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Il governo parlamentare tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta

Capitolo 4. Dagli anni Novanta alla Prima Guerra Mondiale: dal ‘governo parlamentare’ al

4.1 Il governo parlamentare tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta

Dopo la morte di Agostino de Depretis, nell’agosto del 1887 diventa Presidente del Consiglio Francesco Crispi, già ministro dell’interno nel precedente governo. Il clima che si respira nel Paese è teso: ad una crescente insoddisfazione per un ruolo marginale dell’Italia in politica estera si somma una instabilità anche sul fronte interno. La crisi economica profonda, dovuta soprattutto alla congiuntura internazionale negativa, causa fermento e disordini, elementi favoriti dalla incipiente politicizzazione del movimento operaio e contadino. La maggioranza ereditata dallo statista lombardo Depretis sembra ormai in crisi, per cui la realizzazione delle cosiddette riforme della “seconda unificazione amministrativa” rappresentano un successo per l’ex garibaldino Crispi.

Dal punto di vista della nostra storia lessicale la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni

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Ivi, pag. 452. 2

B. Mussolini, citazione dal discorso di insediamento del Presidente del Consiglio dei Ministri, pronunciato il 16 novembre 1922 alla Camera dei Deputati, raccolto in B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di Eduardo e Duilio Susmel, Firenze, La Fenice, 1956, vol. XIX, pag. 15 sgg.

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Novanta costituiscono un periodo di “bonaccia”, ma la calma si sa, precede la tempesta. Il ‘governo parlamentare’ grazie all’intervento di insigni giuristi aveva perduto quelle sfumature negative con cui inizialmente il sintagma si era affermato nel linguaggio comune. Tuttavia ad un decennio di distanza dalle primissime denunce, “i mali del sistema” permangono: esso non è percepito in equilibrio e, nonostante gli sforzi del Governo per blindare la sua azione, nell’immaginario collettivo sembra ancora una volta la Camera ad avere un ruolo preminente.

Per descrivere la situazione politico-costituzionale in questo frangente si continuerà ad usare il lemma ‘governo parlamentare’, poi però si comincerà ad impiegare un vocabolo ad hoc che denota la degenerazione del regime parlamentare rettamente inteso: ‘parlamentarismo’. Ripercorriamo gradualmente questa strada in discesa.

Nel 1889 Domenico Zanichelli dà alle stampe il suo saggio Del Governo di Gabinetto in cui si propone di «studiare le condizioni necessarie affinché l’istituto politico caratteristico della costituzione inglese, conosciuto con il nome di Gabinetto, possa vivere e prosperare negli altri paesi civili»1. Infatti come ormai è universalmente noto «il sistema parlamentare, meno che in Inghilterra, ha gravi difetti, e produce gravissimi inconvenienti»2. Nonostante Zanichelli si definisca un grande sostenitore del regime parlamentare, il confronto tra il governo parlamentare inglese e il governo parlamentare in ambito continentale (specialmente in Italia) è a dir poco impietoso: da un lato persiste l’idealizzazione dell’esperienza inglese, dall’altro la situazione che si è venuta a creare sul suolo europeo è molto peggiore rispetto al modello originale.

A differenza di ciò che sostiene Vittorio Emanuele Orlando, per Zanichelli il ‘governo di gabinetto’ ha un carattere essenzialmente politico e non giuridico. Infatti «nessuna legge regola quest’organo importantissimo dello Stato moderno»3: ciò ha dei risvolti significativi per il suo sviluppo.

In Inghilterra il governo parlamentare si è affermato quando l’organizzazione amministrativa si era già consolidata per cui, nonostante l’origine politica del Gabinetto, l’amministrazione stessa è sempre rimasta al riparo da influenze partigiane. Inoltre neanche in seguito si è assistito ad una sorta di infiltrazione del governo nell’amministrazione poiché sul suolo inglese sono riscontrabili sia un forte senso delle autonomie locali (che si concretizza nel decentramento e nel self-government), sia perché i cittadini sono gelosamente orgogliosi della la loro libertà individuale e non sentono il bisogno di chiedere protezione e aiuti allo Stato. Oltremanica l’allargamento graduale del suffragio, non solo ha impedito la nascita di partiti “extralegali”, ma ha anche rafforzato fazioni e compagini politiche “legali”. Le forze legali si trovano rappresentate in Parlamento dalla parte migliore della classe dirigente, così da poter affermare che essa rispecchia fedelmente l’opinione pubblica.

