque molto vasto, tuttavia i vari rivoli del fiume hanno qualcosa in comune: non si dimostra aperta ostilità nei confronti dell’istituto rappresentativo- parlamentare in quanto tale, non lo si vuole abbattere, ma piuttosto si critica la particolare fisionomia (con annesse storture) che esso ha sviluppato in questo determinato periodo storico nel nostro paese. La critica sarà forte ma non sarà solo distruttiva, anzi spesso gli stessi autori proporranno opportuni rimedi per un sistema percepito in fase di degenerazione. Sempre secondo Frosini sono tre i pilastri sui quali si incardina l’antiparlamentarismo italiano

1 T.E. Frosini, L’antiparlamentarismo e i suoi interpreti, in «Rassegna Parlamentare», 50 (2008) pag. 845- 870. Inoltre per quanto riguarda la cosiddetta “letteratura antiparlamentare” si veda: A.M. Banti, Retoriche e idiomi: l’antiparlamentarismo nell’Italia di fine Ottocento, in «Storica», 1 (1995), pag. 7-41; E. Cuomo, Critica e crisi del parlamentarismo (1870-1900), Torino, Giappichelli, 1996; L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino, Einaudi, 1985. Tra i contributi meno recenti ricordiamo: G. Perticone, Parlamentarismo e antiparlamentarismo nel post- Risorgimento, in Scritti di storia e politica del post-Risorgimento, Milano, Giuffrè, 1969, pag. 185-218; M. Delle Piane, Il significato dell’antiparlamentarismo italiano nel secolo scorso, in Liberalismo e parlamentarismo, Bari, Macrì, 1946, pag. 103-141; R. De Mattei, Il problema della democrazia dopo l’Unità, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura, 1934. Per la nostra storia lessico-concettuale è risultata utile anche la raccolta antologica L’antiparlamentarismo italiano (1870-1919) , a cura di C. Cerbone, Roma, G. Volpe ed., 1972.

2

Si ricordano solo alcuni romanzi come: F. Petruccelli Della Gattina, I Moribondi di Palazzo Carignano, Napoli, Ranucci, 1862; M. Serao, La conquista di Roma, Firenze, Barbera, 1885; F. De Roberto, I Vicerè, Milano, Galli, 1894; F. De Roberto, L’imperio, Milano, Mondadori, 1929 [pubblicazione postuma]; G. D’Annunzio, Le vergini delle rocce, Roma, De Bosis, 1895. Per approfondire questo tema si rimanda a: A. Briganti, Il Parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento, Firenze, Le Monnier, 1972; G. Caltagirone, Dietroscena. L’Italia post-unitaria nei romanzi di ambiente parlamentare (1870-1900), Bulzoni, Roma, 1993; C.A. Madrignani, Rosso e Nero a Montecitorio. Il romanzo parlamentare nella nuova Italia (1861-1901), Vallecchi, Firenze, 1980; C.A. Madrignani, G. Bertoncini, Il Parlamento nel romanzo italiano, in Il Parlamento. Storia d’Italia, Annali 17, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 2001, pag. 931 sgg.

3 C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie, Milano, Hoepli, 1876; C. Lombroso, Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, all’antropologia criminale ed alla scienza di governo, Torino, Bocca, 1890. Per una più ampia panoramica di questo tipo di documenti si rimanda al già citato volume di L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. 4

