STRANIERO NEL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO
3.1 IMMIGRATI STRANIERI, EMIGRANTI ITALIANI E CRISI DELLA CULTURA NAZIONALE
Come si è già avuto modo di dire, l‟arrivo in massa dei profughi albanesi agli inizi degli anni Novanta segna una svolta nella percezione della consistenza del fenomeno migratorio entro i confini nazionali e del nuovo ruolo svolto dalla penisola nel sistema delle migrazioni internazionali.
Sul piano cinematografico, la legittima introduzione dei migranti nell‟immaginario collettivo nazionale si realizza attraverso Lamerica di Gianni Amelio315(1994). Il film è ambientato in un‟Albania ai limiti della sopravvivenza, reduce dal fascismo (il film si apre proprio con un inserto dell‟istituto Luce relativo all‟annessione del paese delle aquile, il 7 aprile del 1939, al Regno d‟Italia316. Nelle immagini introduttive si vede, infatti, lo sbarco a Durazzo delle truppe italiane e Vittorio Emanuele II che assume il titolo di Re d‟Albania. Fin da queste primissime scene si sottolinea così lo stretto legame tra le due nazioni) e dal comunismo (la storia è ambientata nel 1991 subito dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha. I bunker disseminati lungo le strade delle città divengono così il simbolo dell‟oppressione del potere sul popolo albanese) e caratterizzata dalla più nera miseria. Un aneddoto raccontato da Francesco Munzi, durante i sopralluoghi nel paese delle aquile per la ricerca del protagonista principale del suo film Saimir (2004), rende bene, e in un certo senso anche in maniera poetica, lo stato d‟indigenza in cui versava l‟Albania subito dopo la caduta del regime:
C‟è una lunghissima strada che unisce l‟aeroporto di Tirana al centro della città. Le diverse persone che mi hanno accompagnato durante le mie trasferte in Albania, mi hanno raccontato che fino a pochi anni fa quella era una delle più belle strade del paese. Centinaia di alberi delimitavano il percorso quasi a voler dare il benvenuto ai forestieri che arrivavano nel paese via cielo. Chi raccontava, lo faceva con tale nostalgia che quasi si riusciva a vederlo quel percorso, ombroso e ventilato, nella valle circondata dalle montagne. Poi la libertà, il crollo del regime comunista e subito dopo la povertà, feroce. Tra i tanti scempi e delitti che la fame ha provocato in quel paese, certamente tra i meno gravi, è stata proprio la distruzione di quel bosco. Nei primi anni ‟90, in Albania mancava persino l‟energia elettrica ed il freddo assediava la città. Serviva legna da ardere. Furono abbattute le centinaia d‟alberi che rendevano suggestivo quell‟itinerario317.
La povertà estrema di cui parla Munzi è ritratta realisticamente anche dalla pellicola di Amelio: le strade sporche e polverose, gli edifici fatiscenti, lo sciamare dei bambini per strada, l‟immagine di un fanciullo sotto la pioggia accanto ad una delle statue del regime, simbolo del disfacimento di un paese segnato dall‟indigenza del popolo e dalla corruzione della classe politica, lo sguardo di alcuni adolescenti sulle vivande di Gino Cutrari (Enrico Lo Verso) e la folla ai cancelli del porto di Durazzo che grida in albanese «Italia, Italia, tu sei il mondo», rendono bene l‟idea della decadenza della società albanese subito dopo la caduta del
315 Miglior film agli European Film Awards 1994, Nastro d‟Argento 1995 per la migliore regia e fotografia,
David di Donatello 1995 per migliore direttore della fotografia (Luca Bigazzi), per la musica (Franco Piersanti) e per il miglior fonico di presa diretta (Alessandro Zanon).
