L’ITALIA E IL FENOMENO MIGRATORIO
2.1 LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI IN EPOCA MODERNA E CONTEMPORANEA
Per ovvie ragioni di chiarezza espositiva e semplificazione dell‟analisi la storia delle migrazioni internazionali in epoca moderna e contemporanea viene solitamente divisa in cinque periodi: 1) le migrazioni di ancien régime; 2) le migrazioni tra Ottocento e Novecento: l‟età liberale; 3) le migrazioni tra le due guerre mondiali; 4) le migrazioni dal secondo dopoguerra agli inizi degli anni Settanta; 5) le migrazioni dagli anni Settanta ad oggi. Naturalmente questi differenti periodi, teoricamente divisi, sono in realtà connessi tra di loro, a tal punto che è possibile evidenziare una certa continuità storica tra i vari flussi.
Le migrazioni di ancien régime
L‟epoca moderna, fino agli albori della rivoluzione industriale, fu contrassegnata da un aumento della mobilità umana. All‟interno del Vecchio continente, infatti, crebbero i movimenti sulle medie e lunghe distanze: le aree urbane estesero notevolmente i loro confini; gli spostamenti dalle campagne verso le città aumentarono d‟intensità; i mercati del lavoro vennero ampliati e furono ultimate le migrazioni d‟insediamento nelle parti meno popolate dell‟Europa orientale.
L‟aumento delle disponibilità energetiche (soprattutto termiche e meccaniche), lo sviluppo di innovazioni tecnologiche (progressi nella navigazione a vela e accresciuta efficienza dei finimenti per animali) e il miglioramento delle infrastrutture terrestri e marine, costituirono i principali fattori di questo incremento.
Nelle aree urbane, come in quelle rurali, si intensificarono le migrazioni circolari dovute ai lavori stagionali:
Già nell‟età preindustriale la mobilità territoriale rappresentò una costante risorsa dell‟economia domestica e comunitaria. L‟apprendistato dei giovani, le consuetudini matrimoniali, i fenomeni di colonizzazione agricola, i ritmi dei lavori agricoli, le esigenze delle attività manifatturiere, l‟esercizio
di mestieri e commerci richiedevano un‟intensa circolazione della popolazione sul territorio. L‟allontanamento dei giovani per contribuire fattivamente all‟economia familiare, o per procurarsi un reddito in vista del matrimonio, era una pratica che apparteneva allo stesso ciclo della vita domestica. A questo modello di comportamento, analizzato in noti studi inglesi e denominato life-cycle-servants, si correlavano alcune delle più nutrite forme di mobilità territoriale dell‟età preindustriale.141
Questi spostamenti, che interessarono sia uomini sia donne, riguardarono soprattutto il lavoro domestico, il lavoro agricolo e quello proto-industriale e furono una costante in tutta Europa dalla seconda metà del XVI ai primi decenni dell‟Ottocento142. Si trattò per lo più di movimenti circolari e stagionali da aree meno dotate di risorse e con un‟alta densità demografica e bassi livelli salariali, verso zone caratterizzate dalla presenza di vasti sistemi di coltivazione, di manifatture e di attività minerarie, dove era possibile percepire redditi più alti. Un altro considerevole movimento migratorio fu quello proveniente dalle zone montane povere, a causa della loro particolare configurazione ecologica. Uno spostamento continuo di individui, infatti, si diresse verso le pianure e le città circostanti le Alpi e gli altri rilievi montuosi del Vecchio continente. Anche in questo caso fu seguito un modello circolare (caratterizzato dalla temporaneità dell‟esperienza migratoria, dalla persistenza dei legami con il paese d‟origine e dalla perpetuazione del mestiere tradizionale), nacquero vere e proprie catene migratorie professionali con una rigida gerarchia interna e si formarono floride reti commerciali, come quella dei libri in Europa occidentale, alla cui espansione territoriale si correlò la formazioni di influenti élite locali all‟interno dei villaggi montani. Accanto a queste ricche reti mercantili, si affiancarono, inoltre, gli spostamenti di piccoli commercianti ambulanti (colportage), di artigiani, che consideravano il periodo di apprendistato in un‟altra località un‟esperienza necessaria per la propria formazione professionale, e di lavoratori stagionali, tanto in agricoltura quanto nel settore dei servizi urbani.