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di fine Ottocento: la causa storica, ovvero il tradimento degli ideali risorgimentali; la causa politica, ovvero la grande frattura tra il Paese e il Parlamento cioè l’incapacità della classe dirigente di rappresentare realmente interessi generali anziché particolari; infine la causa istituzionale, ovvero la fragilità degli equilibri istituzionali. Per quanto ci riguarda seguiremo con più attenzione gli ultimi due percorsi perché è qui che riscontriamo un primo tratto di specificazione lessicale. Come abbiamo sottolineato più volte, la forma di governo che finora era descritta con lemmi sinonimici e percepita in equilibrio, adesso viene considerata instabile a causa della preponderanza della assemblea rappresentativa, così l’aggettivo ‘parlamentare’, seppure in alcuni casi con una accezione negativa, acquisterà un significato tecnico ben preciso che lo porterà ad essere distinto dagli altri aggettivi ‘rappresentativo’ e ‘costituzionale’. Uno dei precursori della specificazione lessicale è Sidney Sonnino che, in un caustico articolo del 1880 intitolato Il parlamentarismo e la monarchia, continua quel percorso critico verso le istituzioni rappresentative che aveva iniziato due anni prima con l’articolo Dove Andiamo? L’articolo è importante poiché è uno dei primi dove si ammette che il ‘parlamentarismo’, in questo caso da intendersi come sinonimo di ‘governo parlamentare’, è una particolare forma di governo con determinate caratteristiche, che deriva dalla forma rappresentativa- costituzionale.

Secondo Sonnino le forme di governo sono per loro natura inclini alla degenerazione qualora gli equilibri interni dei poteri vengano meno: così quella che egli definisce ‘monarchia rappresentativa’, ‘monarchia costituzionale’, ‘monarchia ereditaria costituzionale’ o ‘governo rappresentativo’ tende a degenerare in ‘parlamentarismo’, come in ‘parlamentarismo’ tende a degenerare la repubblica presidenziale alla francese proprio perché tipico di queste due forme è la preponderanza della camera rappresentativa; al contrario la repubblica presidenziale americana tende a degenerare in forme di ‘cesarismo’ o ‘pretorianesimo’ a causa dello strapotere presidenziale. Sonnino spiega:

«Il fenomeno più caratteristico del parlamentarismo, come forma speciale del governo rappresentativo, è la debolezza del potere esecutivo.»1.

Infatti per Sonnino in questo regime politico l’agire del governo non è dettato dall’interesse generale della maggioranza, ma dal tornaconto personale dei singoli deputati animati dal loro interesse individuale: l’autore in questo caso torna a denunciare il sistema clientelare in atto. Inoltre egli ribadisce che in un regime dove vige un suffragio elettorale ristretto, inevitabilmente una parte della nazione non viene rappresentata. In questo caso lo Stato si regge solo su una minoranza che tenderà a difendere e altrettanto faranno la camera rappresentativa e il Governo.

Di conseguenza, agendo solo per una minoranza, l’azione di governo sarà debole e inevitabilmente «un governo debole è necessariamente un governo cattivo».

Ma cosa fare per arginare questa degenerazione? E soprattutto « i fenomeni morbosi del parlamentarismo sono essi essenziali alla forma rappresentativa di governo?»

La risposta di Sonnino è negativa: i fenomeni morbosi del governo parlamentare non sono

1

S. Sonnino, Il Parlamentarismo e la Monarchia, in «La Rassegna Settimanale», V, 18 gennaio 1880, pag. 42-45, oggi in Id., Scritti e discorsi extraparlamentari, a cura di B. F. Brown, opera citata, pag. 347- 358. La citazione si trova in quest’opera a pag. 347.

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connaturati alle forme rappresentative in generale, ma evidentemente riguardano il caso italiano in particolare.

La soluzione che propone Sonnino è quella di rafforzare il ruolo della la Corona (e indirettamente l’Esecutivo): questa non deve essere un «Mikado» o «un’immagine di San Gennaro» ma deve avere un ruolo attivo di «freno al parlamentarismo» in modo da poter tornare ad essere attivamente l’arbitro del sistema.

Dunque se davvero l’articolo di Sonnino apre una tendenza secondo la quale il ‘governo parlamentare’ (o ‘parlamentarismo’) deriva dal ‘regime costituzionale-rappresentativo’, bisogna sottolineare anche un altro aspetto della questione: l’evoluzione per molti osservatori è una evoluzione in negativo, quindi una degenerazione del sistema, è per questo che il sintagma ‘governo parlamentare’ spesso acquisterà delle sfumature negative.

