L’ITALIA E IL FENOMENO MIGRATORIO
2.2 L’EMIGRAZIONE ITALIANA
Straordinariamente consistente sarebbe il numero degli oriundi italiani (figli, nipoti, pronipoti o affini stretti di italiani che hanno poi acquisito una cittadinanza straniera). Secondo quanto riferito dal ministero degli Esteri («Migranti press» 19-25/11/1994) sarebbero 58,5 milioni. Una cifra del genere potrebbe spingere a dire che esiste un‟altra Italia al di fuori dell‟Italia. Di questi oriundi il 3,4% si troverebbe in Europa (quasi tutti in Francia), il 27,5 in Nord America (con una proporzione di 26 a 1 fra Stati Uniti e Canada), il 68,1 nell‟America del Sud (in particolare in Brasile, 38,9, e in Argentina, 27,1)179.
Basta questa citazione per capire quale è stata la consistenza dell‟emigrazione italiana e verso quali mete essa si è prevalentemente diretta. Il grosso dei flussi migratori, un vero e proprio esodo di massa, si è verificato tra il 1870 e il 1970. Sarebbe comunque un errore limitare la storia dell‟emigrazione italiana entro questi cento anni.
Molte aree del nostro territorio hanno conosciuto, fin dal Medioevo, fenomeni di mobilità territoriale sia interni alla penisola, sia diretti verso l‟estero e organizzati secondo precise catene migratorie. Questa lunga tradizione ha sedimentato una mentalità migratoria, basata sull‟idea della mobilità come risorsa per migliorare le proprie condizioni di vita e per esercitare determinate professioni. Ad una strategia di sopravvivenza si unì, allora, una strategia imprenditoriale indispensabile per praticare mestieri e professioni che talora non erano affatto marginali. Tutto ciò contribuì a favorire l‟esodo contadino della fine del XIX secolo.
L’emigrazione italiana in età preindustriale
Già nel Tardo Medioevo, da molte città dell‟Italia settentrionale partirono mercanti, artigiani, tecnici della finanza e altri professionisti verso le più importanti città europee, le colonie veneziane e genovesi nel Levante e le zone dell‟Italia meridionale. Nel contempo, queste stesse città del Nord Italia costituirono un polo d‟attrazione per la manodopera specializzata, italiana e non. Nelle campagne, inoltre, si verificarono ripetuti tentativi di colonizzazione di nuove terre.
A questi flussi si aggiunsero spostamenti di militari, di artigiani di altissima specializzazione (come i vetrai liguri), di studenti, di esiliati politici e religiosi (si pensi, ad esempio, al caso dei valdesi che dal Piemonte si diressero verso la Provenza e il Delfinato, ma anche verso la Puglia e la Calabria) e di vagabondi. Si trattò prevalentemente di migrazioni temporanee, anche se non mancarono insediamenti permanenti di coloni italiani che continuarono ad intrattenere stretti rapporti con il paese natio180.
Temporaneità dell‟esperienza migratoria, rapporti continui con la terra d‟origine e riproduzione dei mestieri tradizionali, sono caratteri comuni anche all‟emigrazione italiana in epoca moderna. I flussi migratori subirono un incremento numerico a causa del perduto primato economico della penisola a favore dei paesi dell‟Europa settentrionale. Come abbiamo già avuto modo di vedere, il modello circolare d‟emigrazione delle zone alpine fu quello prevalente. Continuò, anche, il processo di colonizzazione di nuove terre e molti lavoratori salariati, soprattutto in ambito agricolo, seguirono i ritmi dei lavori stagionali.
Non mancarono anche forme d‟insediamento più durature che contribuirono, tra l‟altro, ad allargare la trama urbana della penisola. La crescita demografica, ad esempio, favorì la costruzione di nuovi quartieri a Roma, mentre città commerciali come Venezia e Milano videro notevolmente incrementare la popolazione locale. Il flusso di lavoratori italiani
179 A. Golini, F. Amato, Uno sguardo a un secolo e mezzo di emigrazione italiana, in P. Bevilacqua, A. De
Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma, 2009, p. 59.
