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CARATTERISTICHE DEI FLUSSI MIGRATORI IN ETÁ CONTEMPORANEA: ALCUNE CONSIDERAZIONI TEORICHE

L’ITALIA E IL FENOMENO MIGRATORIO

Umbria 93.243 2,2 Totale 4.235.059 100,0 FONTE: Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes Elaborazioni su dati Istat

2.4 CARATTERISTICHE DEI FLUSSI MIGRATORI IN ETÁ CONTEMPORANEA: ALCUNE CONSIDERAZIONI TEORICHE

I flussi migratori internazionali delineatisi durante la modernità hanno trovato nella dimensione statale la loro peculiare caratteristica:

[...] le migrazioni internazionali così come oggi le conosciamo sono un fenomeno relativamente recente, che si può fare risalire all‟epoca in cui l‟idea di Stato-nazione ha preso corpo nel continente europeo e da lì si è poi diffusa nel resto del mondo. L‟idea di Stato, come abbiamo visto, porta infatti con sé quella di un confine che i non-cittadini non sono liberi di attraversare senza esserne autorizzati. Anzi, l‟immigrazione rappresenta un oggetto d‟analisi privilegiato per comprendere le trasformazioni che sono al cuore della modernità, giacché l‟immigrato incarna la duplice rivoluzione che il mondo ha conosciuto dal 1789: la rivoluzione industriale, che ha permesso una fantastica accelerazione della mobilità umana nello spazio, e la rivoluzione politica, che in Francia ha inaugurato l‟era degli Stati- nazione, fondati sul principio di nazionalità271.

Come rivela A. Sayad, l‟universalità del fenomeno migratorio si inscrive oggi a pieno titolo nella logica statuale:

Malgrado l‟estrema diversità delle situazioni, malgrado le sue variazioni nel tempo e nello spazio, il fenomeno dell‟emigrazione-immigrazione manifesta delle costanti, cioè delle caratteristiche (sociali, economiche giuridiche, politiche) che si ritrovano lungo tutta la sua storia. Queste costanti costituiscono una sorte di fondo comune irriducibile, che è il prodotto e allo stesso tempo l‟oggettivazione del “pensiero di stato”, una forma di pensiero che riflette, mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello stato, che così prendono corpo. Le categorie sociali, economiche, culturali, etiche [...] e, per farla breve, politiche con cui pensiamo l‟immigrazione e più in generale tutto il nostro mondo sociale e politico, sono certamente e oggettivamente (cioè a nostra insaputa e, di

conseguenza, indipendentemente dalla nostra volontà) delle categorie nazionali, perfino nazionaliste272.

E ancora, continua il sociologo algerino:

Strutture strutturate nel senso che sono dei prodotti socialmente e storicamente determinati, ma anche strutture strutturanti nel senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo e, di conseguenza, questo stesso mondo [...]. Questo modo di pensare è contenuto interamente nella linea di demarcazione, invisibile o appena percettibile, ma dagli effetti considerevoli, che separa radicalmente i “nazionali” e “non-nazionali”: cioè, da una parte, quelli che possiedono naturalmente o, come dicono i giuristi, che “hanno di stato” la nazionalità del paese (il loro paese), cioè dello stato di cui sono cittadini e del territorio su cui si esercita la sovranità di questo stato; e, dall‟altra parte, quelli che non possiedono la nazionalità del paese in cui risiedono273.

Dunque, se una continuità storica vi è sempre stata tra le varie migrazioni (le costanti di cui parla Sayad), durante la modernità questa linearità si illumina della luce dello statalismo nazionale. Questo ha fatto perdere di vista la funzione sociale positiva delle migrazioni, così come si era espressa alle origini della storia umana, e ha imposto l‟idea che i grandi spostamenti di popolazione non siano più un motore primario dello sviluppo umano e societario, ma bensì una componente anarchica del mutamento sociale, un “ronzio” disturbante della regolare vita associativa e un processo perturbatore della convivenza pacifica. Questa prospettiva spiega le motivazioni di fondo che oggi, a seguito di un sempre maggiore afflusso di migranti entro i confini di molti paesi, spingono molte compagine nazionali ad optare per politiche migratorie sempre più restrittive, sia per quanto riguarda i requisiti d‟ingresso entro i confini territoriali, sia per l‟acquisizione delle posizioni giuridiche necessarie (permesso di soggiorno, carta di soggiorno, pratiche di acquisizione della cittadinanza, ecc.) a svolgere un normale percorso di vita entro il nuovo contesto societario274. All‟interno della cornice nazionale si spiega anche l‟ambivalenza tipica dello straniero. Già Simmel aveva rilevato che questo particolare essere sociale è contemporaneamente vicino e lontano, escluso e incluso, affascinante e temibile. Lo straniero induce la comunità nazionale a mettere in atto atteggiamenti di chiusura dei propri confini culturali, ribadendone l‟immutabilità, ma nello stesso tempo la spinge a porre in essere anche comportamenti di comunicazione con l‟esterno e di apertura nei confronti del cambiamento sociale e dell‟innovazione275.

272 A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina

Editore, Milano, 2002, pp. 367-368.

273 A. Sayad, La doppia assenza, cit. p. 368.

274 Va ricordato che negli ultimi decenni molti Stati nazionali hanno cercato di favorire unicamente l‟ingresso

di immigrati altamente qualificati, attraverso rigidi criteri di selezione dei candidati. Questa tendenza si intreccia, inoltre, con altri due orientamenti: da una parte, si tende a rendere sempre più difficile l‟accesso entro i confini nazionali di rifugiati per motivi umanitari o catastrofi naturali. I richiedenti asilo sono sempre più spesso percepiti come un peso parassitario considerevole sui sistemi di welfare. Molti paesi democratici occidentali, compresa l‟Italia, per raggirare il problema, senza intaccare il vincolo liberale a cui le loro legislazioni nazionali sono indissolubilmente legate, optano sempre più frequentemente per esternalizzare l‟assistenza presso i paesi “di transito”, che rappresentano la tappa intermedia tra la società di partenza e quella di arrivo; dall‟altra parte, si cerca di combattere nel modo più severo possibile l‟immigrazione irregolare e reintrodurre il modello del «lavoratore ospite», fondato sull‟assunto che lo straniero viene accolto nella società di destinazione solo per il tempo necessario a svolgere la sua mansione lavorativa, senza preoccuparsi di stabilizzare l‟immigrazione, in termini di integrazione nel tessuto sociale, attraverso l‟apertura delle frontiere nazionali alle famiglie degli immigrati. In questo modo si cerca di evitare ogni tipo di costo sociale, economico, sociale o politico che sia. È ancora utile ricordare che dietro la chiusura delle frontiere e la lotta all‟immigrazione irregolare si cela spesso un interesse economico, sottaciuto dalla società ospite, di usufruire di una manodopera a bassa qualificazione poco incline alle rivendicazioni sindacali e disposta ad accettare salari bassi. Questa condizione, che va naturalmente ad incrementare alcuni settori dell‟economia sommersa, permette a molte aziende del paese di destinazione di abbattere i costi di produzione e sopravvivere così in un regime di concorrenza internazionale. Quest‟ultima considerazione, come abbiamo visto, sembra trovare nel modello mediterraneo d‟immigrazione, che comprende naturalmente anche il nostro paese, la sua più sistematica realizzazione.

Z. Bauman, in linea con la sociologia simmeliana, rivela una percezione polarizzata su due livelli dell‟immagine dello straniero. Per i settori più ricchi della società, capaci di impiegare cospicue risorse per i ritrovati più all‟avanguardia nel campo della sicurezza privata, lo straniero è gradevole perché offre esperienze piacevoli e la sua presenza è un‟interruzione della monotonia. Questi settori della società hanno un atteggiamento, che potremmo definire, di “eterofilia”. La differenza è un dono e un privilegio per i recettori di sensazioni e i collezionisti di esperienze, cioè per tutti gli individui che godono di buone condizioni economiche e culturali e adottano atteggiamenti ispirati alla flessibilità e all‟apertura, più che alla rigidità e alla chiusura. Gli stranieri sono un‟opportunità di emancipazione in un mondo monotono e omogeneo. Per gli strati più poveri della società, invece, lo straniero rappresenta un pericolo sia di contaminazione culturale, sia di concorrenza dal punto di vista economico. La “vischiosità” che attribuiscono allo straniero è il riflesso della loro mancanza di potere. È la loro stessa mancanza di potere che cristallizza nei loro occhi la terrificante forza degli stranieri. Hanno, dunque, un atteggiamento “eterofobico”. Deplorano la contaminazione e l‟umiliazione della razza e finiscono, spesso, per aderire ad ideologie nazionaliste e razziste, ormai impraticabili in un mondo, come il nostro, in cui le distanze si sono accorciate e l‟incontro tra culture diverse è all‟ordine del giorno. Secondo il sociologo di origine polacca, il principio che regola la costituzione del risentimento verso gli stranieri è il seguente: l‟acutezza dell‟estraneità e l‟intensità del risentimento cresce relativamente alla mancanza di potere e diminuisce in rapporto alla crescita della libertà. Ci si può attendere che meno gli individui sono in grado di controllare le loro vite e le loro identità, più essi percepiranno gli altri come vischiosi, e cercheranno in modo più frenetico di districarsi, di staccarsi dagli stranieri. Diventa, allora, opportuno ridurre la polarizzazione tra classi benestanti e classi diseredate che preclude una percezione unitaria e positiva dell‟estraneità276.

Indipendentemente dalla presenza di una duplice percezione sociale dello straniero all‟interno della società d‟accoglienza, è necessario estendere il discorso fino alla sua origine. Lo Stato-nazione per esistere deve necessariamente discriminare tra i “cittadini” e gli “stranieri”, delimitare un “noi” da un “loro”, al fine di garantire un‟omogeneità nazionale totale sul piano culturale, giuridico e politico. La presenza di immigrati sul territorio statale perturba l‟ordine e l‟identità nazionale e tutte le frontiere, invisibili o meno, poste a garanzia della purezza dello Stato e dell‟integrità culturale della sua popolazione legittima. L‟immigrazione, allora, rappresenta incontestabilmente un fattore di sovversione nella misura in cui mette in luce la natura storica e artificiale dello Stato-nazione. Questo in realtà non è un‟entità naturale, così come spesso si vuol far credere e come siamo abituati inconsciamente a percepirlo, ma nasce da esigenze storiche e funzionali all‟interno del contesto della modernità. Lo stesso senso di appartenenza nazionale e l‟idea di identità nazionale nascono tanto nell‟operato delle burocrazie statuali quanto, a livello più diffuso, nelle pratiche culturali dei vari individui277. Lo Stato-nazione e il nazionalismo ad esso connesso non è altro che una costruzione socio-politica in cui si è fatta coincidere la popolazione ivi residente con un determinato territorio compreso entro precisi confini nazionali, che a sua volta tende a corrispondere a precipue frontiere culturali278. La presenza dell‟immigrazione all‟interno della società non fa altro che rivelare la storicità dell‟idea nazionale, delegittimando «il pensiero di stato e compiendo un‟operazione di rottura desacralizzante della doxa279».

A questa operazione si oppone tutto il nostro essere sociale (individuale e collettivo), cioè il nostro essere nazionale, poiché esistiamo solo nella forma e nella cornice della nazione. Ecco perchè è oggi sempre più accentuata la paura dello straniero, dell‟«Altro», che ci minaccia, non solo sul piano economico in quanto concorrente economico e come ulteriore voce aggiunta al bilancio statale, ma soprattutto sul piano sociale e culturale. La società

276 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 71.

277 B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 2009. Si

veda anche E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1985 e E. J. Hobsbawn, T. Ranger,

L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 2002.

278 M. Martiniello, Le società multietniche, Il Mulino, Bologna, 2000. 279 A. Sayad, La doppia assenza, cit., p. 371.

collettivamente e i suoi membri individualmente pongono in essere, a questo punto, una vera e propria stigmatizzazione sociale dei migranti280. Si respira un‟atmosfera di panico da “invasione” e questa situazione riflette l‟atteggiamento di chiusura della società e le diverse pratiche sociali con cui i migranti vengono esclusi e trasformati in nemici della società281. Alessandro Dal Lago, a proposito di questo fenomeno, afferma:

Secondo un modello ormai comune a tutta l‟Europa, i migranti, reali o virtuali, sono un pericolo da contrastare con ogni mezzo - dalla militarizzazione dei confini alla moltiplicazione di veri e propri campi di internamento, dall‟espulsione generalizzata all‟ ”assistenza economica” prestata ai regimi cui i migranti cercano di sottrarsi. Al rifiuto dei migranti potenziali corrisponde l‟esclusione sociale di quelli presenti [...]. Si potrebbe pensare che nell‟epoca della cosiddetta globalizzazione, e a più di cinquant‟anni dalla sconfitta del nazismo, l‟uguaglianza di tutti gli esseri e il loro diritto a muoversi liberamente per il mondo per trovarsi un‟esistenza decente siano principi ovvi, anche se privi di una formulazione netta. Ma non è così. L‟umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto. Grazie a meccanismi sociali di etichettamento e di esclusione impliciti ed espliciti, l‟umanità viene divisa tra persone e non-persone. Al mantenimento di questa distinzione contribuiscono oggi anche movimenti culturali che contestano l‟universalismo, ovvero la concezione politico-morale secondo cui gli esseri umani sono uguali per diritto. Invece di concepire la diversità come pluralità, articolazione di una condizione umana comune e ugualitaria, il differenzialismo ha spesso ipostatizzato la separatezza culturale, ha mitologizzato le radici culturali e nazionali282.

Gli immigrati, allora, sono esclusi dalla sfera politica dei diritti, anzi ad essi vengono in un certo senso riconosciuti solo dei doveri come quello di lavorare e dimostrare di “comportarsi bene” per legittimare la loro presenza su di un territorio nazionale a cui non appartengono. Essi vivono continuamente all‟interno di un paradosso di presenza assente, nel senso che sono fisicamente presenti per lavorare e contribuire alla crescita nazionale, ma non è riconosciuto loro alcun diritto di cittadinanza283. Esistono solo nella loro corporeità, ma sono

280 È stato rilevato in varie occasioni e in diversi periodi e contesti, soprattutto in relazione alle seconde

generazioni di immigrati, un particolare fenomeno di riconversione dello stigma sociale in emblema. A. Sayad ha abilmente rilevato che la condizione di immigrato è vissuta, tanto dalla società ospite, quanto dallo stesso immigrato, come una “colpa originaria” che aggrava la sua posizione, ad esempio in caso di comportamenti devianti e asociali, e lo costringe a vivere sotto un continuo sospetto morale e sociale. Per queste ragioni, lo straniero è tenuto sempre ad un‟ipercorrettezza sociale, pena l‟esclusione dalla società. In un certo senso, lo straniero occupa una posizione subordinata nella struttura dei rapporti simbolici di forza. Egli, di conseguenza, è spesso colpito da uno stigma sociale, come quello dell‟immigrato delinquente, che lo spinge verso i gradini più bassi della gerarchia sociale e gli palesa la sua essenza di dominato rispetto alla società di accoglienza. Per reagire a questa condizione di marginalità ed esclusione, lo straniero, soprattutto se giovane, può decidere di trasformare lo stigma sociale di cui è vittima in un emblema. In questo caso l‟immigrato radicalizza la propria identità culturale, assume le stigmate che secondo l‟opinione comune lo caratterizzano come tale e le esprime in funzione oppositiva alla società ospite. In questo modo accetta la definizione dominante della sua identità e la rivendica trasformandola in emblema positivo e identitario, secondo il classico paradigma black is beautiful. Un caso di riconversione dello stigma in emblema è stato rilevato in relazione alle bande giovanili latinoamericane presenti in alcune città del Nord Italia. A tal proposito si veda L. Queirolo Palmas, L’atlantico Latino delle gang.

Transnazionalismo, generazioni e traduzioni nell’invenzione della “Raza”, in «Rassegna italiana di sociologia»,

a. L, n. 3, luglio-settembre, 2009, pp. 491-518.

281 A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, Costa & Nolan,

Genova, 1997.

282 A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 1999, pp.

8-9.

283 Il migrante è in un certo senso un atopos, una persona sempre “fuori luogo”: un ibrido senza un luogo

appropriato nello spazio sociale e di un luogo assegnato nelle classificazioni sociali. Vive in una posizione intermedia tra essere sociale e non-essere. Si trova in una situazione di doppia assenza. È assente nella società di origine perchè risulta fisicamente non presente e gradualmente anche moralmente e socialmente. È assente nella società di destinazione, dove alla presenza fisica non fa seguito un‟esistenza giuridica, politica e sociale. Sayad esprime così il doppio paradosso in cui vive continuamente l‟emigrato-immigrato: «continuare a “essere presente a dispetto dell‟assenza”, a essere “presente anche se assente e anche là dove si è assenti” – che è la stessa cosa dell‟“essere parzialmente assente là dove si è assenti“ - è la sorte e il paradosso dell‟emigrato. Nello stesso

giuridicamente e politicamente assenti. Sono ridotti alla condizione di “non-persone”, cioè di esseri umani che sono intuitivamente delle persone come noi (esseri umani viventi dotati di una persona sociale e culturale), cui però vengono revocate - di fatto o di diritto, implicitamente o esplicitamente, nelle transazioni ordinarie e nel linguaggio pubblico - la qualifica di persona e le relative attribuzioni. Si tratta di persone che, per ragioni politiche o ideologiche, sono escluse da ogni riconoscimento o considerazione. In breve, l‟immigrato non è una non-persona per qualche caratteristica intrinseca o naturale, ma perché socialmente considerata tale, in seguito a un processo di esclusione o di vera e propria rimozione sociale:

Le implicazioni della natura giuridico-positiva (e quindi, in ultima analisi, politica) della “persona” sono abbastanza evidenti. Se è vero che una delle conquiste degli ordinamenti politici moderni è il conferimento di “diritti” solo a chi rientra a pieno titolo in tali ordinamenti, chi ne è escluso (o chi non vi è incluso) non habet personam, e quindi è uomo solo in senso naturale, non sociale. La cittadinanza (l‟insieme di diritti di chi è legittimamente incluso in un ordinamento) è quindi condizione esclusiva della personalità sociale, e non viceversa, come recitano sia il senso comune filosofico sia quelle dichiarazioni o convenzioni internazionali che affermano o riaffermano i “diritti universali dell‟uomo o della persona”. Non intendo affermare che la persona, date le sue complesse valenze di socialità e socievolezza, possa essere ridotta alla sua natura giuridico-politica, ma semplicemente che l‟appartenenza ad un ordinamento (ovvero la cittadinanza nazionale) ne è la condizione esclusiva [...]. La verità è che anche le democrazie occidentali hanno costituito un doppio regime per gli stranieri o per i propri cittadini di origine straniera: si pensi solo all‟internamento degli americani di origine tedesca durante la Prima guerra mondiale o a quello dei giapponesi durante la Seconda. Questi sono ovviamente casi limite. Ma [...] è anche vero che nulla impedisce, nelle nostre società democratiche e “universalistiche”, la costituzione di un doppio regime giuridico per determinate categorie come stranieri, immigrati o zingari284.

In quanto bersaglio delle ossessioni di una società e “legalmente inesistenti”, perché esclusi dai sistemi giuridici nazionali, i migranti sono esseri umani puramente marginali. Esseri che per definizioni attraversano confini, costituiscono il confine o margine di una società285. Più di un secolo fa, E. Durkheim osservò che nei rituali di punizione cerimoniali, come nel diritto penale, e in quelli meramente procedurali, come nella stigmatizzazione pubblica e mediale dei “nemici collettivi”, una società tenta di ricostruire incessantemente la sua compattezza (la “solidarietà”)286. I confini, i campi entro cui rinchiudere questa umanità disperata, rappresentano proprio questo tentativo. Il migrante, l‟altro, lo straniero e la diversità rappresentata fa paura. Si ha paura del possibile “contagio culturale” con conseguente perdita di identità da parte del cittadino nazionale, si ha paura dal punto di vista economico percependo il migrante come un concorrente sleale (perché disposto a prestare mansioni più umili a salari minori) sul mercato del lavoro, si ha paura per il suo potenziale criminale. Per tutte queste ragioni, si ha timore della diversità. A questa paura si risponde con la violenza, l‟emarginazione, la separazione, i muri divisori. Siamo dentro uno dei paradossi principali della globalizzazione:

[...] migranti e profughi rappresentano uno dei paradossi o, meglio, dei conflitti più vistosi della globalizzazione. La circolazione di beni, di merci, di simboli e anche di persone, che definisce l‟attuale mercato mondializzato, è possibile solo a senso unico, quando è controllata dai paesi ricchi o è a servizio dei loro interessi. In realtà, i flussi migratori sono accettati quando avvengono tra paesi sviluppati o riguardano soggetti ricchi di tutto il mondo[...]. Sono invece i “poveri” delle periferie, cioè persone che dispongono solo del proprio corpo, a essere soggetti alle restrizioni e alle dogane, in breve a essere esclusi dalla libertà di circolazione. In questo senso sono inevitabilmente “clandestini” non

tempo, continuare a “non essere totalmente presente là dove si è presenti, che è la stessa cosa dell‟essere assente a dispetto della presenza”, a essere “assente (parzialmente) anche se presente e anche là dove si è presenti” è la condizione o il paradosso dell‟immigrato». Si veda A. Sayad, La doppia assenza, cit., pp. 170-171.

284 A. Dal Lago, Non persone cit. pp. 213-219. 285 G. Simmel, Excursus sullo straniero, cit.

appena pretendono di sottrarsi all‟incatenamento alle condizioni di esistenza nelle loro società gerarchizzate287.

La paura dell‟altro, dello straniero che ci può contagiare con la sua disperazione, facendoci scivolare nel baratro insieme a lui è, forse, la paura più forte dell‟attuale fase storica. Oggi,