Al contrario vi è tutto un filone di commentatori che acquisiscono questa transizione grazie al recupero delle già citate fonti inglesi: in questo caso la transizione dal regime rappresentativo- costituzionale a quello parlamentare non ha carattere degenerativo e quindi anche il lemma ‘governo parlamentare’ ha una valenza almeno neutra. Stiamo parlando di quegli autori come Giorgio Arcoleo (1848-1914) e Marco Minghetti (1818-1886) che sono stati definiti “i gladstoniani d’Italia”1 (ai quali mi permetto di aggiungere anche Raffaele Cardon), che seppur enunciando con cura i mali del nostro sistema parlamentare, in perfetto stile british, non demonizzano la transizione in atto.

Giorgio Arcoleo è considerato uno dei più grandi giuristi di stampo e metodo non-orlandiano2. Nel 1881, poco più che trentenne, scrive Il Gabinetto nei governi parlamentari, opera che gli vale il premio dell’Accademia Reale di Napoli per la migliore monografia di diritto pubblico. Marcello Pera, lo definisce un “siciliano anglosassone”3, infatti innegabile è l’influenza di autori inglesi sulla sue opera, proprio a partire dalla sue fonti: Bagehot, May, Cox, Grey, Todd e Gladstone sono tra i più citati ed è proprio dagli ultimi due che Arcoleo sembra attingere notizie di storia, formule di dottrina e ovviamente lessici.

Arcoleo usa come sinonimi ‘sistema/governo costituzionale’ e ‘sistema/governo rappresentativo’: si tratta di descrittori utilizzati in senso molto generale. Tuttavia seguendo la sua ricostruzione, che ha come modello la costituzione inglese, sembra che sia proprio dal regime ‘rappresentativo-costituzionale’ che si origina il cosiddetto ‘governo di gabinetto’ o ‘governo parlamentare’ o ‘parlamentarismo’. Egli infatti riprende passo passo l’interpretazione di Todd secondo cui oltremanica, gradualmente a partire dal Settecento, il ‘governo di prerogativa’ del Sovrano è venuto meno (come del resto l’importanza del Privy Council) e contemporaneamente sono accresciute l’importanza del Premier all’interno del Cabinet e ovviamente della camera rappresentativa, che è in grado di controllare il Cabinet stesso: ciò ha fatto sì che si passasse dal ‘regime costituzionale’ al ‘regime parlamentare’. I principi del governo parlamentare sono essenzialmente tre:

«1. La norma che impone la unanimità politica nel Gabinetto.

2. La pratica di simultanei cambiamenti dell’intero Gabinetto, come risultato della sua dipendenza dalla maggioranza parlamentare.

3. L’officio del primo Ministro come un mezzo di perfezionare l’organismo amministrativo e di assicurare

1

L. Compagna, Parlamentarismo antico e moderno, Lombardi, Palermo-Siracusa, 2003, pag. 5 sgg. 2

L. Borsi, Classe politica e costituzionalismo. Mosca, Arcoleo, Maranini, Milano, Giuffrè, 2000. 3 G. Arcoleo, Discorsi parlamentari, a cura dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica, con prefazione di M.Pera e saggio introduttivo di T. E. Frosini, Bologna, Il Mulino, 2005,

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lo sviluppo di una politica, che fosse accetta insieme e al Sovrano e al Parlamento.»1.

Grazie al suo sviluppo storico graduale, in Inghilterra il ‘governo di gabinetto’ funziona egregiamente perché il sistema ha trovato «in sé i suoi freni». Sul continente invece esso è stato instaurato o per concessione o in seguito ad una rivoluzione e questo ha portato tutta una serie di “equivoci” e disfunzioni:

