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STRANIERO NEL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO

3.3 WEAR THE REVOLUTION

In questo percorso d‟analisi della rappresentazione dell‟immigrazione nel cinema italiano contemporaneo, è possibile individuare anche un gruppo di pellicole che attraverso la figura dell‟immigrato mettono in risalto alcuni punti nevralgici della società nazionale e taluni aspetti della crisi culturale e morale che sembrano caratterizzarla in questi ultimi anni. In questo modo, lo straniero diviene una “risorsa” per smascherare certi meccanismi sociali e offrire ai personaggi italiani delle narrazioni filmiche la possibilità di acquisire una nuova consapevolezza sulla loro condizione esistenziale. L‟indignazione che viene così generata, per la condizione individuale o collettiva in cui sono ingabbiati, favorisce, o quantomeno li porta a tentare, una sorta di ribellione. Non sempre però il percorso di emancipazione sfocia in un

485 M. Ambrosini, Richiesti e respinti, cit., p. 172.

486 Il film racconta anche la crisi coniugale dei due protagonisti adulti, ingabbiati in una routine priva di

qualsiasi slancio vitale, a cui la donna cercherà di ribellarsi iniziando a frequentare un altro uomo per poi infine ritornare dal marito. La periferia urbana fa da sfondo a questa condizione esistenziale e appare un luogo vuoto, capace di smorzare ogni abilità umana e anestetizzare sogni e aspettative future. La disillusione della maestra mentre parla con Luciana, la madre di Giampiero («lei mi ricorda come ero io quando sono arrivata qua. Si, i miei studenti erano quasi come figli, magari un po‟ troppo vivace allora. Anch‟io pensavo che sarebbero potuti migliorare, andare all‟università. Qualcuno avrebbe fatto l‟insegnante, chissà! Ma poi gli anni passavano. Qualcuno finiva in galera, qualcun altro morto ammazzato, ma per lo più finivano tutti al bar, a fare niente. Tutti, con gli anni. Anche quelli che parevano più svegli portavano impresse sulla faccia le stesse espressioni stupidi e mediocri. Tutti! No, non mi pare proprio che ci sia qualcuno che sia andato all‟università o abbia combinato qualcosa»), incarna questa visione.

successo sul piano personale, anzi il più delle volte le conseguenze sono drammatiche. Ciò nonostante, questi film riescono a mostrare un sottofondo sociale fino a quel momento rimasto opaco o privo di definizioni collettivamente condivise. Naturalmente questa particolare prospettiva nell‟affrontare il fenomeno migratorio non è valutata consapevolmente dai vari testi e non rileva una generale tendenza del nostro cinema. È piuttosto una considerazione del ricercatore che risulta però utile a identificare un tratto comune, una sorta di topos narrativo, di una parte della cinematografia nazionale particolarmente attenta alle dinamiche societarie.

Il primo film in ordine cronologico ad iscriversi in questa particolare categoria è L’orizzonte

degli eventi di Daniele Vicari (2005), un‟opera originale che dimostra la vivacità culturale del

cinema italiano di questi ultimi anni487. Il testo mette a confronto due individui, due contesti e i rispettivi universi culturali di riferimento.

Nel mondo sotterraneo del laboratorio di fisica nucleare sotto il Gran Sasso, contrassegnato da un‟ambientazione quasi fantascientifica e sul piano stilistico da luci scure e lunari e da un‟andatura da thriller psicologico, si muove Max (Valerio Mastrandrea), un ricercatore universitario che lavora con zelo ad un esperimento scientifico sui neutrini. Laconico, individualista, decisionista, fortemente ambizioso e insofferente al mondo, anche a quello familiare, il protagonista si muove in un contesto segnato dalla competizione e da relazioni interpersonali superficiali e autoritarie. L‟espressione del viso e i piano sequenza che lo vedono trascinarsi in freddi corridoi o su metalliche scale mobili comunicano un senso di solitudine e aridità emotiva. Max, inoltre, è figlio di un imprenditore edile colpito dallo scandalo di tangentopoli. Ha chiuso con la propria famiglia, ma non è riuscito però a risolvere quel nodo antropologico che lo differenzi totalmente dal contesto di origine e rimane imbrigliato nelle contraddizioni del suo passato. Per questo motivo, decide di falsificare alcuni risultati dell‟esperimento da lui diretto e finisce così per distruggere la propria carriera e la sua vita sentimentale. In un attimo di disperazione e impreparato al fallimento decide allora di suicidarsi buttandosi con la macchina da un precipizio.

