STRANIERO NEL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO
3.2 UNA REALTÁ MULTIETNICA
Il cinema italiano contemporaneo, nella sua rappresentazione dell‟immigrazione straniera, ha concentrato la propria attenzione prevalentemente su determinate comunità etniche: marocchina, e attraverso questa sulle altre collettività maghrebine, senegalese, albanese, ucraina e romena, ovvero quelle etnie che più delle altre hanno preoccupato l‟opinione pubblica nazionale e si sono mostrate con maggiore visibilità nelle strade delle nostre città. Un certo interesse è stato mostrato inoltre per certe compagini asiatiche (cinese, indiana, cingalese e bengalese), africane (nigeriana, egiziana, somala), dell‟Est Europa (polacca e ceca) e nei confronti dei rom.
Molte altre comunità immigrate presenti in Italia risultano però assenti dalla raffigurazione cinematografica. In particolar modo, la collettività filippina, numerosa già a partire dagli anni Novanta, non è mai stata raccontata in maniera approfondita dal cinema italiano. Ai filippini sono sempre stati riservati ruoli marginali, in un certo senso di contorno, e la figura della colf ha incarnato lo stereotipo relativo a questa compagine nazionale. Si pensi ad esempio a Le
fate ignoranti di Ferzan Özpetek (2001), in cui si getta uno sguardo superficiale e veloce sulla
comunità filippina di Roma attraverso gli occhi della protagonista (Margherita Buy)345.
Un grado minore di esclusione dal piano della rappresentazione cinematografica è toccato invece alle popolazioni dell‟America Latina. Anche in questo caso non sono state realizzate narrazioni filmiche con protagonisti sudamericani e alcuni fenomeni che stanno suscitando allarme sociale presso l‟opinione pubblica italiana, come quello delle bande giovanili in alcune città del Nord, sono rimasti del tutto assenti dal cinema nazionale. Questo, più che altro, si limita a “ingabbiare” i latinos, così come vengono definiti in modo generalizzato negli Stati Uniti346, entro la figura del musicista (si veda, ad esempio, L’orchestra di piazza
Vittorio diretto da Agostino Ferrente nel 2006) o del transessuale (come nel caso di Besame mucho girato da Maurizio Ponzi nel 1998 e Tutto torna di Enrico Pitzianti realizzato nel
2008). A differenza dei filippini, dunque, le comunità immigrate provenienti dal Sud America trovano un maggiore spazio nella rappresentazione cinematografica del nostro paese, però su di loro non si concentra uno sguardo articolato e realista, rimanendo così “rinchiuse” in una raffigurazione superficiale e stereotipata.
Poco spazio, inoltre, viene riservata all‟analisi dell‟impreparazione dello Stato italiano e delle sue istituzioni nel momento in cui ha dovuto affrontare l‟emergenza degli sbarchi dei profughi albanesi, che come è stato già detto rappresentano uno spartiacque importante sia in relazione alla percezione da parte della nostra opinione pubblica del problema migratorio, sia in rapporto al mutamento di ruolo dell‟Italia all‟interno del sistema delle migrazioni internazionali. Solo in Aprile di Nanni Moretti (1998) vi è un chiaro riferimento a questa vicenda e un palese attacco al disinteresse della politica in genere e del governo di centrosinistra in particolare.
Al contrario, va rilevato un notevole interesse per l‟inasprimento delle disposizioni legislative e per il fenomeno degli sbarchi clandestini sulle nostre coste. In molti film, infatti, questo problema è osservato da vicino con la macchina da presa che entra direttamente nei barconi con cui gli immigrati affrontano il viaggio e nei Centri di identificazione ed espulsione, prima denominati Centri di permanenza temporanea (Quando sei nato non puoi
345 Lo stesso Özpetek aveva già previsto una colf filippina nella sceneggiatura de Il bagno turco (1997). 346 Negli U.S.A. si registra un notevole incremento dell‟allarme sociale riferito a questa nuova immigrazione. Il
governo statunitense, per arginare l‟ingresso irregolare di individui provenienti dai paesi del Centro e del Sud America e controllarne i flussi, si è spinto fino al limite estremo di costruire un muro di 700 miglia lungo il confine con il Messico. Va rilevato, inoltre, che il cinema americano, insieme agli altri media, sta stigmatizzando le comunità ispaniche identificandole attraverso lo stereotipo dell‟immigrato criminale. Immagine che una volta era prerogativa degli emigranti italiani e, successivamente, delle collettività afro-americane. Va inoltre rilevata una rappresentazione cinematografica dell‟arabo o del musulmano come individuo malvagio e insidioso. In relazione a questo ultimo tema si veda J. G. Shaheen, Reel bad arabs. How Hollywood vilifies a people, New York, 2001, dove a p. 2 si afferma: «dal 1996 fino a oggi, i registi hanno accusato tutti gli arabi di essere il Nemico Pubblico numero 1: incivili, brutali, spietati fanatici religiosi avidi “altri” da noi tesi a terrorizzare gli occidentali civilizzati, specialmente cristiani ed ebrei».
