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La fine degli anni Ottanta: la nuova posizione della dottrina alla luce della specificazione

Capitolo 3. Gli anni Ottanta: dal ‘governo rappresentativo’ al ‘governo parlamentare’

3.3 La fine degli anni Ottanta: la nuova posizione della dottrina alla luce della specificazione

«Trenta o quarant’anni addietro, tra governo costituzionale, rappresentativo, parlamentare, nessuno faceva differenza. Non la facevano il comune degli uomini e neanche i dotti e i politici di professione.»1. Così nel 1886 esordisce il giurista napoletano Federico Persico (1829-1919) in un discorso letto alla Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli e poi pubblicato in un opuscolo. Evidentemente il giurista stava percependo il periodo di specificazione lessicale in atto, poiché egli stesso è costretto ad affermare che «chi oggi facesse un fascio di quelle tre forme di governo mostrerebbe di non intendersene»2. Con l’intento polemico di dimostrare che le istituzioni inglesi non potranno mai attecchire sul suolo italiano, Persico ci spiega brevemente le differenze tra i tre regimi:

« si può dire che uno Stato è costituzionale se quando delle leggi fondamentali assicurano il modo onde il potere sovrano abbia a operare. Se un principe assoluto, per esempio, si sottoponga nel fare nuove leggi ad un senato, o consiglio, o altro istituto consimile, se determini le norme onde sceglierà i giudici e comporrà le magistrature, se si obbligherà di astenersi da certi atti o da certi arbitrii, e concederà delle franchigie di stampa, di coscienza, di riunione e simili; quella monarchia assoluta sarà diventata in un certo modo costituzionale. Se poi per far le leggi chiamerà i cittadini a consiglio per mezzo di deputati da questi, e conferirà alcuni diritti e prerogative e guarentigie a questo consesso, la monarchia sarà rappresentativa.

Or quando il governo si dirà parlamentare? Quando cotesta Camera elettiva, nonostante le prerogative del Principe in un regime monarchico, nonostante un Senato, potrà comporre e disfare il governo a sua posta, iniziare e fare adottare alla fine tutte le leggi che vuole, modificare o mutare perfino le leggi fondamentali dello Stato. Dalla prima forma a quest’ultima, come si vede, il centro di gravità è spostato. La somma, l’essenza della sovranità è passata dal Re nella maggioranza della camera popolare. E’ più che una evoluzione, è come una rivoluzione; incruenta, se si vuole, senza scosse, interiore e latente, ma una vera rivoluzione nella sostanza del governo poiché la potestà somma è sdrucciolata da una mano e

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F. Persico, Del regime parlamentare. Note critiche, Napoli, Tipografia della regia università, 1885, pag. 1.

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115 passata in altre.»1.

Anche Persico ammette l’ipotesi della transizione (non positiva) dalla forma costituzionale a quella parlamentare e nella ricostruzione dell’autore napoletano molto forti sono i toni antiparlamentari.

Il regime parlamentare con la sua «confusione di poteri» si è insinuato all’ombra dello Statuto che addirittura «non l’ha previsto né voluto» e, concretizzandosi nell’assoluto predominio della maggioranza numerica, esso si presenta come un nuovo regime assoluto, perché la sovranità si è spostata da un Sovrano “onnipotente” ad una altrettanto “onnipotente” camera rappresentativa.

Se dunque molti autori percepiscono che quello che veniva descritto come sistema/governo ‘costituzionale-rappresentativo’ si era trasformato (o degenerato) in ‘governo parlamentare’ (o peggio, in ‘parlamentarismo’!), come trattare questo tema spinoso evitando una delegittimazione di massa degli organi costituzionali?

In questo contesto autori come Vittorio Emanuele Orlando e Attilio Brunialti concorrono ad una rilettura della tradizione costituzionalistica liberale, in modo da rafforzare il sistema proprio per metterlo al riparo dalle numerosissime critiche che contribuivano a destabilizzarlo. Entrambi gli autori affermeranno che la forma parlamentare deriva da quella costituzionale- rappresentativa, tuttavia negheranno che la prima sia una degenerazione della seconda. I due giuristi difenderanno le istituzioni da posizioni molto distanti tra loro: Orlando sarà il capostipite del metodo giuridico e fondatore della scuola giuridica nazionale, scuola che rimarrà prevalente in Italia fino all’avvento del fascismo2; Brunialti al contrario (insieme ad autori che abbiamo già incontrato quali Mosca e Arcoleo) rappresenta invece quel filone (minoritario) di dottrinari che sul metodo giuridico orlandiano non convergeranno mai, ovvero che saranno contrari a separare nettamente la trattazione giuridica da elementi di natura politica.