180 Su questi argomenti si veda R. Comba, G. Piccinini, G. Pinto, Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell’Italia medievale, Esi, Napoli, 1984.
altamente qualificati, si pensi ad esempio ai banchieri e ai ricchi mercanti, e di artigiani, venditori ambulanti, lavoratori specializzati e non, musicisti, ballerini, commedianti, funzionari amministrativi e militari continuò per tutto il periodo e si diresse anche verso l‟Europa centro-settentrionale e quella orientale. Comunità di italiani si formarono in gran parte delle maggiori città europee e spesso, come nel caso di San Pietroburgo, la professionalità dei nostri connazionali diede un apporto sostanziale allo sviluppo e allo splendore dei grandi agglomerati urbani. Allo stesso tempo, proseguì lo spostamento di protestanti italiani verso i paesi toccati dalla Riforma di Lutero. Le cause di questi esodi vanno ricercate non solo nella povertà di alcuni territori, ma soprattutto in una trama di strategie individuali e familiari differenziate.
Per tutto il Settecento il sistema migratorio italiano rimase inalterato, ma crebbe sul piano quantitativo e si ampliarono, anche, le categorie professionali interessate e le aree di destinazione. La crescita demografica, soprattutto nelle aree rurali, incrementò i flussi a carattere permanente. Molti contadini, a causa delle misere condizioni di vita, si spostarono definitivamente nella aree urbane. Si intensificarono, altresì, gli spostamenti a corto e medio raggio dei lavoratori stagionali che seguivano gli andamenti del mercato. Alcune amministrazioni statali, come quella austriaca nel Lombardo-Veneto, cercarono di organizzare i movimenti di popolazione per dirigerli verso le terre da bonificare e da sfruttare con nuove coltivazioni. Proseguirono, inoltre, le migrazioni alpine e quelle dei mercanti e degli ambulanti.
Tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, nuovi itinerari cominciarono ad essere percorsi dai nostri connazionali, sia all‟interno dell‟Europa, sia verso il continente americano, e gli antichi insediamenti italiani nel Mediterraneo si consolidarono. I movimenti migratori interni all‟Italia si protrassero e molti migranti si adattarono velocemente ai cambiamenti dei settori produttivi e alle trasformazioni politiche. Si intensificarono anche, a seguito delle vicende rivoluzionarie, le migrazioni di esuli politici e le migrazioni femminili:
A partire da questo periodo si affermò definitivamente l‟importanza dell‟emigrazione femminile, di cui in precedenza si registrarono soprattutto spostamenti stagionali in agricoltura, come per la raccolta delle olive nel Mezzogiorno. La maggior pressione sulla famiglia contadina spingeva le donne della campagna verso i servizi nelle città. Inoltre il baliatico moltiplicò le destinazioni raggiungendo distanze rilevanti come dalla Toscana alla Francia del Sud. Inversamente, nelle valli alpine le donne continuavano a svolgere il ruolo dei maschi, lontani (a causa del modello circolare) per molti mesi l‟anno, occupandosi della proprietà e anche impegnandosi nell‟industria a domicilio181.
Agli inizi del XIX secolo, insomma, le migrazioni transoceaniche, quelle interne e quelle intraeuropee seguitarono a crescere. Gli scarsi raccolti del 1815 e del 1816 produssero una grave carestia che spinse molti contadini settentrionali a cercare fortuna al di là dell‟oceano. Questi flussi furono ostacolati dalle autorità pubbliche, segnate da un‟ideologia mercantilista che vedeva nella perdita di fasce di popolazione un pericolo per lo sviluppo economico, e già nel 1818 si poterono considerare conclusi182.