più nasconderti di Marco Tullio Giordana del 2005 o La straniera di Marco Turco del 2009).
Anche il fenomeno degli overstayers e quello degli ingressi clandestini via terra, soprattutto dal confine nord-orientale, trovano un preciso spazio in alcune pellicole degli ultimi anni (Cover boy. L’ultima rivoluzione di Carmine Amoroso del 2008 o Alza la testa di Alessandro Angelini del 2009).
Nel corso di queste pagine, allora, si cercherà di dar conto di come il mezzo cinematografico ha messo a fuoco il fenomeno migratorio e i personaggi che ne sono protagonisti. Prima però di concentrarci sull‟analisi dei film è necessario fare un‟ultima precisazione. L‟immigrazione in Italia, come si è detto nel secondo capitolo, ha visto nei suoi primi periodi la prevalenza numerica di alcune comunità africane, soprattutto maghrebine e subsahariane, e asiatiche. La caduta del Muro di Berlino, l‟arrivo degli albanesi e, successivamente, l‟allargamento a Est dell‟Europa nel 2004 hanno determinato la crescita sul piano quantitativo dell‟immigrazione proveniente dalle regioni orientali del Vecchio continente. Questa contrapposizione tra vecchia e nuova immigrazione è possibile evincerla dall‟analisi di alcuni testi (ad esempio,
Tre punto sei diretto da Nicola Rondolino nel 2003) e da una visione complessiva delle
narrazioni oggetto di questa ricerca.
Arrivano quelli dell’Est: tra subordinazione lavorativa ed emarginazione sociale
Dopo la pellicola di Amelio, gli albanesi, ormai giunti in Italia, divengono i protagonisti del secondo episodio (intitolato Euglen e Gertian) di Terra di mezzo347, diretto da Matteo Garrone nel 1997. Con uno stile a metà strada tra documentario e fiction, che risente della lezione neorealista ma la rinnova inserendo inconsuete angolazioni348, il giovane cineasta romano realizza un ritratto intenso e appassionato, che guarda la realtà attraverso sé stessa, di due giovani albanesi alle prese con il mondo del lavoro nero e sottopagato nell‟hinterland romano. Le loro storie e le loro esperienze si stagliano sullo sfondo di un paesaggio estraneo e indifferente, magistralmente ritratto dal regista che, «avendo sommato esperienze di pittore e di aiuto operatore, dimostra di possedere uno spiccato senso dell'immagine»349.
347 Terra di mezzo è il primo lungometraggio di Garrone. I venti minuti dell'episodio iniziale (Silhouette)
vinsero, nel 1996, il Sacher Film Festival di Nanni Moretti. Grazie a quel successo e alle premure del regista di
Caro Diario (1993), l'esordiente Garrone, a 29 anni, ha avuto l'opportunità di aggiungere al cortometraggio altri
due episodi (Euglen e Gertian, appunto, e Self service), confezionando così un prodotto più completo e intenso. 348 Nel blog cinemadadenuncia.splinder.com si esalta la qualità estetica del film affermando: «Terra di mezzo
schiva agilmente le formule del cinéma-vérité e del film di denuncia per assegnare la priorità della rappresentazione allo sguardo e al territorio esplorato. Manovrata da Andrea Busiri Vici, la cinepresa coglie sì frammenti di realtà quotidiana ma subordinandola a una rielaborazione visiva e ambientale totalmente svincolata dalle convenzioni del verismo enfatico o del realismo accusatorio. Spalleggiato dalla fotografia di Marco Onorato e dal montaggio di Marco Spoletini (collaboratori pressoché inamovibili di Garrone), il ventinovenne regista e sceneggiatore romano mostra da subito una sensibilità fuori dal comune nel creare suggestioni spaziali e nel tratteggiare situazioni aliene a ogni moralismo declamatorio: lo squallore del contesto è riscattato da angolazioni sorprendenti e da derive ironiche che allontanano la messa in scena dal bozzettismo cencioso e dal registro del grottesco. C‟è spazio per il sorriso e per la compassione, ma senza scadimenti nel cinismo o nel pietismo d‟accatto. I personaggi che popolano i vari episodi, talvolta transitando dall‟uno all‟altro, non vengono giudicati aprioristicamente, ma alternano momenti di durezza e fragilità, scontrosità e socievolezza, dando vita a ritratti di pungente credibilità. Rischiarato da un cristallino suono in presa diretta, Terra di mezzo è incorniciato dalle suggestive melodie di Silvana Licursi e introdotto da titoli di testa che scorrono sull‟inquadratura fissa di un mercato frequentato da una clientela multietnica. Complessivamente i tre segmenti disegnano un percorso di avvicinamento ai personaggi [...]