Sul continente europeo l’instaurazione del regime parlamentare è stata molto più difficoltosa. Innanzi tutto perché esso è nato ex abrupto: dall’assenza di assemblee rappresentative nei regimi assolutistici si passa, tramite la concessione di statuti, all’instaurazione di un regime «rappresentativo puro» a cui per una specie di «casistica curiale» si sovrappone il ‘governo di gabinetto’, non previsto da quelle Carte e Statuti4. A questo “doppio salto” va aggiunta

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D. Zanichelli, Del governo di Gabinetto, Bologna, Zanichelli, 1889, pag. III. 2

Ivi, pag. VII. 3 Ivi, pag. 5. 4

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l’inadeguatezza dell’amministrazione: «nel continente europeo l’amministrazione dello Stato non solo si era consolidata [...], ma aveva assunto dimensioni troppo vistose perché la classe politica libera, arrivando al potere, non corresse il rischio di esserne assorbita o non fosse tentata di servirsene ai suoi scopi speciali»1. Da ciò derivano due mali del governo di gabinetto odierno: l’infiltrazione della politica nell’amministrazione, che si concretizza con forme più o meno velate di clientelismo; pericolose «ingerenze dell’amministrazione nella politica», che favoriscono lo sviluppo di una burocrazia ipertrofica. Nei governi di gabinetto continentali infatti «la così detta burocrazia è onnipotente e regola tutto»2, al punto che «i ministri si trovino in balia dei loro impiegati, appena giungono al potere, e debbono venir a patti o implicitamente o esplicitamente non importa, con essi e sacrificare loro in tutto o in parte il programma che si erano prefissi nell’assumere il potere»3.

Oltre ad un eccessivo accentramento, i governi di gabinetto sul suolo continentale si distinguono anche per la mancanza di partiti. Un allargamento del suffragio introdotto troppo velocemente non ha permesso la cristallizzazione di cleaveges ben definiti «perciò i partiti come non esistono in fatto nel paese non esistono nelle Camere»4. Ciò va a detrimento del Governo: non essendoci confini ben definiti tra maggioranza e opposizione, il Gabinetto si trova in una posizione precaria ed è costretto ad usare mezzi più o meno leciti per legare a sé deputati svincolati da “lacciuoli ideologici”, i quali, non potendo rappresentare l’opinione pubblica che si trova al di fuori del Parlamento, tendono a soddisfare invece i propri interessi personali.

Zanichelli tratteggia una posizione di inferiorità del Gabinetto rispetto alla Camera elettiva, quella che in altre occasioni non si è esitato (e del resto non si esiterà neanche in futuro) a definire “onnipotenza parlamentare”5:

«il governo di Gabinetto si trova esposto a tutte le fluttuazioni dell’opinione pubblica; e le camere impotenti a formare e sostenere un Ministero *per l’assenza di partiti ben definiti+, sono solo buone ad abbatterlo, quando non preferiscono asservirsi ad esso. E il Gabinetto si trova di fronte alla Camera in una posizione infelicissima, perché non vi ha né amici, né oppositori certi, sente di essere esposto ogni momento a sorprese, non è libero nella sua azione; per governare liberamente le regioni superiori della politica i ministri si fanno servi dei deputati nelle cose d’ordine amministrativo con grave danno della 1 Ivi, pag. 11-12. 2 Ivi, pag. 14. 3 Ivi, pag. 15. 4 Ivi, pag. 34. 5

Nel 1887 sulla «Rassegna di scienze sociali e politiche» (anno V, vol. I, fascicolo CV), Zanichelli pubblica l’articolo Il partito liberale storico in Italia. Molti dei problemi dell’Italia odierna secondo l’autore derivano proprio dall’”onnipotenza parlamentare” che inquadra così: « tutto il potere politico è concentrato in un’assemblea eletta, la quale si crede sul serio padrona assoluta del Governo per investitura avutane dal popolo nei comizi. Questa investitura dà ad essa una superbia ed una smania d’ingerenza straordinaria, e non all’assemblea solo, ma ad ogni singolo suo membro, il quale si crede anch’esso sovrano. Ora da tutto ciò nascono parecchi e gravi inconvenienti. Per ciò che ha riguardo all’amministrazione, essa non funziona, perché ad ogni passo inceppata e traviata dalle ingerenze parlamentari; per ciò che ha riguardo al governo o al Ministero, neppure esso può tenersi sulla via diritta, perché occupatissimo ad accontentare i deputati e la Camera, spinto a nuove spese, impossibilitato alle economie; per ciò che ha riguardo infine alla azione legislativa vera e propria, la Camera non vuol cedere neppure un atomo della sua pretesa sovranità, quindi discussioni lunghe, noiose, confuse, sempre ricominciate, mai condotte alla fine e, come risultato, leggi discordanti, mal formulate, fomite continuo a liti e a questioni. E tutto questo perché la Camera crede di essere la padrona dello Stato e di poterne disporre a sua voglia.».