Furono, invece, le molte professioni girovaghe, a confine tra vagabondaggio e accattonaggio, che coinvolsero alcune migliaia di individui provenienti dalle zone montane del Centro e del Nord Italia, come Liguria e Toscana, ad ampliare le prospettive migratorie dei contadini montanari e, di conseguenza, ad incrementare i flussi transoceanici e intraeuropei. Un esercito, prevalentemente maschile, di orsanti e scimmianti183, suonatori d‟organo, figurinai184,venditori di stampe, venditori ambulanti, battibirba185, segatori di legname,
181 G. Pizzorusso, I movimenti migratori in Italia in antico regime, cit., p. 15.
182 M. Porcella, Premesse dell’emigrazione di massa in età prestatistica (1800-1850), in P. Bevilacqua, A. De
Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma, 2009.
183 Artisti di strada che intrattenevano i passanti grazie alla presenza di animali, tra i quali scimmie e, a volte,
orsi.
184 Costruttori e venditori ambulanti di statuette che ritraevano prevalentemente personaggi e situazioni a
spazzacamini, seggiolai e arrotini di origine contadina186, invasero le strade del Vecchio e del nuovo Mondo a cavallo tra Settecento e Ottocento.
Complessivamente le comunità italiane, sparse all‟estero, contavano tra le loro fila prevalentemente due classi sociali: quella più elevata, composta da rifugiati politici, artigiani, artisti, letterati187, musicisti e commercianti; quella più modesta, formata da venditori ambulanti, lavoratori specializzati e non, artisti di strada e girovaghi. Questi soggetti costituirono l‟avanguardia della nostra emigrazione e rappresentarono gli apripista del successivo esodo di massa.
La classe più bassa della nostra emigrazione, un‟umanità disperata e derelitta, segnata dalla povertà, dall‟ignoranza e da scarse condizioni igieniche, contribuì a far crescere nel mondo gli stereotipi negativi sugli italiani. Non mancarono comunque gli episodi incresciosi, come il traffico dei bambini ridotti in condizioni di schiavitù,188 che contribuirono a rafforzare tali stereotipi.
In conclusione, queste dinamiche migratorie costituirono i prodromi della “Grande emigrazione” transoceanica della seconda metà dell‟Ottocento. La società italiana per secoli fu permeata da una cultura della mobilità, finalizzata a fuggire dalla povertà e ad incrementare la ricchezza. Si tratta, insomma, di un‟eredità immateriale, irriducibile ad un unico modello, che rese possibile il futuro esodo di massa. Le cause, inoltre, di questi primi flussi, come del resto di quelli a venire, non possono essere ricercate solo nelle condizioni di miseria e nel
surplus demografico di alcuni territori della penisola. A questi fattori, infatti, vanno aggiunte
capacità imprenditoriali e strategie sia a livello familiare, sia a livello a livello comunitario, supportate da una rete eterogenea, ma solida, di relazioni sociali. Questi network migratori hanno, da sempre, avviato e sostenuto i flussi in partenza dal nostro territorio nazionale.
L’emigrazione italiana dalla seconda metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento
I primi a muoversi furono i settentrionali. Da tutto il Nord Italia partirono in migliaia verso l‟Argentina e il Brasile, attirati dalle agevolazioni elargite dai governi sudamericani189 e dalle alte possibilità di guadagno nei latifondi. Solo quando si appresero le prime notizie sulle miserabili condizioni di vita dei nostri connazionali, il governo italiano vietò l‟emigrazione in terra brasiliana e gli italiani del nord iniziarono a spostarsi, in numero crescente, verso gli Stati Uniti.
Nei primi anni della “Grande emigrazione”, tra il 1869 e il 1875, partirono circa 100.000 nostri connazionali190. La maggior parte degli emigranti erano giovani maschi, di età 185 Agli inizi del Settecento i “birbanti” erano mendicanti liguri muniti di lettere patenti rilasciate dal
Magistrato con il compito di raccogliere fondi per il riscatto dei sudditi catturati dai pirati nordafricani. Con il passare del tempo le patenti furono oggetto di commercio da parte degli incettatori e molte vennero falsificate, estendendo le motivazioni ad altre gravi sciagure. Così la pratica si diffuse in molte zone d‟Italia e divenne a tutti gli effetti un particolare tipo di truffa perpetuata da questi mendicanti “patentati” per raccogliere fondi a scopi di lucro.