. A sbalordire è soprattutto la capacità di articolare una visione personale di estrema scioltezza: mai appiattito su logori moduli neorealistici o sciatti protocolli televisivi, lo sguardo di Garrone sciorina prospettive inusitate, coglie dettagli insolenti, si abbandona a derive nel paesaggio di cocente malinconia. Una scrittura filmica totalmente priva di retorica e perfettamente in grado di snidare particolari di dolente umanità nel degrado appariscente così come di soffermarsi su scatti di prepotenza in situazioni apparentemente innocue. Lungi dall‟assecondare tracciati narrativi prestabiliti o dal chiudersi nelle imprigionanti forme del documentario, Terra di mezzo aderisce alle situazioni filmate con prensile flessibilità, immergendosi orizzontalmente nella materia rappresentata non facendosene sommergere. Cinema senza se e senza ma».
Il film ritrae una realtà sociale, quella del lavoro in nero sottopagato nell‟edilizia, realmente esistente. La presenza irregolare sul territorio italiano dei due giovani protagonisti (clandestini senza permesso di soggiorno) e l‟assenza di controlli da parte delle autorità competenti giustifica l‟atteggiamento dei datori di lavoro italiani, interessati a ottenere prestazioni lavorative di muratori, pittori o idraulici al più basso prezzo possibile. Ecco perchè gli italiani che assumono i giovani protagonisti del film contrattano, continuamente al ribasso, la paga dei giovani dipendenti (alla richiesta di 40 euro effettuata da uno degli albanesi, l‟italiano incaricato di procurare manodopera per ristrutturare un teatro scende fino a 30-32 euro facendo così presagire che i rimanenti soldi li intascherà lui). Questa condizione di sfruttamento dell‟immigrato, da molti considerata una spiacevole ma necessaria condizione per garantire la competitività delle nostre imprese, viene sostenuta, nel film di Garrone, direttamente dalle famiglie che richiedono il servizio o dagli operai italiani che utilizzano i giovani albanesi come manodopera dequalificata in nero, priva di un inquadramento contributivo e senza alcuna garanzia sindacale, ricavando il maggior utile al minimo costo.
Questa precaria condizione lavorativa stona a confronto col sogno di uno dei giovani protagonisti del film di possedere un giorno, una volta diventato ricco, una fiammante Ferrari. Ecco un‟altra volta la contrapposizione tra il desiderio del migrante di una vita agiata e benestante e la cruda realtà di sfruttamento del lavoro e di marginalità sociale. Se confrontiamo questa situazione a quella dei primi emigranti italiani negli Stati Uniti, che costituivano una sorta di lumpenproletariat impegnato nei lavori più umili e duri e relegato negli scalini più bassi della gerarchia sociale, vediamo che lo status del migrante non è poi molto cambiato. L‟immigrazione costituisce un sistema di rapporti determinati, necessari e indipendenti dalle volontà individuali in funzione del quale si organizzano le condotte della vita quotidiana, le relazioni sociali e tutte le rappresentazioni del mondo. Il rapporto di forza alla base del processo migratorio si traduce nelle modalità di presenza degli immigrati, nello
status loro conferito e nella posizione che essi occupano all‟interno della società. Per questo
motivo, lo straniero ricopre sempre l‟ultimo posto della scala sociale, gli vengono riservati solo determinate attività, considerate appunto come “lavori da immigrati”, e viene riconosciuto solo nella sua esistenza fisica, come corpo votato al lavoro manuale a bassa qualificazione, e mai nella sua essenza sociale, culturale o nei suoi diritti politici:
All‟ultimo arrivato alla condizione di proletario nella civiltà urbana e industriale tocca in sorte quasi sistematicamente la posizione più bassa nella gerarchia sociale e, al tempo stesso, nella gerarchia dei mestieri350.