Viene però ritrovato, ferito ma ancora vivo, da Bajram (Lulzim Zeqja), un pastore albanese di origine macedone che vive sul Gran Sasso. Si accede così al “mondo di sopra”, quello della superficie, più solare e luminoso e contrassegnato da atmosfere bucoliche e da uno stile più prossimo ai film di denuncia sociale, in cui l‟immigrato vive una realtà di grande povertà, emarginazione, sfruttamento sul piano lavorativo e cerca di ripagare il debito contatto con un gruppo di criminali, che gli hanno sequestrato il passaporto, per riacquistare la propria libertà. Qui Max entra in contatto con una realtà antropologica che fino a quel momento aveva solo osservato dall‟esterno.

Vicari, paragonando queste due solitudini, mette a confronto due paesaggi culturali, morali ed antropologici diametralmente opposti ed evidenzia alcuni punti critici dell‟attuale realtà sociale. Alla cultura tardo moderna dell‟italiano, infatti, si oppone il sistema valoriale quasi premoderno dell‟albanese. Questa contrapposizione non si riferisce solo al confronto tra autoctoni ed immigrati terzomondiali, una sorta di cortocircuito che sintetizza anche l‟immagine della globalizzazione, ma richiama alla mente il contrasto tra la cultura rurale del passato di certe zone della penisola e l‟attuale modernità scientifica, ipertecnologica e, per certi versi, disumanizzante.

Il film termina con Max che ritorna alla civiltà, preleva dalla banca i soldi necessari a pagare il debito del suo soccorritore, ma alla fine si richiude nella sua vita passata, nella sua indifferenza e in quel distacco dal mondo a cui era avvezzo. Il carrello finale con cui la macchina da presa abbandona Max esprime proprio questo rifiuto, questa incapacità di andare oltre e ricostruirsi una vita e, soprattutto, la mancata possibilità di assumersi una responsabilità. Questa inabilità del protagonista di emanciparsi testimonia, a livello

487 Il film di Vicari è stato presentato alla Semaine de la critique del Festival di Cannes del 2005. Non sempre

la critica nostrana è riuscita ad apprezzare la pellicola. Comunque in generale, pur non esente da critiche, l‟opera risulta interessante. P. D‟Agostini, “La Repubblica”, 20 maggio 2005: «Molto “costruito” e forse al di sotto dell‟ambizione di trasfigurare in espressione artistica una tesi da dibattito, resta una rara prova del misurarsi con la responsabilità dell‟intellettuale a dare risposte».

metaforico, l‟inadeguatezza di una nazione di risolvere i conti con il proprio passato (tangentopoli), di affrontare il presente (la presenza straniera e il problema dell‟integrazione socioeconomica e la questione culturale) e di prospettare un futuro che sappia fare tesoro di un patrimonio antropologico ereditato, di nuovi stimoli e capacità culturali che provengono da altre regioni del mondo e di una condizione sociale avanzata. Il rischio è la regressione in un atteggiamento di chiusura e disinteresse che, come per il protagonista, fa perdere importanti occasioni di riscatto e trattiene la società nel cul-de-sac (morale, antropologico e culturale) in cui si è rintanata. In fisica nucleare, l‟orizzonte degli eventi è la superficie a “senso unico” di un buco nero. Dopo averla oltrepassata le leggi della gravità stabiliscono l‟impossibilità di tornare indietro. Com‟è improbabile sfuggire alla potente morsa gravitazionale del buco nero, così appare, nella visione pessimista del regista, inverosimile liberarsi da una condizione di ipnosi collettiva e imperturbabilità etica che sembrano sottrarre senso. Ecco allora che la tematica immigratoria assurge ad espediente narrativo per mettere a fuoco la crisi morale, latente ma reale, di un paese («voi italiani pensate solo ai soldi» dice infatti Bajram) che necessita di una riconversione. È questo, in fin dei conti, il leit motiv di tutto il cinema di Vicari: da Velocità Massima (2002) a Il mio paese (2007), fino a Il passato è una terra

straniera (2008).