186 C. A. Dondero, L’Italia negli Stati Uniti e in California, in F. Durante (a cura di), Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880, Mondadori, Milano, 2001.
187 Si pensi a Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart,, e Costantino Brumidi, che ornò con i suoi affreschi il
campidoglio a Washington, negli Stati Uniti.
188 G. A. Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Bur Rizzoli, Milano, 2010, pp. 100-114.
189 I due paesi sudamericani promisero iniziali soggiorni gratuiti, occupazione garantita, terre a condizioni
agevolate, lunghi periodi di esenzioni fiscali, fino alla distribuzione gratuita del biglietto di viaggio elargita dal governo federale di San Paolo a decorrere dal 1889. La Costituzione argentina del 1853 faceva menzione esplicita della risorsa migratoria nell‟interesse dell‟agricoltura, dell‟industria, delle arti e delle scienze e una legge del 1876 prescriveva ospitalità gratuita al momento dello sbarco, mentre agenzie ufficiali si incaricavano di avviare al lavoro i nuovi arrivati. A questi erano inoltre garantiti diritti civili e la conservazione della cittadinanza originaria. Il governo brasiliano, dal canto suo, approvò la legge Glycerio per l‟estensione del trasporto gratuito agli individui in età lavorativa anziché alle sole famiglie e vari premi in denaro per privati che fondassero colonie agricole e di popolamento.
190Commissariato generale dell‟emigrazione, Notizie statistiche sull’emigrazione italiana all’estero dal 1869 al 1876, in «Annuario statistico dell‟emigrazione italiana dal 1876 al 1925», Roma, 1926.
compresa tra i 20 e i 40 anni, provenienti dalle campagne, con scarsi livelli d‟istruzione e organizzati in gruppi di parenti e compaesani. In testa vi fu il Veneto, dove tra l‟altro prevalse l‟emigrazione familiare, subito dopo si attestarono, a varie lunghezze, Piemonte, Lombardia e Liguria. In queste regioni, come abbiamo visto, vi era una ben radicata tradizione migratoria. Da tempo braccianti e contadini muovevano verso Francia, Svizzera, Austria e delegavano alle donne i lavori agricoli. All‟inizio, le mete transoceaniche vennero battute soprattutto dai liguri. Dal porto di Genova, infatti, partivano navi a vapore per l‟America del Sud e del Nord già a partire dal 1864. La febbre edificatoria che si impossessò delle capitali europee e la progettazione di grandi infrastrutture continentale richiamò molti settentrionali. La circolazione della manodopera fu incrementata per costruire ferrovie, ponti, trafori e altre vie di comunicazione. Si trattò prevalentemente di lavori stagionali che, quindi, richiedevano solo una permanenza temporanea all‟estero.
Le aree rurali del Nord Italia vissero, alla fine dell‟Ottocento, un periodo di profonda crisi. L‟intensificarsi degli scambi su scala europea e intercontinentale, oltre alla circolazione di uomini, merci e capitali, comportò anche uno spostamento di parassiti e germi patogeni. La fillossera, proveniente dal Nord America, e il bacillo del colera, importato nel 1893 da Austria e Germani del sud, distrussero interi raccolti. I prezzi dei cereali precipitarono, la proprietà fondiaria era frammentata in microfondi, l‟industria domestica si avviava al suo declino e, nel 1888, la rottura dei rapporti commerciali con la Francia troncò le esportazioni di seta greggia e di vino. Inoltre, la piccola proprietà venne schiacciata dalla grande azienda centralizzata che introdusse la risaia, il lavoro stagionale, nuove macchine agricole e concimi chimici. Se a questi fattori uniamo le inondazioni del Po del 1888 e alcune carestie, risulta possibile spiegare l‟eccezionale esodo di famiglie del 1897 da Lombardia, Piemonte, Emilia, Toscana e Marche. La crisi agraria e la mancanza di nuovi lavori pubblici in Europa, portarono i settentrionali a scegliere due nuove frontiere: l‟Argentina e il Brasile, due grandi paesi agricoli che scalpitavano per mancanza di braccia. I Veneti furono i primi a tentare queste nuove rotte. Nel 1878, poco più di 3.000 erano sbarcati in Argentina e in quasi 2.000 in Brasile, dove, 10 anni dopo gli arrivi raggiunsero le 72.000 unità. Gli altri settentrionali li seguirono soprattutto in Argentina. Le partenze di gruppi familiari superarono in breve il 50%,, ma molti continuarono ad emigrare per il lavoro stagionale (golondrinas). Con 12 giorni di viaggio si poteva arrivare in Sud America per contribuire al reddito annuo con il salario d‟oltreoceano191.