In relazione al modello migratorio alpino italiano verso le città, ma il discorso può essere allargato anche agli altri flussi presi in considerazione, è interessante segnalare quello che afferma G. Pizzorusso:
La storiografia recente, unendo all‟approccio storico quello antropologico e quello demografico, ha dimostrato che questa emigrazione era il frutto di strategie «imprenditoriali» di incremento delle prospettive di guadagno. Lo spostamento non costituiva la reazione passiva di una popolazione povera e ignorante, oppure la risposta a una crisi economica e demografica. Al contrario si trattava di una strategia resa possibile dai ritmi del lavoro agricolo, nella quale i proventi del lavoro lontano da casa (le «rimesse» degli emigranti) costituivano la voce principale dei bilanci familiari. Questo sistema ha comportato rilevanti conseguenze sul regime demografico. L‟assenza degli uomini produceva un ritardo dei matrimoni e, conseguentemente, un controllo delle nascite. Non si trattava quindi di aree sovrappopolate che si liberavano dell‟eccesso malthusiano della popolazione, ma di zone sottopopolate che utilizzavano l‟emigrazione come risorsa economica. In effetti il sistema prevedeva un‟organizzazione a livello di famiglia o di comunità volta a massimizzare l‟utile ricercando le destinazioni più promettenti. Come è stato rilevato, ciò comportava anche un notevole livello d‟istruzione, per scambiare lettere e informazioni sulle varie destinazioni (in particolare le città dove esercitare l‟edilizia), e la formazione di una mentalità imprenditrice da parte di figure di mediatori, spesso residenti nei luoghi d‟arrivo, che si preoccupavano di regolare il flusso143.
Come si evince da questo brano, è necessaria una più attenta valutazione delle cause e dei meccanismi di perpetuazione dei flussi migratori. È insufficiente spiegare la mobilità territoriale facendo riferimento alla sola povertà dei soggetti coinvolti. Se le condizioni di indigenza e sovraffollamento - ieri come oggi - giocano un ruolo fondamentale nella definizione della scelta migratoria, molte altre valutazioni e circostanze - come le decisioni
141 P. Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 3.
142 Va notato però che in molte zone del continente europeo, comprese anche alcune località della nostra
penisola, già a partire dal Medioevo si era diffusa una cultura migratoria basata sul modello circolare.
143 G. Pizzorusso, I movimenti migratori in Italia in antico regime, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E.
individuali, le strategie familiari e la formazione di una cultura imprenditoriale - partecipano alla precisazione di una tale opzione. Questa considerazione spiega anche perché i protagonisti dei movimenti migratori non sono mai, in ogni epoca e contesto, i soggetti più poveri e disperati in termini assoluti e, soprattutto, perché la maggior parte dei migranti non proviene da quelle zone geografiche le cui condizioni socioeconomiche sono oggettivamente più disperate.
Molti dei flussi fin qui analizzati si diressero verso le aree urbane. Le città costituirono un costante polo di attrazione grazie alle possibilità di impiego che offrivano in vari settori. La crescita della trama urbana fu consistente in tutta Europa, proprio per l‟afflusso delle popolazioni rurali e, in misura minore, di individui altamente specializzati nella progettazione e nella costruzione delle nuove infrastrutture. I livelli di mortalità urbana rimasero comunque alti per tutto il periodo, ma le dinamiche migratorie contribuirono al riequilibrio demografico e alla crescita della popolazione delle città.
Per ciò che concerne invece gli spostamenti di lungo raggio, dopo il 1500 il Vecchio mondo, che per secoli era stato meta di flussi immigratori, divenne origine di correnti emigratorie transoceaniche. Con le grandi esplorazioni geografiche, la colonizzazione di nuove terre e lo sviluppo di commerci intercontinentali si definì la composizione etnica di vari popoli e le lingue, la cultura, la religione e le istituzioni di origine europea si imposero in buona parte del globo terrestre.
La colonizzazione delle Americhe e, successivamente, del Sud Africa, dell‟Australia e della Nuova Zelanda portò milioni di europei - commercianti, artigiani, contadini, missionari, funzionari politici e amministrativi, militari, profughi in fuga dalle guerre e dai conflitti religiosi, dissidenti politici, galeotti144, ed altri - a stabilirsi nei nuovi insediamenti. Questi spostamenti furono realizzati all‟insegna di un‟ideologia mercantilista che individuava nella crescita dei capitali e della popolazione una fonte di prosperità e di potere. Per queste ragioni l‟immigrazione rimase libera e non fu ostacolata, anzi venne incoraggiata, mentre vari paesi adottarono provvedimenti diretti a ostacolare l‟emigrazione.
