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Il ritorno alla ‘forma costituzionale pura’: le interpretazioni dello Statuto e il

Capitolo 4. Dagli anni Novanta alla Prima Guerra Mondiale: dal ‘governo parlamentare’ al

4.2 La degenerazione del sistema: ‘il parlamentarismo’

4.2.2 Il ritorno alla ‘forma costituzionale pura’: le interpretazioni dello Statuto e il

La sconfitta di Adua nel marzo 1896 e la successiva pubblicazione dei Libri Verdi, decretano la fine politica di Francesco Crispi. Il re affida il nuovo governo a Rudinì, il quale, nonostante l’opposizione del Sovrano, sarà costretto a portare avanti una politica economica restrittiva (che implica anche una riforma dell’esercito) per far fronte ad un bilancio statale costantemente in rosso.

A fronte di una timida ripresa economica, l’Italia non riesce comunque ad uscire dal contesto di immobilità, di paralisi istituzionale, a cui il ‘parlamentarismo’ la condanna.

Mentre per il solo giurista Pietro Chimienti (1864-1938) il ‘parlamentarismo’ è un regime transitorio che potrebbe portare ad una nuova epoca3, la maggior parte dei commentatori insiste sul carattere degenerativo del ‘parlamentarismo’, sullo squilibrio che regna nel sistema e quindi sulla necessità di ricondurre gli organi dell’architettura costituzionale al ruolo che inizialmente era stato ponderato per loro, in modo da riproporre un ‘governo parlamentare’ ben bilanciato.

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F. Nunziante, La crisi del parlamentarismo, in «La Rassegna Nazionale», 20 (1898), vol. 101, pag. 240. 2 F. Racioppi, Forme di Stato e forme di governo, Roma, Società editrice Dante Alighieri, 1898. A pag. 244 si legge: «Cosicché, il Governo Costituzionale ordinato secondo i magnifici precetti dell’Inghilterra ci ha condotti - ed è stato un gran bene - al regime parlamentare: ma l’accentramento amministrativo e la difettosa organizzazione dei partiti ci hanno poi fatto scendere - ed è stato un gran male - dal regime parlamentare al parlamentarismo.»

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Scrive Chimienti a pag. 107 de La vita politica e la pratica del regime parlamentare, Torino, R. Frassati e C. editori, 1897: «Nella lotta senza tregua, che si svolge tra le alte necessità dello Stato e le tendenze rinnovantisi della coscienza sociale, nulla di assoluto ci è occorso di notare, nulla che non sia, così e non diversamente, determinato dalle condizioni morali e materiali del periodo storico che attraversiamo. Lo stesso parlamentarismo, che abbiamo sorpreso, accusato e dileggiato dalla critica, come una forma artificiale ed arbitraria della mancanza di contenuto della vita politica moderna, a noi si è rivelato come il primo e necessario esperimento delle istituzioni rappresentative, come una forma di transizione occorrente alle lente determinazioni della rinnovata coscienza sociale sugli istituti e sul contenuto del ringiovanito organismo dello Stato.».

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L’ “onnipotenza parlamentare” sembra essere il problema principale, quindi per gli osservatori è opportuno elaborare un nuovo sistema di pesi e contrappesi per riequilibrare il sistema. Da ciò la proposta di riforma del Senato o la riproposizione della creazione di un consiglio privato della Corona1. Tuttavia la proposta che fa più scalpore è quella avanzata da Sidney Sonnino, con l’articolo Torniamo allo Statuto.

Stando all’articolo, dal titolo estremamente suggestivo, un’interpretazione letterale delle norme statutarie non solo avrebbe consentito l’abbandono del ‘parlamentarismo’ «ammalato» per ritornare ad un tipo di governo ‘costituzionale puro’ (realmente inscritto nello Statuto), ma ciò avrebbe posto un argine allo strapotere della Camera (e del Gabinetto), ridando slancio alla prerogativa regia.