L‟accento sulla crisi culturale del nostro paese viene messo anche da Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti (2006), un testo fortemente influenzato dalla poetica di Olmi, di cui il regista è stato anche allievo alla sua scuola di cinema, e di Piavoli. L‟opera è girata nelle valli occitane del Piemonte e racconta (in tre lingue: italiano, francese e occitano) il difficile inserimento, morale e materiale, del francese Philippe (Thierry Toscan), un ex professore di lettere che ha deciso di diventare pastore e di trasferirsi dai Pirenei a causa della costruzione di una centrale nucleare, nel villaggio montano di Chersogno. L‟utilizzo delle lingue originali, una fotografia vivida, l‟uso sapiente di un cast di attori quasi esclusivamente non professionisti e una matura regia fanno di questa pellicola, realizzata con il sistema del Coproducers, un piccolo capolavoro del nostro cinema contemporaneo: capace anche di imporsi in molti festival internazionali in giro per il mondo e di ritagliarsi un piccolo spazio nelle sale italiane grazie a quel «fondamentale esercizio di critica e democrazia che è il passa parola»488.

Diritti analizza in profondità la dialettica tra Philippe e gli abitanti del villaggio (suoi interlocutori ed antagonisti) e indaga l‟incapacità di questa comunità di entrare in reale contatto con lo straniero. La diffidenza iniziale dei compaesani, sottolineata dal regista con il ricorso in sottofondo ad alcuni articoli di giornale o a messaggi radiofonici che parlano delle attività criminali degli immigrati ed espressa dai comportamenti di vari abitanti, viene però superata. L‟arrivo del francese, con moglie e figli a carico, è percepito come una possibilità di ripopolare il paese, svuotatosi a causa dell‟emigrazione, e di perpetuare quell‟attività economica, la pastorizia, su cui storicamente si è retta la vita del piccolo borgo. Pian piano però i rapporti si incrinano, per le rigidità di entrambe le parti in causa, fino al punto in cui la famiglia transalpina decide di ripartire.

Il racconto non propone facili moralismi, non sventola la possibilità di un ritorno alla natura, né in modo semplicistico esprime la dinamica tra conformismo e diversità. Della relazione tra Philippe e gli abitanti di Chersogno indaga ogni piega: entrambi sono portatori di un‟ideologia critica verso il modello di vita contemporaneo. Ma il punto è che mentre gli uni hanno congelato quei valori in una difesa chiusa e conservatrice, l‟altro li misura concretamente e faticosamente in una scelta di vita coraggiosa489. Questa contrapposizione si manifesta soprattutto nei dialoghi tra il francese e Fausto (Giovanni Foresti), il vicesindaco del paese: «F: un popolo per essere se stesso deve salvaguardare la propria cultura, parlare la propria lingua. La lingua indica che delle persone hanno vissuto insieme per migliaia di anni; P: no, la cultura nasce dalla convivenza, dal vivere assieme, giorno dopo giorno; F: se penso che per 900 anni qui hanno vissuto persone che parlavano la lingua d‟oc, che da qua fino all‟oceano con le balene si è parlata la stessa lingua per centinaia di anni. Beh! io mi

488 D. Zonta, “L‟Unità”, 8 giugno 2007.

emoziono; P: cos‟è rimasto della cultura occitana? È rimasta la nostalgia. Se sei umile, dicono che non hai le palle. Pensa alla società di oggi se si accorgesse di tutte le persone che si alzano al mattino delusi. La vera trasgressione è cambiare e fare ciò che hai voglia di fare; F: si, ma per la società se esci dagli schemi sei un matto; P: allora sono matto anch‟io, è sono contento di esserlo. A cosa ti serve la vita? Per vivere male? Questa è paura [...] anch‟io l‟ho avuta. La paura che hanno tutti: quella di non essere adeguati alla vita o a quello che vorrebbero fare. Bisogna godere la vita». E ancora più avanti: «F: qui vivevano ebrei, musulmani, eretici, cattolici. Vivevano insieme. La cultura d‟oc ad un certo punto l‟hanno quasi ammazzata. Sai perchè? Perchè la gente è tollerante; P: a me la parola “tolleranza” non piace. Se devi tollerare qualcuno, non c‟è il senso di eguaglianza. Io credo che la violenza nasca dalla repressione degli impulsi sessuali. Questo si è trasformato in potere. È una società basata sulla frustrazione degli altri. La frustrazione fa nascere il più basso dei sentimenti. Un uomo represso, prima o dopo, vuole vendicarsi».