I meridionali, invece, si diressero prevalentemente verso l‟America del nord. Gli Stati Uniti esercitarono a lungo, almeno fino alla svolta del nuovo secolo una debolissima attrazione sull‟area settentrionale, mentre fin dal 1881, accolsero un afflusso sempre più imponente dalle ragioni del Sud Italia. L‟emigrazione meridionale, inoltre, non fu affatto tardiva:
L‟irruzione della mobilità transoceanica può collocarsi nel 1879, quando le partenze dalla penisola raggiunsero le 24.000 unità. A questa cifra globale, riempita per una abbondante metà dalle quattro regioni-pilota, il Mezzogiorno dette un contributo molto relativo. Basilicata e Calabria mandarono circa 2.500 individui in Argentina e altrettanti in Brasile, mentre la Campania superò di poco i mille partiti alla volta degli Stati Uniti. Ma se guardiamo allo scadere del decennio, il fatidico 1888, la scarsità di questo apporto ne esce di molto ridimensionata. Certo, era ben lungi dagli oltre 71.000 veneti accorsi in Brasile, ma i 9.000 campani, i 5.000 abruzzesi e i 10.000 lucani e calabresi sbarcati a Ellis Island reggevano il confronto con gli 11.000 piemontesi e i 9.000 lombardi approdati in Argentina. Senza contare che, mentre gli arrivi settentrionali negli Usa superarono appena le 2.000 unità, circa 30.000 meridionali defluirono nel sub continente americano192.
L‟emigrazione italiana negli Stati Uniti, quindi, divenne numericamente cospicua a partire dagli anni Ottanta dell‟Ottocento, quando giunse un numero ingente di immigrati. Le statistiche parlano di 80.000 italiani arrivati tra il 1876 e il 1900 e di circa tre milioni e mezzo
191 A. De Clementi, La «Grande emigrazione»: dalle origini alla chiusura degli sbocchi americani, in P.
Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma, 2009.
di persone, per lo più di origine contadina e provenienti dal Sud Italia, tra il 1900 e il 1915. Si pensi, addirittura che nel solo 1906 attraversarono l‟Atlantico oltre 80.000 campani e quasi 120.000 siciliani. Benché tutte le regioni italiane fossero rappresentate, i quattro quinti degli immigrati italiani provenivano dal Mezzogiorno193. Questo afflusso considerevole di meridionali ha portato la storiografia a parlare di meridionalizzazione dei flussi migratori.
Anche in questo caso, la maggior parte degli emigranti erano giovani maschi in età lavorativa che vivevano in patria condizioni di povertà, ma, nonostante tutto, capaci di affrontare le spese per il viaggio. Avevano per lo più origine contadina, anche se era presente una minoranza di artigiani, di mercanti e di lavoratori proto-industriali. Alcuni di loro possedevano scarsi livelli d‟istruzione, ma la maggioranza era analfabeta. Si trattava più che altro di immigrati temporanei194, anche se molti decisero di stabilirsi all‟estero in maniera definitiva. Attraversavano l‟oceano per lo più in gruppi di paesani e parenti, con lo scopo di rientrare in Italia dopo qualche tempo con le somme di denaro necessarie ad estinguere i debiti contratti e acquistare un pezzo di terra195. Le donne - quando non diventavano “vedove bianche”, ovvero mogli abbandonate in patria dagli sposi che spesso si rifacevano una famiglia nel nuovo paese - emigravano prevalentemente per ricongiungersi ai mariti partiti in precedenza. Questa condizione ha portato a sottovalutare la reale entità dell‟emigrazione femminile. Infatti, a partire dagli anni Novanta dell‟Ottocento, le donne emigrarono negli Stati Uniti in numero sempre crescente e la loro presenza passò dal 21,1% della fine del XIX secolo, al 30,6% nei primi venti anni del XX secolo, fino a raggiungere il 40% tra il 1923 e il 1930196. Questa esperienza migratoria produsse, quindi, un graduale incremento dell‟autonomia personale e una forte emancipazione dalla cultura arcaica delle famiglie197.
Concause dell‟esodo transoceanico - oltre alla diffusione di una cultura della mobilità, alla flessibilità lavorativa e alle valutazioni economiche di ogni singola unità familiare - furono: le gravi condizioni di povertà in cui versavano le aree rurali; l‟eccessiva frammentazione della proprietà terriera dovuta soprattutto all‟abolizione del maggiorascato; la crescente pressione demografica, produttiva di un surplus di manodopera che trovò il suo sbocco naturale sul mercato internazionale del lavoro; la mancata mercantilizzazione del lavoro domestico; l‟unificazione del mercato interno con l‟abolizione dei dazi regionali; l‟abbattimento delle barriere doganali esterne che catapultarono le economie locali nel più ampio e competitivo mercato internazionale, determinando anche il crollo dei prezzi di alcuni prodotti alimentari; l‟avvio stentato dei processi di meccanizzazione e modernizzazione; l‟allargamento del mercato interno del lavoro, con il trasferimento non del tutto lineare di manodopera da un settore all‟altro; l‟incremento della pressione fiscale «che, tra 1885 e 1887, fece dilagare gli espropri con una virulenza sconosciuta al Nord. A spingere i meridionali a imbarcarsi per l‟America non sarebbero stati dunque i moti sussultori del mercato, bensì un‟insolvenza debitoria che aveva nello stato la controparte più esosa»198. In questo umile contesto
193 R. J. Vecoli, Negli Stati Uniti, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Donzelli, Roma, 2009.
194 È stato calcolato che circa la metà dei nostri emigranti, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza
all‟estero, decise di rientrare definitivamente in Italia.
195 R. J. Vecoli, Negli Stati Uniti, cit., in cui si legge a p. 56: «Molti aspetti caratteristici dell‟immigrazione
italiana negli USA - disinteresse a imparare l‟inglese, lento tasso di naturalizzazione, resistenza all‟assimilazione - possono essere compresi se ricondotti alla mentalità propria dell‟emigrazione temporanea».
196 M. Livi Bacci, L’immigrazione e l’assimilazione degli italiani negli Stati Uniti. Secondo le statistiche demografiche americane, Giuffrè, Milano, 1961.
197 B. Bianchi, Lavoro ed emigrazione femminile, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli, Roma, 2009.
198 A. De Clementi, La «grande emigrazione»: dalle origini alla chiusura degli sbocchi americani, cit, p. 201.
Si veda anche G. A. Stella, L’Orda, cit., p. 116, in cui si legge: «Che aria tirasse dopo (l’Unità d’Italia), lo spiega Enrico Panirossi, un settentrionale sceso nel Mezzogiorno come ufficiale dei carabinieri, autore di Studio
amministrativo, politico ed economia pubblica: lungo i cinque anni della liberazione si triplicarono addirittura le
l‟emigrazione venne percepita come una risorsa, anche per coloro che rimanevano in patria a beneficiare delle rimesse199.
Per molti anni, Già dagli anni Ottanta dell‟Ottocento, in mancanza di una precisa disciplina