«In Inghilterra ha avuto un processo originale, continuo, coordinato alle istituzioni fondamentali, trovando come presupposti il Common law, la legge, la trasformazione del potere regio in prerogativa del Capo dello Stato, l’autorità del Parlamento, la responsabilità ministeriale, il selfgovernment, l’indipendenza giudiziaria e da ultimo la costituzione dei partiti. Nel Continente vi ha processo opposto: il Ministero o è emanazione pura e semplice del Re o di un’Assemblea onnipotente, secondo che lo Statuto sia concessione regia o conquista del popolo. Invece della prerogativa del Capo dello Stato il potere personale; dell’autorità del Parlamento l’illimitato arbitrio dell’Assemblea; del selfgovernment o un dispotico accentramento o un disperdimento anarchico dei poteri dello Stato: invece di un’Amministrazione secondo la legge, una burocrazia sottoposta alla politica: invece della costituzione dei partiti, fondati sull’ordinamento dello Stato, un meccanismo di partiti che intendono a creare essi stessi l’ordinamento dello Stato.»2.

In Francia attualmente non esiste ‘governo di gabinetto’ a causa della contemporanea responsabilità dei ministri e del capo dello Stato; in Svizzera il Gabinetto non esiste perché il governo «ricorda quello famoso del Direttorio in Francia»; in Germania la situazione è ancora più nebulosa: non solo non vi è un Gabinetto, ma il fatto che il Cancelliere sia contemporaneamente presidente del Bundesrat e organo del potere esecutivo scelto dall’Imperatore fa pensare che possa venir meno la separazione dei poteri e quindi Arcoleo addirittura dubita che possa trattarsi di un ‘governo costituzionale’ (forma di Stato).

In Italia è in essere il ‘governo di gabinetto’, ma senza dubbio esso ha dei gravi difetti: in breve si può dire che esso è «impotente verso il Parlamento, onnipotente verso l’Amministrazione»3. Non solo in Italia vige la cosiddetta “onnipotenza parlamentare”, «frase attinta dall’Inghilterra ma divulsa dal suo vero significato»4, in quanto l’Assemblea tende a tenere sotto scacco il Gabinetto, ma quest’ultimo cerca di rivalersi sull’amministrazione. Si tratta dunque di una situazione in cui non si riscontra più un armonico equilibrio tra gli organi ed i poteri/funzioni dello Stato.

Dal punto di vista lessicale, seppur non si parli apertamente di degenerazione, è chiaro che agli occhi dei lettori il ‘governo parlamentare’ nella sua versione italiana non possa essere recepito come qualcosa di estremamente positivo.

Di degenerazione dal sistema costituzionale-rappresentativo al sistema parlamentare non parla neanche Marco Minghetti in I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, risalente sempre al 1881. Il testo di Minghetti avrà una elevata diffusione, denunciando ancora una volta i legami malsani tra il “governo di partito” e l’amministrazione. Tuttavia esso non può essere considerato un mero pamphlet di denuncia, ma un più vasto manuale che illustra il funzionamento del ‘governo parlamentare’. E come tutti i manuali ben ponderati, in apertura Minghetti si preoccupa di fare delle precisazioni

1

G. Arcoleo, Il Gabinetto nei governi parlamentari, Napoli, Jovene, 1881, pag. 25 2

Ivi, pag. 57. 3 Ivi, pag. 66. 4

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lessicali, distinguendo i ‘regimi rappresentativi’, da quelli ‘costituzionali’ e da quelli ‘parlamentari’. Secondo l’autore le forme di governo si conformano al «grado di civiltà dei popoli» per cui nel progresso della società si è passati da un semplice regime ‘rappresentativo’, ad uno ‘costituzionale’ ed infine ad uno ‘parlamentare’.