Secondo Sonnino il nocciolo della questione consiste nella «progressiva usurpazione del potere esecutivo per parte della Camera dei deputati»2: a causa di una cattiva divisione dei poteri la Camera pretende di governare, controllando strettamente il Ministero e questo, a sua volta, cerca di rimanere in carica agendo sull’amministrazione, usando soprattutto metodi clientelari e manipolando le elezioni grazie all’intervento dei prefetti. Inoltre il Gabinetto si sente depositario esclusivo del potere esecutivo e ciò va a scapito del Re, che si vede spogliato delle sue prerogative. La situazione è aggravata dall’avanzata dei moderni «dispotismi soffocanti ogni libertà civile e morale», ovvero il socialismo e il clericalismo, e dalla scarsa lucidità con cui i liberali stanno affrontando la questione. Il predominio della Camera ha avuto tutta una serie di conseguenze, la peggiore delle quali viene descritta così:

« A poco a poco è sorto e si è affermato un istituto nuovo, non contemplato affatto nello Statuto, e che ogni giorno di più tende a costituirsi come un potere autonomo, fuori della legge, e si alimenta e s’impingua di tutte quelle funzioni di cui apertamente o tacitamente sta spogliando gli altri poteri

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Uno dei primi accenni alla formazione di un Consiglio Privato della Corona è da attribuirsi al senatore e diplomatico italiano di origini ebraiche Isacco Artom (1829-1900), nella sua introduzione alla prima traduzione italiana di una famosa opera di Rudolf Von Gneist, Lo Stato secondo il diritto, ossia la giustizia nell’amministrazione politica, Bologna, Zanichelli, 1884. Il progetto venne ripreso anche da Federico Persico in Le rappresentanze politiche e amministrative. Considerazione e proposte, Napoli, Marghieri 1885. L’idea venne poi successivamente riproposta sia da Gaetano Mosca in Le costituzioni moderne del 1887 e sia da Ruggiero Bonghi nel 1893 con L’ufficio del principe in uno Stato libero. Il contributo più “recente” favorevole all’introduzione di questo organismo sarà proprio di Ignazio Brunelli, Della istituzione di un Consiglio privato della Corona nel nostro regime parlamentare, Bologna, Zanichelli, 1895, tuttavia nel successivo Commento allo Statuto del Regno, Torino, UTET, 1909, scritto a quattro mani col collega Francesco Racioppi, lo stesso Brunelli abbandonerà l’idea iniziale.

Da sempre contrario all’introduzione di un consiglio privato della Corona è Domenico Zanichelli il quale scrive vari articoli fra cui citiamo, Il Consiglio privato della Corona, in «Studi senesi», vol. XIII, fasc. I-II, 1896, pag. 73-93. Secondo il giurista modenese infatti non aveva senso ingabbiare con meccanismi giuridici un sistema politico come il governo di gabinetto. Inoltre sembrava un controsenso rafforzare il potere regio rendendone sempre meno personale l’esercizio e affidandolo a consiglieri privati: in tal modo non solo la Camera si sarebbe intromessa nella prerogativa regia, ma tale prerogativa sarebbe risultata ancora più mortificata dall’”intrusione” di questi eminenti funzionari politici. Per un approfondimento sull’argomento si veda: C. Mozzarelli, «Un’autorità nebulosa come cirri». Il dibattito di fine secolo sul Consiglio privato della Corona e le prerogative regie, in «Cheiron», 25- 26/1996, pag. 41-57; F. Mazzonis, La Monarchia nella storia dell’Italia unita. Problematiche ed esemplificazioni, Roma, Bulzoni, 1997.

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Un Deputato (Sidney Sonnino), Torniamo allo Statuto, in «Nuova Antologia», 151(1897), pag. 9-28, oggi ristampato in Id., Scritti e discorsi extraparlamentari, a cura di B. F. Brown, Bari, Laterza, 1972, vol. I, pag. 575-597 da cui citeremo. La citazione è a pag. 578.

164 costituzionali.»1.