316 Il regime fascista aveva tentato da sempre di conquistare l‟Albania, che era strategicamente importante
come testa di ponte per i Balcani, con trattati politici, per via militare e con sovvenzioni finanziarie nel 1926 e nel 1927. Una volta annessa, nel 1940 l‟Albania divenne la base di appoggio dell‟aggressione italiana alla Grecia e della Germania alla Jugoslavia nel 1941. Successivamente Enver Hoxha, capo della resistenza albanese, tra il 1944 e il 1945 riuscì a instaurare un regime comunista legato a quello jugoslavo.
regime. L‟utilizzo della lingua originale serve ad incrementare la sensazione di realismo, mentre le parole gridate dalla folla, insieme alla visione collettiva della televisione italiana in uno sperduto villaggio di campagna, al camion di profughi diretti a Durazzo che canta una canzone di Toto Cutugno e alla scena di una ragazzina che balla la musica occidentale, con la madre che chiede a Cutrari di portarla con sé in Italia, incarnano il sogno, l‟illusione, del popolo albanese di poter trovare nel nostro paese la loro “America”, una terra promessa dell‟abbondanza che trasfigura quello che gli Stati Uniti, e altri paesi di destinazione, rappresentarono per molti italiani lungo la storia più che centenaria della nostra emigrazione.
La televisione (nell‟albergo dove arrivano Fiore, interpretato da Michele Placido, e Cutrari o nel villaggio rurale) e la canzone italiana (la cantante albanese che intona una canzone nostrana o il successo di Albano e Romina in Albania) svolgono una funzione di promozione di un‟immagine felice dell‟Italia e, così facendo, alimentano le attese, le speranze e i sogni di una vita migliore del popolo albanese. Questa funzione dei media, - ricorrente in molti altri film che saranno discussi nelle pagine a seguire - oltre ad essere una realtà storica, serve al regista per sottolineare come il viaggio in Italia di questi disperati più che una speranza divenga un‟illusione. La nave derelitta carica di un‟umanità affranta, incantata e attirata dai messaggi mediatici è il frutto appunto di un inganno collettivo che si alimenta tramite il consumo di prodotti culturali italiani. Questa condizione di abbaglio generale si ricava dalle domande “insensate”che i profughi rivolgono a Gino, da cui si evince appunto una visione “televisiva” e stereotipata del nostro paese come oasi di felicità priva di contraddizioni. Se a ciò si aggiungono le parole del mediatore italiano che aiuta i due imprenditori italiani nel disbrigo delle pratiche burocratiche per aprire la fabbrica di scarpe: «Albania comunista era come una prigione. Nessuno è entrato ed uscito per cinquanta anni. Adesso gli stranieri possono entrare, ma gli albanesi non possono uscire», si capisce meglio la percezione (coefficiente umanistico) che un intero popolo ha della propria terra d‟origine e della agognata società di destinazione. I media italiani, insomma, non fanno altro che alimentare il senso di deprivazione relativa del popolo albanese rispetto a quello italiano, scelto come base di confronto per l‟autovalutazione.
L‟identificazione totale tra profughi albanesi ed emigranti italiani, in cui si trasfigura il sogno americano dei nostri connazionali nel sogno italiano degli immigrati, è il tema centrale del film. Questa immedesimazione si realizza attraverso la figura di Spiro Tozaj (Carmelo Di Mazzarelli318), l‟anziano albanese - che si scoprirà essere nel prosieguo del film un italiano, Michele Talarico, che dai tempi della seconda guerra mondiale si finge un autoctono per sfuggire alle rappresaglie dei partigiani albanesi - prelevato dai due loschi speculatori italiani, Fiore e Cutrari, per fare da prestanome e dirigere la fantomatica fabbrica di scarpe a capitale misto. Il vecchio è l‟emblema di tutti gli umiliati e offesi del mondo, strappato alla sua terra e ai propri affetti, perseguitato da tutti, sprofondato nel pozzo di una follia dove sono sopravvissuti solo i pochi ricordi felici di una misera esistenza. Egli stesso, una volta arrivato all‟albergo con Cutrari, afferma questa condizione di sfruttamento e povertà sostenendo: «ci hanno mandato in guerra promettendo pane e lavoro per tutti e invece moriamo di fame peggio di prima». Il personaggio di Spiro, dunque, rappresenta appieno questa identificazione tra i nostri emigranti del passato e gli attuali immigrati che entrano in Italia con il sogno di una vita migliore, come i giovani albanesi del film. Egli stesso, una volta salito sulla nave che condurrà i profughi sulle coste della Puglia, afferma con una certa convinzione di aver intrapreso il viaggio per gli Stati Uniti. Ecco, allora, che il mezzo cinematografico cattura
318 Carmelo Di Mazzarelli è un attore non professionista, nella vita reale di mestiere faceva il pescatore, scelto
dal regista in linea con la tendenza neorealista di utilizzare persone “prese dalla strada” per aumentare il senso di realismo e ottenere una recitazione quanto più possibile coincidente con la vita reale. Film epico, che per alcuni aspetti ricorda i kolossal degli anni Sessanta, sa dilatare una vicenda personale in un dramma corale con uno stile fortemente neorealista, a tal punto che Franco Colombo, su “L‟Eco di Bergamo” del 12 settembre 1994, ha rilevato anche una certa somiglianza fisica tra il vecchio di Umberto D di Vittorio De Sica (1951) e l‟anziano un po‟ folle interpretato da Di Mazzarelli. Il film può essere considerato una nuova voce del Neorealismo sia per lo stile di regia, sia per l‟uso di un cast di attori composto nella quasi totalità da non professionisti, esclusi gli unici due attori di professione: Michele Placido ed Enrico Lo Verso. La scena in cui dei ragazzini di strada rubano le scarpe al povero vecchio, inoltre, rappresenta un esplicito omaggio a Paisà di Roberto Rossellini (1946).