Per Orlando il metodo giuridico conferisce pari dignità alla nascente categoria del Diritto pubblico rispetto alla rodata categoria del Diritto privato: esso è uno strumento fondamentale per mettere in luce le caratteristiche formali dello Stato, in quanto prevede una netta distinzione tra ciò che è giuridico e ciò che è politico.

Adottando tali basi metodologiche la prima ‘sistematizzazione’ di Orlando riguarda il concetto di sovranità. Si assiste ad una spersonalizzazione della sovranità in quanto, secondo la dottrina orlandiana, la sovranità non risiede concretamente negli individui della Nazione, né tanto meno viene condivisa tra i vari organi istituzionali come nel modello del ‘governo misto’: essa risiede sostanzialmente nello Stato in quanto persona giuridica. Lo Stato poggia sulla comunità

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Ivi, pag. 3-4.

2 Per approfondimenti sulla figura di Orlando e sulla sua concezione dello Stato e della rappresentanza rimandiamo a: G. Cianferotti, Il Pensiero di V.E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1980; P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana tra Ottocento e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986; segnaliamo inoltre numerosi contributi di Maurizio Fioravanti: M. Fioravanti, Le dottrina dello Stato e della costituzione, in AA.VV., Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, pag. 407-457; Id., Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, in AA.VV., Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma, Laterza,1990, pag. 3-87; Id., Dottrina dello Stato-persona e dottrina della costituzione. Costantino Mortati e la tradizione giuspubblicistica italiana, in Id., La scienza del diritto pubblico: dottrine dello Stato e della Costituzione tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 2001, vol. 2 pag. 657-797.

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nazionale che si è venuta costruendo storicamente, tuttavia il popolo è considerato un organo dello Stato e per questo esso esiste solo in quanto è lo Stato che lo riconosce. Il rapporto tra Stato e popolo è di rappresentanza nel senso che ciò che esiste (lo Stato-rappresentante) rende esistente ciò che prima non esisteva giuridicamente (il popolo-rappresentato). Per il giurista siciliano il popolo non esiste politicamente né prima né al di fuori dello Stato: esso è sostanzialmente un soggetto omogeneo, ma non è in grado da solo di esprimere alcun indirizzo politico, né tantomeno di raccogliersi per dare vita ad una “fase costituente” . Al contrario lo Stato-persona controlla e riconduce a sé tutte le dinamiche istituzionali, assorbendo in sé medesimo la stessa società civile. Dunque il Rechtsstaat (lo Stato di diritto) non si basa né sulla sovranità popolare, né sulla capacità delle assemblee popolari rappresentative di creare il Diritto.

Il tipo di governo conciliabile con questa concezione dello Stato di diritto è ‘il governo parlamentare’: è per provare questo assunto che il nostro autore nel 1886 scrive il famoso articolo Studi Giuridici sul governo parlamentare1.

Nello scritto egli sostiene che contro il ‘governo parlamentare’ vengono mosse critiche sia di indole politica (si tratta di quelle critiche che noi abbiamo definito ‘i mali del sistema’ e che secondo Orlando riguardano il modo di agire di un certo organo in un determinato momento storico), sia di indole giuridica (esse invece riguardano l’organizzazione giuridica e quindi l’assetto costituzionale del regime parlamentare in generale).

Il problema della letteratura antiparlamentare, non solo italiana ma europea, è che dalle critiche politiche si arriva a condannare giuridicamente l’intero sistema parlamentare. Particolarmente grave è la posizione della scuola tedesca dei Bluntschli, von Mohl e von Gneist, la quale riesce a distinguere le critiche politiche dalle critiche giuridiche, tuttavia pretende di formulare critiche giuridiche al governo parlamentare partendo però da argomentazioni astratte, metafisiche, metagiuridiche: per i tedeschi il ‘governo parlamentare’ non ha una base giuridica, non ha fondamenti nel Diritto, proprio perché vive in continua balia di maggioranze parlamentari instabili, non destinate a durare a lungo nel tempo. Per questi autori il governo parlamentare altro non è che uno Stato di fatto e non uno Stato di diritto. Inoltre Orlando pensa che le critiche mosse contro il regime parlamentare siano ingiuste perché strutturate su presupposti erronei quali la separazione meccanica del potere e la teoria della rappresentanza basata sul concetto di delegazione.

Il ‘governo parlamentare’ non si fonda su una divisione meccanica dei poteri, ma su una divisione funzionale: perciò non ha senso parlare di “confusione di poteri”.