È in queste parole il centro focale di tutta la narrazione. Il confronto tra una posizione fondata sul recupero di una tradizione, meritevole di essere preservata, ma incapace di aprirsi al nuovo, alla differenza culturale, al dialogo, e una visione, a metà strada tra psicoanalisi e impostazione culturologica, capace di ribellarsi ai rigidi schematismi sociali e, libera da preconcetti, in grado di auto-determinare la propria esistenza e di modificarsi quando se ne presenta l‟opportunità.

La tolleranza e il senso di comunità, rappresentato dalla tradizione del rueido, ovvero l‟aiuto reciproco per il bene di tutti che univa gli abitanti di queste valli per nascondere il fieno durante l‟occupazione nazista, sembrano in realtà perse. Il piccolo borgo montano, un metaluogo che rappresenta la crisi culturale dell‟intera società italiana, è una comunità chiusa, incapace di comunicare con l‟alterità ed instaurare un reale rapporto fondato sulla condivisione. La retorica comunitaria, del recupero delle tradizioni passate e della preservazione linguistica e identitaria è fine a se stessa. Viene sfruttata televisivamente solo per attrarre turisti, serve a riempire la piazza del paese in occasione del festival di musica occitana e diviene oggetto della strumentalizzazione da parte di un giornalista inviato da una rivista di enogastronomia per fare un servizio sui prodotti locali. È una cultura che in un certo senso diviene il simulacro vuoto (proprio come le abitazioni del villaggio) di se stessa, ha perso la profonda realtà della sua esistenza e si è barricata in difesa di un‟identità statica e immobile che, per tale ragione, risulta inadeguata all‟incontro con l‟altro e la sua diversità. È una cultura, inoltre, che ha smarrito il significato profondo del suo passato. Non ricorda il lavoro delle generazioni passate e si lamenta dei miasmi provocati dalle pecore del francese («va bene il campeggio estivo, ma allevare capre!») e non rivive la memoria dell‟esperienza emigratoria («una volta eravamo noi ad andare in Francia»), anzi ripropone le diffidenze e i rifiuti che un tempo erano costretti a vivere proprio gli abitanti di Chersogno quando arrivavano in terra straniera.

Lo stesso sindaco (Dario Anghilante), al funerale del pazzo del paese, suicidatosi dopo la partenza dei francesi490, si chiede cosa siano diventati, perchè non si riconoscono più. La lettera scritta da una ragazza per commemorare il defunto compaesano è particolarmente esplicativa dell‟incapacità dell‟intera comunità di avvicinarsi alla diversità, qualunque essa sia, e condividere un destino di solidarietà491. Il film, però, termina con la speranza

490 La scena in ralenti del ritrovamento del corpo ormai esanime del ragazzo segna la drammaticità

dell‟accaduto e lo carica di un significato simbolico per l‟intera vicenda narrata dal film.

491 La lettera è il culmine della tensione drammatica del film e segna l‟inadeguatezza della chiusura culturale

degli abitanti di Chersogno, oltre ad esprimere un messaggio religioso. Il testo recita: «alla fine della battaglia è morto il combattente. Gli si avvicinò un uomo e gli disse: non morire, ti amo tanto. Ma il cadavere seguitò a morire. Gli si affiancarono altri due ripetendogli: torna alla vita. Ma il cadavere seguitò a morire. Gli si avvicinarono in venti, cento, mille, cinquecentomila dicendo: tanto amore e non potere nulla contro la morte. Ma il cadavere seguitò a morire. Lo circondarono milioni di individui con un coro comune: svegliati fratello. Ma il cadavere seguitò a morire. Infine tutti gli uomini della Terra lo circondarono. Il cadavere li vide e commosso, emozionato, si rialzò lentamente, abbracciò il primo uomo e iniziò a camminare». Il messaggio evangelico viene ribadito dal movimento della macchina da presa, una presunta soggettiva dell‟anima del defunto, al termine del racconto per oltrepassare il cancello che delimita il cimitero del piccolo borgo. Queste parole, inoltre,

simbolizzata dalla didascalia finale: «il vento fa il suo giro e prima o poi ogni cosa ritorna» e dall‟immagine surreale dello scemo del villaggio che imita un aeroplano. ”E l’aura fai son

vir” - questo il titolo occitano del film - si riferisce al detto popolare che vuole il vento una

metafora di tutte le cose, un movimento circolare in cui tutto torna, indicando così la possibilità, una volta presa coscienza della crisi morale e culturale del momento, che ritorni il senso reale e profondo di una cultura che per secoli è stata aperta e tollerante e ha fatto di questo spirito di comunione e condivisione il suo punto di forza.