Il ‘regime rappresentativo’ è una «forma generica» grazie alla quale «fu resa possibile la partecipazione dei cittadini al governo anche nelle grandi e popolose nazioni»1. Nel regime rappresentativo la partecipazione dei cittadini è di tipo deliberativo, in quanto essa implica «la potenza di fare le leggi e lo stanziamento delle entrate e delle spese»2 . Si tratta in definitiva di un regime in cui l’opinione pubblica ha un peso preponderante e viene manifestata dai cittadini stessi, i quali si riuniscono in “partiti”. A tale regime si contrappone invece il ‘governo assoluto’ dove «è evidente che l’opinione del Capo dello Stato è la sola decisiva». Dal ‘regime rappresentativo’ si passa al ‘regime costituzionale’ che si presenta sotto varie forme: «da questa forma generica si passa al regime costituzionale del quale sono cardini fondamentali la rappresentanza elettiva del popolo in una e spesso anche in due assemblee, e la responsabilità ministeriale sotto un’autorità suprema che concilia i conflitti e modera l’andamento della complicata macchina. Però nello stesso reggimento costituzionale vi sono forme diverse. In alcuni paesi come la Germania e l’Austria, le assemblee pur votando le leggi e il bilancio non hanno, se non per indiretto, ingerenza nell’andamento quotidiano della cosa pubblica, e nell’indirizzo politico interno ed esterno. Se il ministero dee alla lunga mettersi d’accordo colle assemblee, non perciò hanno queste un influsso immediato nella sua formazione. Ma in altri governi costituzionali non solo le Assemblee esercitano un quotidiano sindacato sulla potestà esecutiva, ma questa non può durare se non in quanto abbia la fiducia dell’assemblea elettiva che col suo voto la designa o l’abbatte. Quest’ultima forma che è propriamente quella che si chiama il governo parlamentare si trova in Inghilterra, nel Belgio, in Spagna, in Grecia, in Italia ed in Francia.»3.

Mentre la forma rappresentativa si caratterizza per la sola presenza di assemblee rappresentative con funzioni deliberative, il regime costituzionale oltre ad avere una rappresentanza elettiva si caratterizza per la responsabilità ministeriale e per il forte ruolo del Sovrano. Tale forma ha preso una particolare configurazione in Germania e Austria dove non vi è uno stretto rapporto “di controllo” tra le assemblee ed il ministero. Altrove invece questo rapporto è divenuto più forte, anzi necessario a tal punto che il Ministero non può rimanere in carica senza avere la fiducia dell’assemblea rappresentativa: in questo caso abbiamo davanti dei regimi che, oltre che ‘rappresentativi’ e ‘costituzionali’ in senso generale, devono dirsi più specificatamente ‘parlamentari’.

Si tratta di un mutamento connaturato all’evoluzione della società e quindi di una transizione non degenerativa: attribuendo un particolare tipo di governo ad ogni fase della società arriviamo ad una primissima specificazione lessico-concettuale. Ma la riflessione di Minghetti va oltre.

Infatti il ‘governo parlamentare’ si presenta naturalmente come “governo di partito” in quanto la gestione della cosa pubblica viene affidata alla maggioranza dell’opinione pubblica. Tuttavia dove vige il governo di partito esiste anche il problema che i partiti stessi possano «insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione». Ciò non avviene in Inghilterra, dove

1

M. Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, Zanichelli, 1881, pag. 63.

2 Ivi, pag. 62. 3

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l’evoluzione appena descritta si è svolta in modo graduale, ma può avvenire sul continente, in Italia per esempio, dove il regime parlamentare è stato trapiantato artificiosamente.

L’ingerenza dei partiti nell’amministrazione è proprio uno dei sintomi della degenerazione del ‘governo parlamentare’: compito che l’autore si pone con la sua opera è proprio quello di analizzare il ‘governo parlamentare’ per preservarlo dalla corruttela e trovare soluzioni giuridiche per correggere i suoi difetti.

Si badi bene: Minghetti non parla di degenerazione per descrivere il passaggio dal regime costituzionale al parlamentare, ma per descrivere il possibile passaggio dal regime parlamentare ad uno peggiore1: si tratta di una tematica molto avanzata per il periodo e che sarà ripresa solo nel decennio successivo.

Per ora concentriamoci sul fatto che gli aggettivi ‘rappresentativo’, ‘costituzionale’ e ‘parlamentare’ non indicano più la stessa forma di governo. Anzi sembra proprio che la forma parlamentare derivi da quella costituzionale: mentre in Germania vige ancora una forma ‘costituzionale’ in Inghilterra ed Italia tale forma si è trasformata in parlamentare grazie al