142 cosa pubblica, come ognuno vede.»1.

Nonostante tutte queste disfunzioni Zanichelli arriva a concludere che «quello di Gabinetto è sempre il governo migliore, e al di fuori di esso non c’è altra via di scampo se non cadendo o nel dominio regio o nell’assolutismo democratico»2. Il governo parlamentare (in forma monarchica) si dimostra la miglior forma di governo perché «è la caratteristica dell’epoca» e sostituirlo significherebbe andare «contro allo spirito del tempo»; inoltre «mantiene negli stati la libertà politica» e soprattutto permette la risoluzione pacifica degli eventuali conflitti costituzionali che possono venirsi a creare tra il Gabinetto e le assemblee.

Zanichelli ammette le criticità della forma di governo parlamentare, ma nella sua concezione il governo parlamentare continentale non è una versione degenerata di quello inglese, semplicemente «i paesi continentali d’Europa applicarono il sistema del Gabinetto nella sua forma esteriore senza poter riprodurre le condizioni naturali di esso»3 che invece erano proprie del caso inglese.

Cosa fare di fronte a tutto ciò? Le disfunzioni di quello che Zanichelli continua a chiamare ‘governo parlamentare’ o ‘governo di Gabinetto’ non sono irrimediabili, ma superabili grazie ad una positiva influenza della Corona.

Il Re può supplire all’inesperienza della classe dirigente; può facilitare il decentramento continuando a rappresentare egli stesso l’unità nazionale; si fa interprete dell’opinione pubblica; ha un ruolo moderatore che elimina la partigianeria del “governo di partito”; soprattutto la sua azione è imprescindibile nella legittimazione dell’Esecutivo, specialmente quando la Camera non è in grado di indicare un indirizzo politico chiaro:

«solo il monarca può facilitare quegli aggruppamenti di deputati atti a formare una maggioranza che sarà inorganica, debole, infida, ma che pure basterà a mantenere in vita un Gabinetto o a sostituirne un altro vitale quando il primo sia caduto. L’anarchia delle camere legislative che è lo scoglio più pericoloso dei governi parlamentari, può essere tolta o diminuita solo dalla monarchia.»4.

Anche a livello più “divulgativo” si riscontrano evidenti discrasie nel panorama italiano. Lo si evince dall’articolo La crisi del sistema parlamentare e i partiti politici in Italia 5, pubblicato anonimo sulla «Nuova Antologia» nello stesso periodo dell’opera di Zanichelli, ma in parziale controtendenza rispetto all’analisi del giurista.

L’autore ci presenta le storture di quell’impianto che continua a definire con vari sintagmi quali ‘sistema parlamentare’, ‘gabinetto parlamentare’, ‘istituzioni parlamentari’, considerando sia «il contegno del Parlamento rispetto al Governo», sia il comportamento «del governo rispetto al Parlamento»6.

Per quanto riguarda il Parlamento, si può dire che ormai il Senato «non è certamente in grado di fare una vigorosa opposizione al Governo»: il suo spirito di corpo è venuto meno perché «i veterani delle antiche battaglie» sono stati rimpiazzati da «pubblici funzionari», competenti ma comunque debitori nei confronti del Governo.

1 Ivi, pag. 34-35. 2 Ivi, pag. 56. 3 Ivi, pag. 55. 4 Ivi, pag. 105. 5

P., La crisi del sistema parlamentare e i partiti politici in Italia, in «Nuova Antologia», 110(1890), pag. 65-82.

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Per quanto riguarda l’altro ramo del Parlamento, a detta del nostro commentatore, coloro che sono inclini alle esagerazioni lo possono definire «una anticamera di postulanti», tuttavia l’autore stesso, più che sulla onnipotenza della Camera, insiste sul discredito che chi siede sui banchi di Montecitorio tende a gettare sull’intera istituzione. I deputati sono eternamente coinvolti in dinamiche trasformistiche che non solo rendono difficile distinguere conservatori e liberali, ma talvolta anche la stessa maggioranza e opposizione: la maggior parte di loro è inserito in fitte reti clientelari, sempre inclini al compromesso con la controparte. Inoltre il fatto che molti deputati lascino la propria carica in quanto scelti per assumere altri incarichi («prefetture, posti diplomatici, grasse sinecure») a mo’ di ricompensa, non fa che gettare altro disprezzo sull’intero istituto.