Il Gabinetto, originatosi dallo strapotere della Camera, viene indicato come una sorta di mostro a due teste che, da una parte spoglia la stessa Camera della funzione legislativa decretando d’urgenza, dall’altra parte priva il Sovrano non solo del suo prestigio, ma anche delle sue prerogative. Questo mostro mitologico è disposto a sfidare sia la Camera che il Senato, che la Corona. E’ proprio nei confronti di quest’ultima che il Ministero spadroneggia: «Con la teoria che il Re regna e non governa, si nega, contro e la lettera e lo spirito dello Statuto, che il Principe possa avere e tanto meno manifestare una qualsiasi volontà diversa da quello del Ministero, finché questo possa presentare un voto favorevole della Camera, fosse pure la maggioranza di un solo voto, e con qualunque mezzo ottenuta.»2.

Non solo non si ammette che il Sovrano possa avere una opinione propria, ma si dà per scontato che, in caso di dissidio tra il Ministero e la Camera, il Sovrano scioglierà il parlamento e indirà nuove elezione. In modo tale si nega totalmente al Re una capacità di sintesi e di ricomposizione delle crisi parlamentari.

Secondo Sonnino «il vizio attuale» appena descritto è « nettamente contrario a quanto prescrive e vuole lo Statuto». In base agli articoli 3,5,6,7,8,9,65 e 68, al Sovrano spetta sia il potere esecutivo sia una «parte non inferiore a quella del Parlamento nel potere legislativo, avendo egli eguale diritto di proposta delle leggi, ed essendone a lui solo riservata la sanzione»3. Il potere esecutivo può spettare solo «a chi si immedesima nell’interesse generale» e «non potrebbe mai essere affidato ad un istituto che fosse emanazione diretta della maggioranza e di un solo partito»4: lo Statuto «nomina a più riprese i ministri del Re», ma «non fa mai parola di un Ministero, o Gabinetto, o consiglio dei Ministri.»5. Quindi «se invece il Governo, impersonato dai Ministri, dipendesse direttamente dalla maggioranza parlamentare, anche per la designazione delle persone che debbono comporlo, l’intera potestà legislativa verrebbe in evidente contraddizione con lo spirito dello Statuto, assorbita dalla sola Camera elettiva, anzi della sola maggioranza dei suoi membri».6 (si noti in questa affermazione come ritornano sia le riflessioni di Gladstone che quelle di Orlando contro il “governo di partito”).

Sonnino conclude così la sua infausta analisi:

« In Italia, lo ripeto, è sorto un potere nuovo [quello del Gabinetto], parassita e ibrido, dallo Statuto non contemplato, il quale facendosi strumento e sgabello delle pretese dottrinarie e delle crescenti usurpazioni della Camera dei Deputati, che vorrebbe arrogare a sé sola il diritto di parlare come interprete della volontà nazionale, è riuscito col dichiararsi a sua volta la emanazione legittima e autorizzata della rappresentanza nazionale, ed una progressiva ed effettiva usurpazione di quasi tutte le funzioni normali della Corona, facendone altrettante funzioni da sé dipendenti, e tende sempre di più a mettere nell’ombra il Principe; mentre al tempo stesso ha snaturate o distrutte le funzioni proprie della camera elettiva. La Camera, avendo voluto invadere le competenze altrui e governare, è venuta invece a 1 Ivi pag. 585. 2 Ivi pag. 586. 3 Ivi pag. 590. 4 Ivi pag. 590. 5 Ivi pag. 589. 6 Ivi pag. 590.

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perdere anche di fatto l’esercizio libero delle stese funzioni legislative, attribuitale dallo Statuto; e si trova, ogni giorno più, mancipia del Ministero.»1.

Da questa situazione non si può uscire soltanto richiamando ai loro principi le istituzioni rappresentative e costringendo Camera e Governo nei limiti dei loro rispettivi poteri, come suggeriva l’onorevole Di Rudinì in un discorso alla Camera tenuto nella primavera del 1895, ma è opportuno rileggere lo Statuto sotto un nuovo punto di vista per sancire una migliore divisione dei poteri:

«Non si può raggiungere la meta desiderata dall’onorevole Di Rudinì *...+ se non rimontando ai principi dello Statuto in quanto esso proclama che i ministri ossia le persone preposte alla direzione delle grandi amministrazioni dello Stato non sono, né collettivamente considerati né singolarmente, i ministri della Camera, e tampoco ministri per proprio conto con diritti e titolo proprio, ma semplicemente i ministri responsabili dell’azione del Principe. Da tale ritorno ai principi dello Statuto dipende tutto il risanamento della nostra vita parlamentare.»2.

Di conseguenza Sonnino auspica il ritorno ad una interpretazione letteraria dello Statuto, il quale a suo modo di vedere prescrive una forma di governo ‘costituzionale pura’. Col il ritorno a questo assetto si realizzerebbero tutta una serie di miglioramenti della situazione politico- costituzionale che riporterebbero in equilibrio la bilancia dei poteri: impedendo ogni rapporto tra maggioranza parlamentare e gabinetto, il Re riacquisirebbe un ruolo rilevante nell’impalcatura costituzionale in quanto i ministri verrebbero considerati solo «quali ministri del principe» cioè quali organi responsabili della volontà e dell’azione del Sovrano, da lui scelti e nominati; non esistendo più un rapporto di fiducia tra Esecutivo e Legislativo, i ministri stessi non avrebbero più necessità di manipolare l’amministrazione per evitare “imboscate parlamentari” e la Camera avrebbe l’opportunità di esplicare meglio la sua “funzione originaria”: «tolta la diretta e fatale dipendenza del Ministero dall’appoggio ininterrotto della maggioranza della Camera, questa rimane più libera di occuparsi della funzione legislativa»3. Per l’attuazione delle sue idee Sonnino sostiene che sia necessario soltanto un cambio di mentalità e l’avallo dell’opinione pubblica, tuttavia il ritorno allo Statuto non si potrà mai realizzare senza il placet del Sovrano, non per niente l’articolo si conclude con un accorato appello al Re.

Il dibattito che si apre in seguito alla pubblicazione della proposta sonniniana è molto interessante dal nostro punto di vista per almeno tre ragioni: esso fornisce una soluzione autorevole al problema del ‘parlamentarismo’, pensata da uno dei più importanti esponenti della classe dirigente dell’epoca; in secondo luogo il dibattito è notevole dal punto di vista lessicale poiché per portarlo avanti si sfruttano con proprietà di linguaggio i lessici che abbiamo visto emergere nelle decadi precedenti; infine ci permette di far luce sulle dinamiche tra i vari organi costituzionali, e sulle interpretazioni della forma di governo dello Statuto, in modo da poter confrontare queste posizioni con quelle emerse sempre in ambito italiano tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

1 Ivi pag. 593-594. 2 Ivi pag. 581. 3 Ivi pag. 583.

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Secondo Domenico Zanichelli, l’articolo di Sonnino1 è stato male interpretato: esso «mirava piuttosto a deplorare gli eccessi e i vizi del sistema parlamentare in Italia che ad invocarne il suo abbandono»2, poiché è sotto gli occhi di tutti che «da noi attualmente mancano gl’istituti, le tradizioni e le condizioni sociali favorevoli al sistema rappresentativo puro»3. Da notarsi come Zanichelli usi il sintagma sistema ‘rappresentativo puro’ come sinonimo di sistema ‘costituzionale puro’.

Il nostro autore ribadisce con forza che il sistema parlamentare è un sistema politico e non giuridico, non per niente lo Statuto non prescrive affatto questa forma di governo, sebbene la «corrente delle idee che condusse alla formazione dello Statuto», che si ispirava alle Carte francesi del 1814 e del 1830 (a loro volta emule della costituzione inglese), «era tutta favorevole al sistema parlamentare»4. Per questo, fin dalla sua concessione, sebbene la nostra Carta tratteggiasse una forma ‘costituzionale pura’, lo Statuto fu interpretato da subito in senso parlamentare5.