un‟equivalenza tra “sogno americano” e “sogno italiano” che più volte ritornerà anche in altre pellicole sull‟immigrazione straniera in Italia.
L‟identificazione emigranti italiani/immigrati albanesi, un‟immedesimazione che prima di tutto si realizza nei sogni e nelle aspettative di coloro che intraprendono il viaggio, viene anche resa attraverso le parole di un giovane albanese che Cutrari incontra sul camion durante il viaggio con Spiro: «in Italia nessuno muore come lui (riferendosi ad un profugo venuto a
mancare nel corso del viaggio). In Italia i giovani muoiono solo a causa degli incidenti
d‟auto. Io morirò vecchio. Una ragazza italiana può sposare un ragazzo albanese? O la legge lo proibisce? Ora che arrivo in Italia voglio sposare una ragazza di Bari e avere molti figli. Con i miei figli non parlerò mai la lingua albanese, parlerò sempre la lingua italiana e così scordano che sono albanese». Con queste parole il sogno italiano di una vita migliore si trasfigura in senso metaforico nel sogno americano di molti nostri connazionali e nell‟usanza di alcuni di essi di acquisire un nome americano per favorire la loro integrazione319.
L‟identificazione di cui stiamo parlando trova in Gino un‟altra esemplificazione. «Il giovane Cutrari scopre la sua vera condizione umana vivendo sulla propria pelle il calvario degli umili, dei disperati che affidano il loro destino a una sgangherata carretta del mare nella speranza di trovare Lamerica sull‟altra sponda dell‟Adriatico»320. Gino, arrivato in Albania per creare la fabbrica di scarpe, nel corso del film stringe un rapporto ambivalente, ma in fondo affettuoso, con l‟anziano Spiro e, al termine dell‟avventura, si ritroverà a far parte di quell‟umanità che per l‟intero corso della pellicola ha disprezzato con sferzante ostinazione. È insomma, l‟incarnazione moderna dell‟emigrante italiano costretto a salire (perchè arrestato) su di una nave per sfuggire al destino avverso.
Lo sguardo del regista si sofferma anche sui volti degli uomini, delle donne e dei bambini che viaggiano sulla nave verso un illusorio futuro di felicità e lega così in maniera inscindibile questa speranza a quella dei nostri connazionali della Grande emigrazione transoceanica attraverso la ripresa dei volti di Spiro e di Gino. In questo modo il film «ci fa capire quanto sia profondo il solco tra paesi ricchi (come il nostro) e paesi poveri (come l'Albania), ma ci avverte anche che questo solco potrebbe scomparire da un momento all‟altro riportandoci alle misere esperienze del passato, perchè il sogno degli albanesi d‟oggi è identico a quello degli emigranti italiani che cent‟anni fa vedevano “Lamerica“ come la terra promessa»321. Ed è qui, inoltre, che viene offerta una precisa spiegazione del fenomeno migratorio, causato oggi come ieri da differenziali di ricchezza tra le nazioni coinvolte. Se, come abbiamo visto nel precedente capitolo, la povertà non è una causa sufficiente a spiegare del tutto le dinamiche migratorie, è indubbio che la crescente polarizzazione tra zone ricche e zone povere del globo risulta ancora determinante. Secondo i teorici della dipendenza, infatti, la penetrazione del capitalismo nelle cosiddette economie periferiche non fa altro che perpetuare la differenza tra le nazioni e ripropone modelli di dipendenza di tipo coloniale322.
Gino e Spiro, inoltre, rappresentano il confronto tra due Italie, quella del passato e quella del presente, e l‟uso dello stile neorealista collega queste due realtà storiche fino a far coincidere l‟Albania degli anni Novanta con l‟Italia del dopoguerra. In questo duplice legame storico si riafferma quella identificazione già espressa con la disamina dei personaggi. L‟Italia di Spiro,
319 È da rilevare anche che molto spesso nomi anglosassoni venivano attribuiti ai nostri connazionali, quando
erano sprovvisti di documenti, direttamente dalle autorità americane. Questo processo di cancellazione dell‟identità pre-esistente, sia nel caso di una scelta volontaria del migrante sia nel caso dell‟imposizione da parte dell‟autorità, indica un tentativo d‟integrazione e di adattamento da parte del migrante. Questo processo di rimozione però non può realizzarsi fino in fondo. Infatti, nell‟esperienza migratoria coesistono due culture, quella del paese d‟origine e quella della società di destinazione, che il più delle volte fanno della migrazione un fenomeno transnazionale, cioè a cavallo tra due culture e due società attraverso il superamento simbolico dei propri confini d‟appartenenza.
320 E. Natta, “Famiglia Cristiana”, 19 ottobre 1994. 321 E. Natta, “Famiglia Cristiana”, cit.
322 Per un approfondimento di questa prospettiva si veda: D. Lerner, The passing of traditional society, The
Free Press, Glencoe, Illinois, 1958; S. Eisenstadt, Mutamento sociale e tradizione nei processi innovativi, Liguori, Napoli, 1974; I. Wallerstein, The modern world-system: capitalist agriculture and the origins of the
povera e umile, sembra non riconoscersi nell‟Italia ricca e arrogante di Gino. Questa a sua volta, prima del viaggio “catartico” a cui sarà sottoposto il suo rappresentante, sembra invece aver dimenticato il passato di miseria e bisogno della sua terra.
Lo scontro tra due visioni differenti e i sottostanti sistemi di valori, per certi versi incompatibili, sembra esplicitarsi nel dialogo tra i due personaggi durante la colazione in albergo: «S: qui il cibo costa molto. Chi ci dà i soldi?; G: non preoccuparti. Tu ai soldi non ci devi pensare più. Come te lo devo mettere in testa? Adesso hai i soldi. Sei presidente. Hai capito, presidente!; S: che lavoro è presidente?; G: che fai un lavoro buono, comodo. Ogni tanto ti portiamo un foglio e tu firmi; S: come l‟altra volta? Nome e cognome; G: tu firmi e non devi più andare a lavorare; S: perchè avete scelto me per questo lavoro? G: perchè fare il presidente è un lavoro delicato. E di questi tempi non possiamo fidarci di nessuno. Cercavamo una persona onesta come te. S: vi ringrazio, come posso ricambiare; G: niente. Basta che stai quieto e zitto e non dici in giro che lavori con noi, che la gente è invidiosa; S: per fortuna vi ho incontrato». E ancora più avanti, dopo la telefonata con Fiore in cui Gino viene a conoscenza del fallimento del progetto della fabbrica di scarpe: «S: avete ricevuto cattive notizie? È successo qualcosa alla vostra famiglia?; G: stai zitto.; S: parlate. Forse vi posso aiutare; G: non sei più presidente. Hai perso il lavoro. Ecco cosa è successo; S: lo sapevo. Ci avevo riflettuto. Non si può guadagnare il pane mettendo solo una firma. Grazie lo stesso, anche se non mi potete più dare il lavoro; G: neanche io ho più un lavoro. Finito. Siamo a “spasso” tutti e due; S: compare, siamo giovani, abbiamo le braccia. Quando arriviamo al mio paese, mangiamo, ci laviamo, riposiamo e poi andiamo a lavorare a giornata per la raccolta delle olive».