Ancora una volta il corpo dell‟immigrato diviene un luogo fisico da sfruttare per tutelare gli interessi economici della società di destinazione. La mancanza di un riconoscimento giuridico degli immigrati clandestini, inoltre, non fa altro che alimentare questo circolo vizioso.
Nel film l‟immigrato lavora sempre alle dipendenze degli italiani. In questo modo il regista, sottolineando il contrasto tra la posizione degli alloctoni e quella degli autoctoni, segna un limite invalicabile. Tale margine, oltre ad essere determinato dalle condizioni socioeconomiche di partenza, è contrassegnato anche sul piano culturale dall‟incapacità di comprendere da parte di un giovane immigrato la professione di pubblicitario svolta da uno dei clienti italiani. Anche in questo caso si ha una contrapposizione tra attività manuali e intellettuali e l‟impossibilità del giovane di comprendere segnala un distacco a livello formativo notevole. Questa piccola scena, se analizzata a fondo, ci segnala contemporaneamente la visione stereotipata dei migranti da parte della società italiana - convinta del ritardo culturale e formativo di tutti gli immigrati e incapace di acquisire coscienza anche della presenza di individui con titoli di studio e competenze professionali utili, se debitamente riconosciuti, anche in settori più avanzati della nostra economia - e le difficoltà in cui realmente possono trovarsi alcuni stranieri sul nostro territorio.
Particolarmente significative sono inoltre altre due scene del film. Nella prima uno dei giovani protagonisti, mentre si trova nella macchina di un imbianchino per recarsi a lavoro, incontra un suo connazionale e Garrone, quando i due parlano in albanese, riprende le orecchie del lavoratore italiano. Con questa immagine il regista intende evidenziare come stia diventando normale per gli italiani sentire lungo le strade delle nostre città lingue fino a poco tempo fa assolutamente sconosciute. Questa inquadratura, insomma, pone l‟accento su una precisa realtà di fatto: l‟Italia è diventata una nazione multietnica in cui ormai convivono persone provenienti da diverse parti del mondo.
La seconda scena è quella in cui lo stesso ragazzino e il suo datore di lavoro entrano a casa di un‟anziana donna. Questa, preoccupata dalla giovane età e dalla gracilità fisica dell‟albanese, inizia a divagare sulle condizioni di vita in Italia durante la seconda guerra mondiale affermando:«l‟Italia cinquanta anni era come l‟Albania, distrutta! [...]. Solo che tu non te lo puoi ricordare, Mario (l’imbianchino italiano) però si che se lo ricorda. Aveva dodici anni. Lei viveva in campagna. Mangiavate, avevate il vino buono, l‟olio. Noi ci siamo mangiati tutti i topi e i gatti. Tutti quelli del Colosseo li abbiamo mangiati noi, magari ne avessimo avuti ancora. In città era terribile. Io ho tirato su l‟acqua con dei cestelli dalla fontana di palazzo Barberini al quarto piano, perciò ho le braccia così lunghe. Tiravamo su l‟acqua, che poi non si poteva neanche bere. Noi l‟abbiamo bevuta, l‟abbiamo mangiata. Per carità! Adesso prendono solo l‟acqua minerale. Figurati! [...]. Come è brutta la fame! [...]. Vi ci vorrebbe una guerra a voi tutti giovani, vi farebbe molto bene». Con questa parole l‟anziana donna, da un lato paragona in maniera esplicita - cosa che già aveva fatto implicitamente Amelio - l‟attuale Albania all‟Italia di cinquanta anni fa, stringendo così in un unico
continuum sociale le due nazioni e richiamando alla memoria quella condizione di indigenza
che ha segnato buona parte dell‟esperienza storica dell‟Italia del Novecento351, dall‟altro invece manifesta il punto di vista di un‟anziana donna sulla crisi delle nuove generazioni offuscate da una società del benessere che sembra aver fatto smarrire il senso profondo delle attività umane e del vivere sociale352.
Al termine della giornata lavorativa i protagonisti del racconto si ritrovano tutti insieme a passeggiare per le strade della periferia romana, luogo una volta esclusivo degli immigrati provenienti dalle zone rurali del Mezzogiorno d‟Italia353. Il film termina con i ragazzi albanesi che si risvegliano il giorno dopo in una baracca di fortuna costruita ai margini della strada, pronti per una nuova giornata di precarie condizioni di lavoro. Ancora una volta, insomma, si segna il limite dell‟esclusione sociale e il rifiuto della società italiana che non li vuole, ma ne sfrutta il lavoro perchè necessari al mantenimento del sistema economico.