Alla Camera rappresentativa spetta una funzione prettamente dichiarativa del Diritto: il potere legislativo si risolve così in prima battuta nell’approvazione delle cosiddette leggi proprie, in quanto il compito dei deputati non è quello di creare il Diritto, ma di rinvenire il Diritto che già esiste e che giace nella coscienza comune del popolo: in questo caso in maniera formale si riveste di autorità esterna e permanente la regola di Diritto già formatesi nella coscienza popolare e avvertita come tale dall’opinione pubblica. Tuttavia è anche vero che la Camera rappresentativa partecipa anche alla funzione esecutiva approvando le cosiddette leggi improprie, leggi che non dichiarano il Diritto già esistente, ma che si limitano ad amministrare e ad ordinare. Se si ammette la possibilità della Camera di partecipare alla funzione esecutiva,

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V. E. Orlando, Studi Giuridici sul governo parlamentare, in «Archivio Giuridico», 36 (1886), pag. 521- 586. Oggi l’articolo si trova ripubblicato in V. E. Orlando, Diritto pubblico generale. Scritti vari coordinati in sistema (1881 - 1840), Milano, Giuffrè, 1940, pag. 345-415.

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risulta così perfettamente costituzionale che la Camera rappresentativa partecipi anche al meccanismo della fiducia governativa: per mantenersi in carica è usuale quindi che il Gabinetto debba avere anche la fiducia della maggioranza dell’assemblea e che cada quando questa fiducia venga revocata.

In secondo luogo la rappresentanza non può essere concepita come delegazione del potere: ciò implicherebbe che la sovranità risieda nella volontà popolare, che tale volontà venga trasfusa dagli elettori agli eletti nella camera rappresentativa e da essi venga trasmessa al Governo, quest’ultimo concepito come vero e proprio comitato esecutivo della maggioranza parlamentare. Tale teoria è da considerarsi falsa per vari motivi.

Lo Stato è un soggetto originale che detiene la sovranità in quanto persona giuridica: il popolo ed il Governo esistono perché sono organi dello Stato: è lo Stato che dà loro un significato. In base a ciò il popolo non esiste politicamente e così la sovranità non può risiedere esclusivamente nella volontà dei singoli individui come sostiene la dottrina della sovranità popolare.

Inoltre la delegazione di poteri in sé è erronea dal momento che implicherebbe la dottrina del mandato imperativo: la rappresentanza invece deve essere concepita come una designazione di capacità poiché in Parlamento saranno eletti i migliori, i più capaci, coloro che meglio di altri sapranno attestare il Diritto già esistente e rendere efficiente uno dei principali organi dello Stato, quale appunto l’assemblea rappresentativa.

A questo proposito è inconcepibile che l’assemblea rappresentativa stessa “controlli” il Gabinetto, in quanto esso non è indicato solamente dalla maggioranza, ma dal concorso di essa con la volontà regia: in più, adottando anche la prospettiva gladstoniana, sarebbe più corretto insistere sulla parziale autonomia del Gabinetto dalla maggioranza che lo origina, sulla capacità del Gabinetto di “spogliarsi” dalla politicità e dalla partigianeria della maggioranza. Il Gabinetto dovrebbe frenare e dirigere la stessa maggioranza numerica e quindi, tutto considerato, più che di un comitato esecutivo della maggioranza si dovrebbe parlare del Gabinetto come di un comitato direttivo della maggioranza.

Se dunque il ‘governo di gabinetto’ non si fonda né sulla divisione meccanica dei poteri, né sulla dottrina della delegazione del potere, qual è il fondamento giuridico di tale assetto politico? Per Orlando è senza dubbio la Corona che conferisce al Gabinetto un carattere giuridico.

Orlando presenta così il governo di Gabinetto come una forma equilibrata e fisiologicamente dualistica in quanto esso è da considerarsi il punto di incontro fra due estremi: fra il principio monarchico, incarnato dallo stesso Sovrano e il principio democratico incarnato dalle assemblee rappresentative.

Il Re non deve avere solo un ruolo notarile prendendo atto dei risultati elettorali, ma mantiene una quota essenziale nella funzione di indirizzo politico. Infatti mentre la sola origine parlamentare farebbe del gabinetto un mero governo di partito (e quindi avrebbe ragione la scuola tedesca nel definirlo uno Stato di fatto), la contemporanea derivazione dal potere regio ne fa un governo giuridico (e quindi uno Stato di diritto). L’indirizzo generale politico dunque viene dettato congiuntamente sia dal Sovrano (e dal Gabinetto sua emanazione), sia dalla Camera rappresentativa.

E’ questa l’unica rappresentazione possibile del ‘governo parlamentare’, poiché secondo Orlando nel nostro paese un governo fondato sulla divisione meccanica dei poteri e sulla

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dottrina della delegazione del potere non è mai esistito. Inoltre questa conformazione costituzionale è sempre stata la stessa fin da quando lo Statuto è stato concesso1.

Lo Statuto non è mai stato “stravolto” dall’onnipotenza parlamentare, anzi, dal 1848 in avanti, la configurazione del potere è sempre stata la stessa: il governo parlamentare con le caratteristiche descritte da Orlando (divisione funzionale dei poteri, concezione della rappresentanza come designazione di capacità, carattere giuridico conferito dalla Corona) è in essere sin da quando è stato concesso lo Statuto.

Quindi in Italia il regime parlamentare è nato con lo Statuto, ma in altre realtà, dove le tradizioni storico-politiche hanno avuto una durata maggiore, la tendenza riscontrata è sempre stata quella del passaggio da una forma costituzionale ad una parlamentare. Qualche anno più tardi nei Principii di diritto costituzionale il nostro autore affermerà che il Gabinetto costituisce proprio l’evoluzione più avanzata nel campo della storia delle istituzioni politiche:

« Il Gabinetto è la caratteristica della forma di governo parlamentare, e questa, a sua volta è la forma ultima di sviluppo finora raggiunto dalla forma rappresentativa, in antitesi alle altre costituzioni moderne, che sono rimaste semplicemente rappresentative o, come altri dice, puramente costituzionali.»2.

La tendenza al passaggio dalla forma costituzionale-rappresentativa alla parlamentare ha come modello il caso inglese, mentre le uniche eccezioni alla regola sono costituite dalle realtà mittel-europee, come si ribadisce in una nota a margine degli stessi Principii :

«L’apprezzamento della utilità delle due forme di governo nei vari tempi e nei vari popoli è problema d’indole politica, che quindi noi escludiamo. Ci basta solo notare il fenomeno storico che l’ordinamento di quasi tutti gli Stati andò trasformandosi dal tipo semplicemente costituzionale al tipo parlamentare. L’esempio classico dell’Inghilterra delinea nettamente questa evoluzione, proceduta in modo lento e preciso dalla rivoluzione del 1688 ai nostri giorni. [...]

Soltanto la Germania fu sempre restia ad un’evoluzione in senso parlamentare, per ragioni sociali e politiche da cui noi prescindiamo, come per esempio, l’indole del popolo, i detriti del feudalesimo, il concetto dell’impero, la sua natura federale, il prestigio tradizionale del capo dello Stato.»3.

L’intervento di Orlando è imprescindibile per spogliare il lemma ‘governo parlamentare’ da quelle sfumature negative con cui era stato dipinto finora. Non apportando sensibili modifiche ai lemmi in uso, è a livello concettuale che agisce la sua retorica. Inoltre l’attribuzione della sovranità ad un soggetto unitario come lo Stato-persona permette di focalizzare l’attenzione sui rapporti tra gli organi costituzionali.

Il ‘governo parlamentare’ o ‘di gabinetto’ si presenta come un regime stabile ed equilibrato non tanto perché si basa sulla compartecipazione della sovranità, come nel modello del ‘governo misto’, ma perché l’indirizzo politico del sistema è dettato congiuntamente dal Gabinetto (emanazione del Sovrano) e dall’assemblea rappresentativa.

Orlando ammette che in linea di massima il ‘governo parlamentare’ deriva da quello ‘costituzionale’ (dove il Gabinetto ancora non esiste), ma ciò non riguarda da vicino il caso

1

Scrive Orlando a pag. 53 dei Principii di diritto costituzionale, Firenze, Barbera, 1928⁵: «Così, sino da’suoi primordi, la forma del nostro Stato fu non semplicemente rappresentativa, ma altresì parlamentare».

2

V. E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, Firenze, Barbera, 1889¹. Le nostre citazioni, sono tratte dalla quinta edizione del 1928. In particolare questa si trova a pag. 233.

3

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italiano poiché, sin da quando è stato concesso lo Statuto, si è avuto un regime parlamentare e quindi da quel momento in poi il sistema è sempre stato in equilibrio. Naturalmente al regime si possono rivolgere delle critiche di natura politica, ma la sua conformazione giuridica risulta inattaccabile. Dal punto di vista giuridico non solo il governo parlamentare è conciliabile con il Rechtsstaat, ma è esso stesso il Rechtsstaat.

Il contributo orlandiano avrà delle ripercussioni anche sulla letteratura antiparlamentare del decennio successivo. Il modello equilibrato del ‘governo di gabinetto’, scevro da ogni sfumatura negativa, si cristallizza nella mente degli osservatori come modello positivo, cosicché ogni deviazione da esso sarà da considerarsi una vera e propria “deviazione dalla norma”: quando la Camera dei deputati cercherà di accaparrarsi il potere di indirizzo politico a scapito del Gabinetto (e del Re), cercando di far prevalere la sua visione partigiana (e dunque politica) allora si comincerà a parlare di ‘parlamentarismo’ come degenerazione del sistema. La difesa delle istituzioni di Attilio Brunialti (1849-1920) parte da presupposti diversi. Egli, come Orlando, contribuisce a sua volta a diffondere il “modello positivo” del ‘governo parlamentare’. Anch’esso sarà concepito come un assetto equilibrato, ma, per Brunialti, si baserà sul dogma della sovranità nazionale e non sulla sovranità dello Stato-persona: un approccio però ugualmente “spersonalizzante” della sovranità.

Abbiamo incontrato il poliedrico giurista vicentino anche nei paragrafi precedenti, tuttavia il suo nome rimane indissolubilmente legato alla «Biblioteca di scienze politiche»: una collezione contente opere di carattere costituzionale-amministrativo sia di autori italiani, sia di autori stranieri (alcuni tradotti per la prima volta in italiano), pubblicata in più volumi e in più serie a partire dal 18841. L’opera ha un valore divulgativo eccezionale perché diffonde le traduzioni dei testi dei più autorevoli intellettuali stranieri del periodo, soprattutto inglesi, ma anche francesi e tedeschi: da Bentham a Stuart Mill, da Todd a Bryce, fino a Von Gneist, Von Stein, Erskine May, Tocqueville e altri ancora.

Per la nostra storia lessicale è rilevante la prefazione di Brunialti al secondo volume della prima serie della «Biblioteca», prefazione intitolata Le forme di Governo.

Nella prefazione Brunialti prima riporta tutti gli autori che hanno affrontato il tema delle forme di governo, poi propone una sua riflessione sull’argomento esponendo la successione storica delle forme di governo che la società ha conosciuto dall’alba dei tempi fino ai giorni nostri. Di tale elenco, a tratti confuso e farraginoso, ci limiteremo a presentare solo una parte, ovvero la

1 La prima serie della «Biblioteca» (1884-1892) risulta incentrata proprio sull’analisi del governo parlamentare inglese, a riprova del fatto che in questi anni l’attenzione degli italiani è rivolta proprio verso fonti anglofone: il primo volume (1884) contiene la prima traduzione in italiano de La democrazia in America di Tocqueville; il secondo volume (1886) raccoglie numerosi saggi sulle forme di governo: Il governo rappresentativo di Stuart Mill e altri scritti di De Parieu, Passy, Hosmer, Cornewall Lewis, De Laveleye; il terzo volume (1886) e il quarto (1888) contengono rispettivamente il Governo Parlamentare in Inghilterra: sua origine, svolgimento e azione pratica di Todd e le Leggi, privilegi, procedure e consuetudini del parlamento inglese di Thomas Erskine May; il sesto volume (1891) viene dedicato agli stati federali dove vengono analizzate, tra le altre, anche la costituzione americana e quella della confederazione elvetica. I tre restanti volumi trattano di temi vari: il quinto volume per esempio è dedicato alla libertà nello Stato moderno con scritti di Stuart Mill, Lieber, Constant e Orlando; il settimo, con scritti di Bähr, Ahrenz, Gneist, è dedicato alle diverse dottrine dello Stato; l’ottavo volume invece affronta il tema scottante dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Brunialti scrive tutte le prefazioni degli otto volumi. Per approfondimenti si rimanda a: I. Porciani, Attilio Brunialti e la “Biblioteca di scienze politiche”. Per una ricerca su intellettuali e Sato dal trasformismo all’età giolittiana, in I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia fra Otto e Novecento, a cura di A. Mazzacane, Napoli, Liguori, 1986, pag. 191- 229.

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successione storica delle forme monarchiche. Secondo Brunialti col passare del tempo la forma monarchica ha subito una transizione ben precisa che vede contemporaneamente diminuire (ma non sminuire) i poteri del sovrano ed aumentare i poteri del popolo.

Ecco il famoso elenco di successione che l’autore propone: ‘monarchia mista primitiva o familiare’, ‘patriarchia ariana’, ‘dispotismo orientale’, ‘basilia ellenica’, ‘tirannide’, ‘monarchia