Il numero di europei che incrementarono i flussi migratori transoceanici rimase per lungo tempo modesto. Gli imperi coloniali decisero, infatti, di servirsi in un primo momento delle popolazioni indigene per sfruttare le risorse dei nuovi possedimenti. Successivamente, per soddisfare le maggiori esigenze produttive e commerciali dei paesi del Vecchio mondo, ricorsero alla migrazione forzata degli schiavi e agli spostamenti volontari degli indentured
workers o coolies, cioè dei lavoratori a contratto.
Gli schiavi trasportati coattivamente dall‟Africa alle Americhe furono 10-15 milioni tra il XVI e il XVII secolo. La «tratta atlantica» istituì un vero e proprio sistema economico internazionale tra Europa, paesi coloniali e Africa subsahariana. I prodotti provenienti dall‟Europa venivano barattati in Africa con gli schiavi. Questi, a loro volta ,si scambiavano in Brasile e nei Caraibi con lo zucchero. Infine, nei mercati europei lo zucchero veniva smerciato per contropartite in valuta145.
Con l‟abolizione della schiavitù, nel corso dell‟Ottocento, gli schiavi vennero sostituiti con gli indentured workers, che vivevano in condizioni di semilibertà, per le mansioni più gravose nelle piantagioni, nelle miniere e nelle grandi opere edili degli imperi coloniali. Questi lavoratori a contratto, europei o asiatici, «si impegnavano a pagare le alte tariffe del viaggio in nave mediante il lavoro vincolato presso un padrone; ottenevano paghe assai contenute, non ricevevano nessuna garanzia di tutela sul lavoro146» e molto raramente riuscivano ad estinguere il loro debito iniziale. Si stima che il numero dei coolies impiegati nei territori
144 Si ricordi che, ad esempio, l‟Australia dopo la guerra d‟indipendenza americana divenne una colonia penale
inglese. Tra il 1788 e il 1822 arrivarono sull‟isola circa 32.000 persona, di cui solo 1.300 giunsero in condizione di libertà.
145 P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Einaudi,
Torino, 1999.
coloniali si aggiri tra i 12 e i 37 milioni di persone147: un numero decisamente più elevato di quello degli stessi schiavi africani.
Le migrazioni tra Ottocento e Novecento: l’età liberale
La grande transizione demografica dell‟Europa di fine Settecento che determinò un incremento considerevole della popolazione (grazie anche all‟apporto della rivoluzione scientifica che favorì l‟introduzione di nuovi modelli comportamentali), i mutamenti economici prodotti dalla rivoluzione industriale, le trasformazioni, sul piano politico e culturale, generate dalle rivoluzioni in Francia e negli Stati Uniti e uno sviluppo tecnologico sempre più veloce, ad esempio nel campo della navigazione, incrementarono i movimenti migratori fino a trasformarli in un vero e proprio esodo di massa. Contribuì all‟intensificazione di questi flussi anche l‟ideologia liberista alla base del modello di produzione capitalistico. Il nucleo centrale di questo pensiero risiede nella libertà individuale di auto-determinare la propria fortuna (self-made man) e nella concezione di liberi mercati concorrenziali (laissez faire) in cui gli attori economici possono, senza alcuna intromissione statale, decidere liberamente di allocare le proprie risorse.
In questo clima liberale, gli Stati nazionali decisero di non opporre alcun limite ai processi migratori, sia in entrata che in uscita. Furono eliminati i divieti precedentemente in vigore, si inaugurò un regime di libera circolazione delle merci e delle persone e si intensificò il processo d‟internazionalizzazione dell‟economia. La conseguenza fu una crescita delle migrazioni intraeuropee, delle migrazioni politiche, a seguito degli sconvolgimenti rivoluzionari, e, con la nuova espansione coloniale, delle migrazioni verso i possedimenti in Asia e in Africa di amministratori, politici, militari, missionari e affaristi, nonché degli spostamenti all‟interno delle colonie stesse della manodopera indigena.
Il flusso migratorio che però caratterizzò in maniera più decisa questo periodo fu: la Grande emigrazione transoceanica degli europei verso il Nord e il Sud America, l‟Australia e la Nuova Zelanda. I movimenti territoriali a lungo raggio ricevettero un rinnovato impulso dalle intense campagne di propaganda delle società di navigazione, dagli incentivi offerti da alcune compagini nazionali, prevalentemente sudamericane, al fine di popolare vaste aree territoriali e dalla percezione del lavoro immigrato come indispensabile strumento per la crescita economica delle società d‟accoglienza. A guidare gli immigrati fu il cosiddetto “sogno americano”, ovvero il desiderio di sottrarsi alla condizione di povertà e sfruttamento che vivevano nel Vecchio continente per acquisire una maggiore libertà di mobilità sociale verticale.