E’ vero che talvolta nel Parlamento italiano si è abusato del diritto di interrogare e interpellare il governo, ma, passando dalla descrizione del potere legislativo a quella della gestione del potere esecutivo, il nuovo corso crispino, in linea con i dettami dello Stato moderno, si presenta «autoritario, invadente, burocratico»1. La crisi del sistema parlamentare dunque passa anche dagli atteggiamenti, dagli sgarbi, del Gabinetto e dei suoi componenti nei confronti degli altri organi ed istituzioni. L’autore individua almeno tre episodi simbolo dell’esorbitanza del Governo rispetto alle sue normali funzioni.

L’atteggiamento del Presidente del Consiglio è mutato: egli non si presenta più come un primus inter pares, ma come un primus super pares: sembra quasi di essere usciti dal governo parlamentare perché «l’onorevole Crispi esercita piuttosto verso i colleghi l’autorità d’un gran cancelliere o del presidente d’una repubblica americana e li tratta allo stesso modo come subordinati, quali funzionarii che da lui dipendono gerarchicamente.»2. La «natura impetuosa dell’onorevole Crispi», non amante delle lunghe discussioni, ci porta poi al secondo punto: il governo si sottrae alle interrogazioni e alle interpellanze della Camera con un rinvio imprecisato o con altri espedienti. Si tratta di qualcosa di molto grave se paragonato ancora una volta al caso inglese dove «si svolgono sino a quindici, venti, trenta interrogazioni per seduta, parlando de omnibus rebus et quibusdam aliis»3.

Infine l’autore ricorda il boicottaggio delle elezioni nelle provincie, portato avanti con precisione meccanica dai prefetti in seguito alle indicazioni governative.

Dunque è ormai assodato che il regime parlamentare presenta dei gravi squilibri tra i sui organi che ne fanno presagire la crisi, tuttavia gli osservatori non tendono ancora a parlare né di degenerazione del sistema, né ad utilizzare un vocabolo apposito per indicare un sistema dove i caratteri della crisi contraddistinguono il sistema stesso.

L’autore dell’articolo si dimostra un osservatore particolarmente acuto del sistema costituzionale: non fermandosi alla superficiale “onnipotenza parlamentare”, riscontrata dalla maggior parte degli osservatori, riesce a cogliere quel passaggio culturale dal ‘government by discussion’ al ‘government by decision’ descritto da Cammarano, accennato nell’introduzione del capitolo. Tuttavia la profondità dell’analisi dell’anonimo autore non sarà condivisa da altri commentatori del periodo, i quali tendono ad evidenziare il ruolo esorbitante della Camera rispetto a quello dell’Esecutivo.

Le elezioni del 1890 sono favorevoli alla compagine ministeriale ma, in seguito ad un diverbio a proposito della politica finanziaria tra Bonghi e Crispi, nel quale si contrapponeva le ragioni del 1 Ivi, pag. 79. 2 Ivi, pag. 68-69. 3 Ivi, pag. 72.

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“partito delle economie” a quelle del “partito degli investimenti”, lo stesso Crispi è costretto a dimettersi.

Il nuovo governo presieduto da Rudinì si propone di risanare il bilancio statale e di portare avanti una politica estera moderata, tuttavia l’anticrispismo non è un collante sufficiente per mantenere insieme l’eterogenea maggioranza che lo sostiene, destinata ben presto a sfaldarsi. L’incarico di formare un nuovo governo viene affidato a Giovanni Giolitti, già ministro delle finanze ad interim nel precedente governo Crispi.

Giolitti, appartenente alla sinistra moderata ma non crispina, cresciuto nella macchina burocratico-amministrativa dello Stato, si presenta come un “uomo nuovo” sulla scena politica, non potendo vantare neanche un ruolo di rilievo nelle vicende risorgimentali.

Il Parlamento lo accoglie con sdegno: invece di adottare la consuetudine del “sincero esperimento”, appena il nuovo governo si presenta alla Camera, viene messa in votazione una mozione di fiducia, fatto del tutto inedito per l’epoca1: con ciò i deputati volevano censurare indirettamente il Re, convinti del fatto che Giolitti non fosse l’uomo adatto per traghettare il Paese in quel delicato frangente. La mozione viene approvata con soli nove voti di vantaggio e Giolitti decide di presentare le sue dimissioni al Sovrano. Umberto I le respinge, ma accetta di buon grado di sciogliere la Camera e di indire nuove elezioni per il novembre 1892.

Le elezioni del 1892, le prime che si svolgono con il ritorno al sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali, confermano la maggioranza dei ministeriali. Il governo Giolitti può rimanere in carica, ma presto verrà travolto dalla scandalo della Banca Romana che contribuirà a far vedere ancora con più scetticismo le istituzioni parlamentari, colpevoli agli occhi dell’opinione pubblica di aver taciuto le gravi condizioni in cui versava l’istituto bancario per difendere interessi privati di politici e deputati influenti (probabilmente anche di esponenti della casa reale).

Per il giurista e alfiere dell’antiparlamentarismo Pietro Sbarbaro2 (1838-1893) in questo precario frangente la «corruzione del governo parlamentare»3 è già in atto, infatti «l’ordinamento politico è infermo, corre gravi pericoli di pervertirsi, dove non si soccorra quella fortunata saggezza, quel provvido consiglio, che appresta in tempo i necessari rimedi»4. Sbarbaro individua «le malattie del Governo Parlamentare»5 non solo nell’«oltrepotenza del potere legislativo»6, che contribuisce «all’alterazione dell’equilibrio fra le grandi Magistrature dello Stato»7, ma anche nel clientelismo, nel fatto cioè «che i Deputati meno stimabili e meno stimati universalmente vengono eletti col massimo numero di suffragi, perché suppliscono alle doti, allo splendore della sapienza, della virtù, dell’ingegno, con l’infaticabile operosità dell’intrigo, colla abilità nel far piovere Croci e benefici sul proprio Collegio»8. I rimedi che egli propone sono sostanzialmente tre: una moralizzazione della politica, un maggiore decentramento, ma soprattutto una nuova strutturazione del sistema politico in due grandi

1 sulla questione di fiducia si veda: F. Rossi, Saggio sul sistema politico dell’Italia liberale. Procedure fiduciarie e sistema dei partiti fra Otto e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.

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Sulla figura di Sbarbaro si veda: F. Conti, Pietro Sbarbaro, in Dizionario Biografico degli italiani, di prossima pubblicazione.

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P. Sbarbaro, Il governo rappresentativo. Conferenza di Pietro Sbarbaro, ex deputato al parlamento nazionale, Venezia, Stab. tipo-lit. success. M. Fontana, 1892, pag. 7.

4Ibidem. 5 Ivi, pag. 9. 6 Ivi, pag. 6. 7 Ivi, pag. 8. 8 Ivi, pag. 11.

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partiti ben organizzati: «solo l’esistenza di due grandi Partiti bene ordinati come in Inghilterra e nel Belgio, potrà salvare il Governo Parlamentare dalla anarchia delle menti e delle coscienze, e impedire le facili trasformazioni, le scandalose evoluzioni, e confusioni onde sono teatro il Parlamento Italiano e l’assemblea francese in questo periodo della storia.»1.

Il terzo governo Crispi nasce così in un momento di grave crisi politica, sociale ed economica: momento eccezionale che a detta di molti richiede una risposta eccezionale, risposta che solo istituzioni non elettive possono dare. E’ in questo contesto dunque che si collocano due famosi articoli di Ruggiero Bonghi che insistono ancora sulle gravi mancanze del governo parlamentare e costituiscono una sorta di “appello al Re”. Stiamo parlando di L’ufficio del Principe in uno Stato libero e di Il diritto del Principe in uno Stato libero, entrambi apparsi su la «Nuova Antologia» nel 1893, a poca distanza di tempo l’uno dall’altro.

Rispetto a Una questione grossa, scritto nel 1884, la prospettiva di Bonghi non è cambiata: certo la profezia nefasta che vedeva nel regime parlamentare un uomo morente non si è avverata, ma ad oggi la “malattia del paziente” si è senza dubbio aggravata. Come già affermato circa un decennio prima, secondo Bonghi, «le grandi magagne» del sistema derivano da un trapasso di forme politiche: tuttavia la visione di Bonghi è ancora legata al passato poiché adesso il nostro autore non lamenta il passaggio dal regime parlamentare ad un peggiore, ma, rimanendo coerente con le sue posizioni precedenti, rammenta che le disfunzioni sono iniziate con il passaggio dal regime rappresentativo/costituzionale, inscritto nello Statuto, al regime parlamentare, istituitosi per necessità o consuetudine politica da Cavour in avanti. Il passaggio non è negativo in sé, ma la situazione è peggiorata quando si è preteso di “neutralizzare” il ruolo del sovrano:

«Non si può affermare che il regime parlamentare sia implicito nello Statuto. V’hanno regimi costituzionali, che non sono parlamentari, cioè non tali che la maggioranza delle assemblee vi concorra direttamente colla volontà del Principe a costituire i Ministeri. Parlamentari non sono, per esempio, i regimi dell’Austria e della Germania. Di parlamentari ve n’ha in somma, pochi sul continente: il Belga, lo