Questo secondo episodio del film di Garrone se paragonato al terzo (intitolato Self service), in cui si narra la notte di un benzinaio egiziano abusivo che si dimena tra vari clienti, alcuni simpatici e amichevoli, altri arroganti e un po‟ razzisti, ci mostra il passaggio dalla vecchia immigrazione, prevalentemente di origine africana, ai nuovi immigrati provenienti dall‟Europa orientale. I giovani albanesi, poco più che adolescenti, si contrappongono all‟anziano maghrebino in termini di provenienza geografica e culturale e di permanenza sul nostro paese, ma ne condividono il destino di esclusione e marginalità sociale. Il benzinaio, che si fa chiamare Amedeo e dice di non riuscire ad andare con le donne di colore, si sente
351 Questa continuità tra l‟Italia della guerra e l‟Albania post-comunista collega due realtà storiche tra loro
diversissime, ma accomunate da ingenti flussi emigratori verso l‟estero. In questo modo si ripropone quell‟identificazione totale tra emigranti italiani del passato e immigrati stranieri del presente che già più volte abbiamo rilevato nel corso delle pagine precedenti. La scena in cui il giovane albanese guarda le foto in bianco in nero dei parenti dell‟anziana donna sembra suffragare nuovamente questa interpretazione.
352 In questo senso si inserisce anche la contrapposizione tra il figlio dell‟anziana donna, impegnato a guardare
la televisione, e il lavoro dell‟albanese e dell‟imbianchino italiano. Questo confronto può essere anche letto in termini di contrapposizione di classe tra le attività immateriali di un ceto benestante e quelle manuali del ceto popolare e dell‟immigrato straniero. Questi ultimi due sembrano condividere la stessa posizione sociale, ma in realtà l‟autoctono vive una condizione di vantaggio sull‟immigrato, che risulta così essere l‟ultimo tra gli ultimi.
353 Anche in questo caso si ribadisce il legame sottile che lega la narrazione del nostro passato nazionale a
quella del nostro presente e, con molta probabilità, del nostro futuro. Quello che siamo stati rivive, in un certo senso, nei volti dei nuovi protagonisti della nostra società.
integrato in Italia e cerca di ribadire continuamente la sua non estraneità alla società in cui vive, mostrando anche una certa socievolezza e disinvoltura nei confronti dei clienti che di volta in volta si succedono. Ma alcuni episodi di razzismo (la donna che teme che Amedeo rubi i soldi senza mettere la benzina, l‟atteggiamento spocchioso e poco rispettoso di alcuni giovani clienti), il suo volto stanco e avvizzito segnato da una vita di difficoltà, il senso velato di tristezza che traspare dalle immagini e dalle musica del film, il ricordo sbiadito del suo passato (in cui veniamo a conoscenza che Ahmed, è questo il vero nome dell‟immigrato, proviene da una famiglia benestante di militari, costretto probabilmente ad emigrare dopo l‟assassinio del presidente Anwar al-Sadat, a cui è poi succeduto Hosnī Mubārak nel 1981) e il suo ritorno mesto e solitario in un centro di accoglienza dove si addormenta in un letto quasi fosse in una bara, ci mostra l‟insuccesso della sua esperienza migratoria e l‟incapacità della nostra società di integrare un uomo presente in Italia da molto tempo, con un buon livello culturale e con una conoscenza avanzata della nostra lingua. Ahmed/Amedeo, insomma, spera ancora di poter fare un salto di qualità, prima o poi, ma non è ancora uscito dalla definizione di straniero che la società gli ha affibbiato.
Confrontando la condizione di marginalità dei giovani albanesi e quella, leggermente migliore, dell‟egiziano (almeno lui parla bene l‟italiano, conosce la città ed è in grado di procurarsi un tetto sotto cui dormire) è possibile evidenziare come la posizione dell‟immigrato straniero nel nostro paese non sia poi così tanto migliorata. Anzi, se si tiene in considerazione le politiche migratorie restrittive che si sono succedute in questi ultimi anni e l‟allargamento degli spazi di irregolarità, la situazione sembra effettivamente peggiorata. Con questo personaggio posto nell‟episodio finale, anche se è il primo ad essere arrivato in Italia, il film mostra l‟incapacità del nostro paese di elaborare una strategia adeguata a garantire