Dunque, la Grande emigrazione transoceanica europea trovò la propria origine, tanto in fattori strutturali (i grandi sconvolgimenti economici, sociali, politici, culturali e demografici che attraversarono il XIX secolo), quanto nelle scelte individuali e familiari, che trovarono nell‟appoggio delle catene migratorie un utile supporto.
I primi a partire, già nella prima metà dell‟Ottocento, furono gli inglesi, seguiti subito dopo dai tedeschi e dagli scandinavi. Questi gruppi costituirono, ad esempio negli Stati uniti, il nucleo di una old migration considerata più facilmente assimilabile alla cultura delle società di arrivo. Se in precedenza gli immigrati provenienti dal Centro e dal Nord Europa furono di origine contadina e si diressero al di là degli oceani per ottenere nuovi possedimenti di terra da coltivare, nel corso dell‟Ottocento iniziarono gradualmente a mobilitarsi anche i ceti urbani.
Dal 1870 in poi, ovvero nel vivo dell‟età liberale, l‟immigrazione verso i Nuovi mondi cambiò radicalmente la propria composizione. Arrivarono, infatti, prevalentemente individui provenienti dall‟Europa meridionale e orientale. Questi soggetti costituirono una new
migration che venne percepita dalle società di destinazione come difficilmente assimilabile.
147 S. Castles, M. J. Miller, The age of migration. International population movements in the modern world,
Non mancarono, allora, forme di razzismo e xenofobia alimentate da movimenti politici. Si trattava in prevalenza di giovani uomini soli, di origine contadina e con bassi livelli d‟istruzione, decisi a lavorare in terra straniera per un periodo di tempo sufficiente a raccogliere le somme di denaro necessarie a pagare i debiti contratti per il viaggio e a garantire una vita più comoda una volta rientrati in patria148.
La distinzione tra old migration, prevalentemente urbana, e new migration, per lo più rurale, appare però meno netta di quanto sembri. È infatti possibile rilevare compagini rurali anche nell‟immigrazione proveniente dalle isole britanniche e dalle regioni tedesche, si pensi ad esempio all‟immigrazione dalle campagne irlandesi colpite tra il 1845 e il 1847 da una terribile carestia delle patate che causò la morte di circa un milione di persone. Allo stesso modo va rivista l‟idea che la new migration, soprattutto quella italiana, sia costituita solo da una matrice rurale. Prima dei contadini arrivarono, in realtà, artigiani, commercianti, ambulanti, lavoratori protoindustriali e lavoratori qualificati dell‟edilizia. Tali flussi videro nelle catene migratorie, che interessarono anche le donne, un utile strumento di facilitazione degli spostamenti, costituirono gli apripista del più ampio esodo di massa e garantirono, in un certo senso, una continuità storica con il passato preindustriale. Inoltre, la precocità delle partenze transoceaniche non fu una prerogativa della sola vecchia emigrazione anglosassone. Alcune zone costiere del Sud Europa, come la Liguria, videro partire i propri corregionali già alla fine del XVIII secolo.
Al di là di queste dispute storiografiche149, quello che qui preme sottolineare è che nella seconda metà dell‟Ottocento i processi migratori si svolsero in un clima di aperto liberismo. Non mancarono comunque episodi di chiusura legislativa e di discriminazione istituzionale - sostenuti da buona parte dell‟opinione pubblica locale, da alcune componenti politiche e dai movimenti nativisti - che limitarono l‟ingresso di determinati gruppi etnici. I blocchi riguardarono i soggetti in cattive condizioni sanitarie e quelli “indesiderati”, ovvero connotati da una maggiore diversità etnica e culturale e per questo considerati più difficilmente assimilabili alla società d‟accoglienza: gli asiatici, ma anche gli europei meridionali e orientali, valutati negativamente rispetto ai loro predecessori del Nord Europa150.
Lo scopo di queste politiche migratorie fu quello di favorire lo stanziamento degli stranieri considerati “assimilabili” e di contenere, se non addirittura di frenare, quello dei “non- assimilabili”, diversi per razza e cultura. A quest‟ultima categoria di immigrati fu, insomma, concessa solo una permanenza temporanea, necessaria a svolgere i lavori per i quali erano stati chiamati, ma si cercò in tutti i modi di limitare un loro insediamento duraturo all‟interno del territorio nazionale.