In generale esce fuori un ritratto ambivalente - visivamente raffigurato nell‟asprezza e nella bellezza del paesaggio montano e reso costantemente presente da una colonna sonora poetica e malinconica allo stesso tempo - della piccola comunità e dell‟Italia intera. Un gruppo di persone disposte ad accogliere i nuovi arrivati, come testimonia la festa di benvenuto e l‟iniziale gentilezza dei compaesani, ma che gradualmente cade nel vicolo cieco dello scontro aperto con il diverso, a causa dei suoi costumi (il rifiuto del pastore francese di far benedire la casa dal parroco) e delle sue interferenze (quando Philippe blocca lo scemo del villaggio dal tentativo di aggredire una ragazza procura la rabbia della madre indisposta dall‟invadenza dello straniero). La diffidenza e l‟opposizione degli abitanti locali si manifesta in più occasioni nel corso del film e si riassume nei pettegolezzi sul modo di vivere della famiglia transalpina, nella carità dei villeggianti estivi che scambiano i francesi per delle persone bisognose e nelle parole della moglie di Philippe (Alessandra Agosti): «la maestra ha detto a Virginie di lavarsi perchè puzza di capra. Forse era meglio restare a Bangéres. Questi italiani sono strani. A volte sono molto gentili, anche troppo». La situazione degenera infine con lo scontro tra il francese e un‟anziana donna del villaggio, disposta a rompersi un braccio pur di accusare lo straniero e causare la riprovazione di tutto il villaggio. La chiusura della comunità è simbolizzata dall‟immagine dell‟osteria del paese vuota perchè boicottata dai compaesani a causa della difesa della famiglia straniera da parte del proprietario. Quando Philippe trova alcune capre impiccate, capisce che il tentativo d‟integrazione è fallito definitivamente e decide di ripartire. È da notare che il pazzo del villaggio decide di impiccarsi nello stesso punto in cui sono state uccise le capre, ribadendo così il significato culturale di quell‟azione.

Anche Lezioni di cioccolato di Claudio Cupellini (2007) - una commedia divertente che non scade mai nel triviale e risulta ben costruita anche grazie ad un ritmo serrato - merita una menzione in questo particolare excursus cinematografico. Si racconta la storia di un imprenditore edile privo di scrupoli (Luca Argentero) che, preoccupato dall‟eventualità di ricevere una denuncia per l‟assenza nel cantiere da lui gestito dei più basilari requisiti di sicurezza sul lavoro, decide di assumere l‟identità del manovale egiziano (Hassani Shapi) rimasto vittima di un incidente per frequentare la scuola di alta pasticceria a cui l‟immigrato si era preventivamente iscritto. Il protagonista gradualmente trova dei punti di contatto con un‟alterità in precedenza sfruttata e mal sopportata.

Nel corso della storia l‟imprenditore inizia, infatti, ad instaurare con l‟immigrato un rapporto empatico e confidenziale, ne acquista alcune movenze e modi di fare, è costretto a correggere alcuni suoi pregiudizi e scopre una diversità culturale tutto sommato non poi così distante («non pensavo che in Egitto avevate il derby»). In questo modo, costruisce un rapporto d‟amicizia e rivede alcuni suoi schemi comportamentali: la rincorsa al profitto, la mancanza di senso civico, l‟ascesa sociale anche a costo di rincorrere all‟imbroglio, la discriminazione razziale e l‟incapacità di assumersi la responsabilità di una famiglia. Essendo una commedia, il film semplifica e sdrammatizza le spinose questioni sociali che affronta (lo sfruttamento della manodopera immigrata, la piaga del lavoro nero, l‟assenza di sicurezza sul lavoro, gli scontri di classe), ma allo stesso tempo mette a nudo alcuni riferimenti valoriali alla base della moderna società. Inoltre offre un messaggio positivo di possibile convivenza pacifica tra culture differenti attraverso l‟espediente del cioccolatino creato dai due protagonisti e composto da nocciole umbre e datteri nordafricani. La sintesi di due tradizioni culinarie e culturali capaci di trovare un nuovo e vincente equilibrio.

racchiudono il senso dell‟intero film: l‟incapacità di entrare in contatto con la diversità da parte di una cultura arroccata su se stessa.

Non si tratta certo di un‟opera fondamentale per estrapolare delle considerazioni critiche