Il governo parlamentare non è esplicitamente previsto dallo Statuto, ma bisogna analogamente affermare che il sistema parlamentare non è contrario allo Statuto, quindi «non il sistema parlamentare in se stesso, ma alcune sue deviazioni o degenerazioni possono, se perdurassero aggravandosi, dirsi contrarie allo Statuto»6. Secondo Zanichelli ciò che potrebbe alterare lo Statuto riguarda proprio l’interpretazione della prerogativa regia ed in particolare l’arrivare a sostenere che il Re in Italia abbia un ruolo troppo ristretto.

Nel proseguo dell’articolo le energie di Zanichelli sono tutte tese a dimostrare che sin dalla nascita del Regno d’Italia, la monarchia ha avuto un ruolo centrale nell’impalcatura statale ed è addirittura stata un vero e proprio propulsore che ha favorito l’unità del Paese. La tesi di Zanichelli risulta così in netto contrasto con quella di Sonnino: mentre per il giurista modenese le prerogative regie possono naturalmente convivere con una forma di governo parlamentare, per il politico pisano invece le prerogative della Corona potranno rendersi effettive solo con un sistema che non è parlamentare ma costituzionale puro.

1 Ricordiamo però che nel momento in cui scrive, Zanichelli non è ancora al corrente del fatto che l’autore del Torniamo allo Statuto sia Sidney Sonnino.

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D. Zanichelli, Lo Statuto e il sistema parlamentare, in «Studi Senesi», 14 (1897), pag. 177. 3

Ibidem. 4 Ivi, pag. 178. 5

Ivi, pag. 177-178. A pag. 304 dell’Introduzione storica allo studio del sistema parlamentare italiano (in «Studi Senesi», 14 (1897), pag. 297-344), Zanichelli è ancora più chiaro sull’argomento e scrive: «Alcuni hanno osservato (massime da quando sembra che le libere istituzioni si corrompano) che lo Statuto piemontese non stabilisce già la forma di governo, così detta, parlamentare, ma la rappresentativa pura e costituzionale, e che l’essersi sostituita la prima alla seconda può essere considerata come una violazione statutaria. Intorno alla questione se sia migliore per l’Italia l’uno o l’altro di questi due modi d’essere del sistema rappresentativo non è qui il luogo di discorrere, intanto ci basta osservare che nessuna costituzione scritta, né la belga, né l’inglese, né le francesi, contiene i principii del governo parlamentare, perché essi sono più d’ordine politico che giuridico; ma che la sostituzione del sistema parlamentare al rappresentativo puro è avvenuta dovunque o per naturale evoluzione degli istituti politici come in Inghilterra, o perché fin da principio questi stessi istituti sono stati di proposito deliberato capiti ed esplicati nel senso proprio del sistema parlamentare, come nel Belgio, in Francia, e aggiungiamo, in Piemonte, dove lo Statuto fu immediatamente, e per volere concorde del Re, delle Camere e del popolo, subito interpretato in modo da dare origine al governo parlamentare o di Gabinetto che dir si voglia. Quindi il sistema parlamentare non si è formato dalla degenerazione o corruzione del sistema rappresentativo instaurato dallo Statuto, ma è nato collo Statuto stesso e gli autori di questo hanno voluto espressamente stabilirlo, come la sola legittima esplicazione dell’opera loro.»

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Per Zanichelli nel governo di gabinetto il Re gode già di ampie prerogative. Il Sovrano ricopre un ruolo risolutivo sia in campo militare che in politica estera ed è nella formazione del Ministero e nei rapporti con i ministri che il suo operato è imprescindibile: in sostanza anche in questa forma di governo il Re può indicare una linea politica.

Mentre in Inghilterra il Gabinetto gode della fiducia di una maggioranza omogenea, in Italia le maggioranze non sono solide, per cui le indicazioni del Re sono ancora fondamentali: egli è l’unico che può legittimare quelle maggioranze eterogenee, dando fiducia ai ministri e mettendoli al riparo dalle intemperie assembleari: «l’unità nell’indirizzo politico, la loro ragion d’essere non la possono trovare questi Ministri che nella fiducia piena ed intera, senza sottintesi, senza restrizioni, della Corona, e solamente in questa fiducia possono avere la forza per resistere alle pressioni dei gruppi componenti la maggioranza, per disciplinarli organicamente e costituirli, se non in partito vero e proprio, in maggioranza che del partito abbia le più importanti caratteristiche»1. Inoltre è il Sovrano a detenere saldamente tra le sue mani il potere di scioglimento della Camera e nessun ministro potrà mai usurparlo.

Nemmeno il Presidente del Consiglio dei Ministri (carica ignota allo Statuto, ma non contraria ad esso dato che non è esplicitamente vietata) può mettere in discussione la prerogativa regia, poiché questa figura è la prima ad avere uno stretto rapporto fiduciario con il Sovrano e a coprirlo in prima persona di fronte agli atti politici dei ministri.

Per Zanichelli dunque il governo di gabinetto non altera l’essenza della prerogativa regia e di conseguenza non si palesa necessario un ritorno ad sistema costituzionale puro (‘rappresentativo puro’, per utilizzare le sue parole):

«Abbiamo detto del potere regio e visto come esso sia presente, vivo e attivo nello Stato [...]. Ora quando si abbia il concetto che il potere regio non è una finzione, ma una realtà nello Stato, quando esista la convinzione che esso potere è necessario al retto andamento dello Stato e che l’esplicazione politica degli istituti rappresentativi in parlamentari non può alterarne l’essenza giuridica statutaria, cessano i timori di cui si è fatto eloquente interprete l’autore dell’articolo della Nuova Antologia, e non v’è bisogno, per ovviare ai mali minacciati dalla prepotenza ministeriale o delle maggioranze, di invocare l’abolizione del sistema parlamentare e il ritorno al sistema rappresentativo puro.»2.

Parzialmente diversa l’interpretazione del costituzionalista ferrarese Ignazio Brunelli (1868- 1952), manifestata nell’articolo Statuto, Sistema parlamentare, Parlamentarismo3.

Brunelli condivide l’analisi politica di Sonnino, il sistema parlamentare è travagliato da numerosi mali, «mali, che con un nome solo, si definiscono ‘parlamentarismo’»:

«Chi può negare che talora i Ministeri usurpino i poteri della Camera? - che questa invada il potere esecutivo, e che l’uno e l’altro tendano a sopraffare le prerogative della Corona? - Chi può negare che la stessa responsabilità ministeriale diventi effimera, derisoria perché l’organo che deve farla valere risulta troppo legato all’altro contro il quale dovrebbe farla valere?»4.

Per Brunelli il ‘parlamentarismo’ vigente in Italia è dovuto sia all’instabilità dei governi, sia ai

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Ivi, pag. 187. 2 Ivi, pag. 197. 3

I. Brunelli, Statuto, sistema parlamentare, parlamentarismo, in «Idea liberale», aprile 1897, fascicolo 27, anno VII, ristampato in I. Brunelli, Impressioni e note di politica e di diritto costituzionale, Torino, UTET, 1906, pag. 96-111 (da cui citeremo).

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vizi dei deputati, tuttavia pensare di poter abbandonare il sistema parlamentare, come suggerisce l’onorevole Sonnino, gli sembra una proposta inapplicabile. Egli, a differenza di Zanichelli, come aveva già avuto modo di scrivere1, si dimostra favorevole alla necessità di rinvigorire la funzione regia in Italia (magari instaurando un Consiglio Privato della Corona), tuttavia il rimedio sonniniano non solo non sembra «realmente salutare», ma un tornare allo Statuto appare propriamente irrealizzabile.

Secondo l’autore ogni statuto deve essere interpretato: esso «diventa e rimane, non quello che lo farebbe figurare la nuda lettera, ma quello che vogliono che diventi e sia lo spirito che ne