Questi dialoghi sottolineano, appunto, la contrapposizione tra due fasi differenti della nostra storia (il dopoguerra e il benessere successivo al boom economico), tra due sistemi economici diversi (agricolo e postindustriale) e tra due generazioni di italiani con valori di riferimento incompatibili tra loro (la cultura contadina e l‟attuale cultura tardo moderna). Gino intende solo sfruttare la “lucida” follia di Spiro per il proprio tornaconto e in questo atteggiamento opportunista segnala l‟incapacità della società e della cultura italiana contemporanea di tenere in debita considerazione la memoria storica di un passato, poi non così distante. Questo atteggiamento di disinteresse viene esplicitato da Gino quando decide di abbandonare in hotel Spiro. Il dialogo tra i due protagonisti, ancora una volta, esprime in modo chiaro questo atteggiamento di disinteresse e di amnesia storica: «S: è un cinema piccolo (riferendosi alla
televisione). Non avevo mai visto un cinema così piccolo; G: hai visto che è bello questo
posto. C‟è anche il cinema. Puoi guardare senza pagare; S: ma quando ce ne andiamo?; G: non ti piace questo posto? Hai visto quanta gente c‟è. Ci sono tante famiglie, bambini. Sono tutte brave persone; S: il posto è grande; G: e si mangia pure bene!; S: il formaggio era saporito; G: allora? Resta qui per un po‟ di tempo, così ti riposi. Hai un letto, una stanza tutta per te. Mangi tutti i giorni. Che cosa ti manca. Qua stai meglio che a casa tua; S: ma io la casa ce l‟ho!; G: non posso più portarti a casa. Ho tanti problemi, adesso. Però ho parlato con il padrone di questo posto. È una brava persona. Ti porta lui in Sicilia. S: e voi che fate?; G: non preoccuparti. Noi non ci perdiamo. Io verrò a trovarti al paese tuo; S: vi ho fatto qualcosa di male? Vi manca il coraggio proprio adesso che siamo arrivati? Dobbiamo andare insieme in Sicilia. Non vi lascio andare da solo ora che avete bisogno di aiuto; G: io non ho bisogno di nessuno, presidente». I due personaggi, infine, si ritroveranno nuovamente insieme sulla carretta del mare in rotta verso la Puglia, dove finalmente le due Italie si riconcilieranno nella consapevolezza della loro continuità storica e del comune senso di appartenenza, in una sorta di pacificazione culturale e della memoria quando Gino rivivrà, in un solo momento, il passato d‟emigrazione e il presente di società di destinazione della propria patria. È sulla nave, insomma, che l‟italiano di oggi si riconcilia con l‟italiano di ieri e, acquisendo coscienza della memoria del suo popolo, può affrontare l‟inedita sfida storica della contemporaneità con maggiore coscienza e senso critico. In altre parole, Gino recupera, in un sol colpo, una consapevolezza storica e una prospettiva futura.
La crisi antropologico-culturale della contemporaneità è comunicata dal film anche mediante l‟atteggiamento arrogante e poco rispettoso dei due imprenditori italiani. In questo modo
Amelio trasferisce l‟ambiguità tipica dello straniero, contemporaneamente vicino e lontano, minaccia e risorsa insieme, sui due italiani. Il tentativo di Fiore di installare una finta fabbrica di scarpe solo per acquisire i finanziamenti pubblici dei due paesi, cosa tra l‟altro già realizzata in passato col padre di Gino in Nigeria, è una critica esplicita ad una mentalità imprenditoriale senza scrupoli e a un capitalismo selvaggio. Una mentalità che, agli occhi del regista, è penetrata nel tessuto sociale nazionale a tal punto da far dimenticare a questi personaggi la loro stessa origine. Con ciò non si sostiene una visione a senso unico e priva di sfaccettature della storia nazionale, né si realizza una critica ideologicamente orientata del presente, ma si vuole solo avvertire che una lettura attenta del testo filmico porta a rilevare, tra le pieghe della vicenda narrata, la messa in scena di una labile crisi culturale e identitaria, determinata dalla perdita del senso della propria esperienza passata e della cultura civica nel presente. Gino, infatti, quando viene arrestato cerca di spiegare al poliziotto, in relazione alla corruzione del funzionario albanese, che: «corruzione, fucilazione, che cosa significa? Che cosa significa? Ancora non siete pratici dei metodi occidentali. In Italia si fa sempre così. Per rendere più veloce la burocrazia. Si aiutano le pratiche ad andare avanti. Così c‟è più efficienza. È meglio. Noi siamo imprenditori. L‟economia albanese è in crisi. La gente sta morendo di fame. Allora noi rischiamo i nostri capitali, investiamo i nostri soldi323». La retorica di un‟attività imprenditoriale che rischia i propri capitali per il bene della collettività e