Alla base di queste decisioni vi fu la consapevolezza che questi flussi migratori dall‟Asia e dall‟Europa meridionale e orientale - costituito per lo più da lavoratori non qualificati (unskilled) - rappresentava, per l‟eccessiva distanza culturale, una minaccia per l‟intelligenza e l‟integrità morale dei popoli autoctoni. Alla vigilia del primo conflitto mondiale, con la saturazione del mercato del lavoro e il consolidamento del sistema di welfare, l‟arrivo di questi individui fece naufragare il modello assimilazionista e mise in crisi l‟idea di melting
pot, ovvero di un crogiuolo composto da diverse etnie in cui gli immigrati dovevano
148 S. Luconi, M. Pretelli, L’immigrazione negli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2008.
149 La letteratura accademica a tal proposito, soprattutto quella americana, è sconfinata. Per un quadro
d‟insieme si veda R. Daniels Coming to America. A history of immigration and ethnicity in american life, Perennial, New York, 2002; M. D. R. Gabaccia, Is everywhere nowhere? Nomads, nations and the immigrant
paradigm of United States history, in «Journal of American History», n. 3, 1999, pp. 1115-1134; F. Jacobson, Whiteness of a different color, european immigrants and the alchemy of race, Harvard University Press,
Massachusetts, 1998; R. J. Vecoli, S. M. Sinke (a cura di), A century of european migrations, 1830-1930, University of Illinois Press, Urbana, 1991; C. Wittke, We who built America. The saga of the immigrants, Prentice Hall, New York, 1939; I. Zangwill, The melting pot. A drama in four acts, Macmillan, New York, 1909.
150 Un esempio famoso di discriminazione etnica sul piano legislativo fu il Chinese Exclusion Act del 1882, con
cui le autorità statunitensi cercarono di bloccare l‟immigrazione cinese. Provvedimenti simili furono presi anche in Canada e in Australia.
sradicarsi dalle loro ataviche radici culturali per inserirsi, perfettamente assimilati, nella cultura e nella società d‟arrivo.
Con la chiusura delle frontiere, il fallimento dei tentativi di assimilazione e lo scoppio del primo conflitto mondiale terminò l‟età liberale.
Le migrazioni tra le due guerre mondiali
A partire dalla Grande Guerra si verificò una chiusura in senso nazionalista di molti paesi e vennero introdotte politiche migratorie stataliste e dirigiste di stampo restrittivo. Molte nazioni limitarono - con il sistema delle quote annuali e una severa selezione basata sulle qualifiche professionali possedute dai candidati - l‟ingresso di stranieri sui propri territori, cercando così di regolarne i flussi. Furono introdotte anche discriminazioni legali su base etnica e si intensificarono i segnali d‟ostilità della società civile contro gli immigrati, accusati di peggiorare le condizioni occupazionali e salariali. Gli stranieri, inoltre, vennero guardati con sospetto in virtù della loro presunta “non-assimilabilità”, del loro potenziale sovversivo e della loro pericolosità politica, in quanto cittadini di paesi rivali151. Si diffuse, insomma, oltre alle ben note accuse razziste e xenofobe, anche il sospetto che gli immigrati rappresentassero dei “nemici interni” alla nazione ospite.
Gli spostamenti di popolazione, comunque, non si esaurirono del tutto. Le migrazioni transoceaniche e intraeuropee diminuirono considerevolmente, ma non terminarono. Inoltre, ai movimenti di rimpatrio, peraltro limitati, si sommarono i trasferimenti di manodopera coloniale e dei prigionieri di guerra per far fronte alle necessità dei sistemi produttivi. Allo stesso scopo vennero siglati una serie di accordi bilaterali con cui alcuni paesi, tra cui l‟Italia, si impegnarono a fornire manodopera ad altre nazioni per soddisfare le esigenze economiche del periodo bellico e, successivamente, della fase di ricostruzione.
Con la fine del primo conflitto mondiale e la dissoluzione dei grandi imperi si verificarono ingenti spostamenti di popolazione determinati dalla ridefinizione, a seguito dei trattati di pace, di molti confini nazionali.
La depressione del 1929 incrementò ulteriormente il controllo delle frontiere nazionali e il regime di esclusione sociale interno alle società d‟accoglienza. I flussi intercontinentali calarono ancora e si registrò un incremento delle migrazioni di ritorno durante tutti gli anni Trenta:
A causa delle politiche restrittive adottate da molti Stati, in questi anni si registrò una forte contrazione dell‟emigrazione di massa verso le più consuete destinazioni transoceaniche, dove i flussi migratori dall‟Europa si erano ridotti, di fatto, già durante gli anni di guerra, quando le cifre degli immigrati erano scese di circa un terzo [...]. Con l‟arrivo della crisi i flussi si ridussero ulteriormente: