L‟insieme delle operazioni preposte alla realizzazione, alla distribuzione e al consumo dell‟oggetto cinematografico non può non avvenire che in un sistema di tipo industriale. Il ciclo produttivo di un film, in cui si sovrappongono compiti tecnico-creativi a incarichi di tipo logistico-organizzativi, si dipana lungo tre fasi:
- la pre-produzione, è la fase precedente alle riprese e comprende la progettazione del film (ossia quel complesso di operazioni che conducono alla stesura della sceneggiatura), la sua pianificazione (cioè il reperimento e la programmazione preventiva delle risorse economiche) e la preparazione (ovvero l‟organizzazione delle attività dei vari reparti coinvolti nella realizzazione del film);
- la produzione, è la fase delle riprese (in media dieci settimane) in cui la sceneggiatura si traduce in immagini. Questo stadio si contraddistingue per una complesso di routines organizzative e amministrative che rendono poi possibile il lavoro di shooting, vale a dire le riprese vere e proprie;
- la post-produzione, è la fase successiva alla riprese in cui il materiale accumulato viene disposto in ordine per la presentazione al pubblico. Il film passa in sala montaggio, poi nei laboratori di sviluppo e stampa (edizione) e, infine, viene consegnato alla distribuzione per le operazioni di promozione e lancio.
In ciascun momento sono coinvolte una moltitudine di figure professionali, suddivise in più reparti: regia, produzione, amministrazione, fotografia, scenografia, costumi e make-up. La lavorazione media di un film dura circa due anni, durante i quali i vari membri della troupe lavorano simultaneamente svolgendo una moltitudine di mansioni97.
Nel cinema, allora, è pienamente evidente la logica di un lavoro intellettuale e pratico che diviene, da individuale, compiutamente collettivo. Basti pensare alla figura del regista, che in molte occasioni ha assunto per sé il ruolo di autore del testo filmico, senza tuttavia poter essere realmente individuato come colui che produce l‟opera, visto che questa è appunto il frutto di un lavoro collettivo, dunque composto da un numero elevato di contributi individuali che si connettono all‟interno di un quadro espressivo e produttivo fondato su precisi criteri organizzativi. Nel corso della storia del medium cinematografico, infatti, il ruolo del regista è stato valutato in diversi modi:
96 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondatori, Milano, 2002, p. 150.
97 Per una descrizione chiara e puntuale dei vari contributi lavorativi all‟interno della produzione filmica si
Nel cinema delle origini la sua figura era poco più che abbozzata; nell‟avanguardia degli anni Venti era un poeta, un filosofo, un rivoluzionario; nel cinema hollywoodiano classico, un professionista stipendiato; nel neorealismo, il portavoce di un popolo; dopo la Nouvelle Vague, un artista che esprime una visione del mondo e nel cinema contemporaneo un divo, un marchio, un imprenditore di se stesso98.
Da subito si è riconosciuta l‟essenzialità del suo lavoro nel processo di costruzione dell‟opera filmica. Questa consapevolezza ha tuttavia prodotto un errore valutativo coronato in quella “politique des auteurs”, diffusasi soprattutto in Europa a partire dagli anni Cinquanta, secondo cui il regista, alla stregua dello scrittore, è l‟unico artefice del testo filmico, per cui questo va considerato espressione della sua personalità e della sua visione del mondo:
In assoluto, possiamo affermare che l‟autore di un film è il regista, e lui solo, anche se non ha scritto una sola riga del soggetto, non ha diretto gli attori e non ha scelto le angolazioni delle riprese; bello o brutto, un film assomiglia sempre a colui che ne firma la realizzazione99.
Al contrario, come si è cercato di delineare anche precedentemente, i film sono opere collettive soggette a molteplici condizionamenti di tipo produttivo, industriale, politico, culturale e, durante la loro realizzazione, necessitano dell‟apporto di molte competenze professionali. Al regista viene comunque richiesta una competenza in gran parte delle tecniche implicate nella produzione filmica e gli va riconosciuta, inoltre, una funzione di coordinamento e direzione dei diversi reparti tecnico-artistici entro un preciso quadro unitario, oltre naturalmente ai suoi specifici compiti di vaglio delle inquadrature e dei movimenti di macchina.
Dunque, il testo filmico è frutto di un lavoro di equipe e trova la sua piena realizzazione, fin dall‟inizio della storia del cinema, in un sistema industriale basato sulla logica del profitto di ispirazione capitalistica, in cui agiscono un complesso di competenze tecniche, artistiche, organizzative e, soprattutto, imprenditoriali. L‟aspetto industriale del cinema è stato sviluppato anche in Europa, ma è soprattutto negli Stati Uniti che ha trovato la sua più concreta e sistematica definizione:
Circuiti di fabbricazione e di vendita furono installati in molti paesi, ditte europee come la Pathé razionalizzarono molto in fretta l‟organizzazione dei loro set, ma furono gli Americani i soli a considerare senza esitazioni il film un oggetto industriale e a organizzare la propria produzione esclusivamente in questa prospettiva. Uomini d‟affari non solo crearono un sistema integrato che andava dallo studio alla sala di proiezione, ma lavorarono nell‟interesse di un pubblico di cui cercavano di indovinare e soddisfare le attese [...]. Girando con estrema regolarità film dei quali assicuravano anche la distribuzione, le compagnie americane, per circa quarant‟anni, ridussero le spese grazie alla clientela americana e, vendendo a prezzi bassi, imposero le loro produzioni sui mercati stranieri, facendo dell‟immaginario cinematografico americano un modello di riferimento talvolta criticato ma largamente imitato100.
Caratteristica fondamentale del sistema hollywoodiano è lo studio system, ovvero la forma di razionalizzazione del lavoro basata su di una rigorosa divisione dei compiti nata a partire dai primi anni Dieci101, che garantisce di dimezzare i tempi di lavorazione dei film e di produrre
98 V. Buccheri, Il film, cit., p. 139.
99 F. Truffaut, Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988, p. 13. 100 P. Sorlin, I figli di Nadar, cit., pp. 98-100.
101 Si veda B. Cendrars, Hollywood la Mecca del cinema, Lucarini, Roma, 1989, in cui si legge alle pp. 59-60:
«Quindi per forza di cose, e per aver voluto razionalizzare troppo un‟arte che ha dato vita a una delle prime industrie del mondo moderno [...], i tecnici del sonoro sono arrivati a un lavoro in serie, a catena di montaggio, forse più economico e ancor più remunerativo per i produttori e i trust, ma deludente per tutti gli altri che concorrono alla fattura del film, dato che la razionalizzazione ha trasformato la professione liberale della creazione artistica, negli studios hollywoodiani, in una serie di mansioni e di operazioni prestabilite ma bizzarre, e talmente complicate che l‟arte della ripresa cinematografica è oggi un‟arte, anzi, una liturgia bizantina. Devono
storie semplici, basate su standard precisi, facili da comprendere da qualsiasi tipo di pubblico. Spesso è capitato però che molti film statunitensi sono stati criticati, soprattutto da molti intellettuali europei, per la loro bassa qualità artistica. Hollywood appare, dunque, organizzata come una vera e propria fabbrica…una “fabbrica di sogni”. Lo studio system hollywoodiano (con il corollario dello star system e del sistema dei generi), in effetti, costituisce la punta più avanzata di una vera e propria necessità produttiva che ha caratterizzato l‟avvento del cinema come medium di massa. Già nei primi anni Settanta Alberto Abruzzese coglieva la forza della componente industriale sostenendo che «il cinema è l‟arte della fabbrica»102. In altri termini, lo sviluppo del linguaggio cinematografico e il suo radicarsi nella società, non possono essere analizzati senza prendere in considerazione l‟organicità strutturale dell‟industria cinematografica.
In Europa, il modello della grande fabbrica americana finalizzata alla realizzazione di alti guadagni è stato: da un lato, osteggiato da piccole case di produzione o da singoli autori che mirarono prima all‟espressione e alla qualità artistica del prodotto cinematografico, anziché al suo successo commerciale; dall‟altro, imitato da un certo numero di importanti imprese cinematografiche come la UFA, l‟Ealing, la Rank, o la Pathè e la Gaumont che per prime, anticipando addirittura Hollywood, ma non riuscendo a eguagliarne il successo, cercarono di realizzare un‟organizzazione articolata e sistematica della produzione industriale.
In Italia, l‟industria cinematografica ha avuto uno sviluppo altalenante, favorito cioè, di volta in volta, da capacità imprenditoriali individuali, da opportunità finanziarie o da occasioni commerciali di vario genere. Un‟organizzazione produttiva integrata e organica non si è mai raggiunta, ma nonostante ciò il cinema italiano ha raggiunto, in diverse fasi della sua storia, la fama internazionale e, tutto sommato, ha retto la pressione statunitense per l‟intero corso del Novecento103. Ancora oggi il panorama italiano è abbastanza articolato e presenta, sia a livello produttivo che sul piano distributivo, problematiche alquanto complesse. Tali questioni saranno affrontate nel corso dei capitoli successivi. È ora necessario vedere quali ripercussioni ha l‟intrinseca natura industriale del cinema sull‟approccio storico-sociologico, ovvero che tipo di complessità entra in gioco nella valutazione complessiva del mezzo cinematografico.
Secondo alcuni commentatori, la natura industriale del cinema con la sua invadenza di fattori socioeconomici legati alla produzione, alla commercializzazione e alle forme di consumo del prodotto filmico, ha trasformato l‟opera d‟arte in merce104. L‟impresa cinematografica, durante il processo produttivo, sacrifica spesso le esigenze artistico-intellettuali a favore di quelle economico-commerciali. In altre parole, la standardizzazione produttiva - basata su un‟organizzazione razionale del lavoro, sulla specializzazione delle mansioni e sulla valenza universale del testo audiovisivo - produce necessariamente una serie di compromessi artistici che risentono del peso dei fattori di ordine finanziario.
Queste considerazioni hanno portato, ad esempio, brillanti studiosi come Horkheimer e Adorno a individuare nell‟industria culturale in genere, fenomeni di degradazione dei beni culturali105. La standardizzazione delle forme produttive determina, infatti, la scomparsa dei contenuti e il trionfo dello schematismo: in altre parole, la morte dell‟arte. La natura totalitaria dell‟industria porta l‟artista ad accettare una posizione subordinata rispetto al potere, nel senso che non svolge più il suo specifico compito di ricerca delle istanze di verità. In questo contesto si realizza una forma di atrofia dell‟immaginazione e la creatività si trasforma in semplice padronanza tecnica del mezzo e in virtuosismo linguistico. Il prodotto culturale è quindi una merce, un bene di consumo, privo di un reale contenuto e di qualsiasi autonomia
infatti essere presenti non meno di cinquanta persone perché si possa registrare il primo piano di un bacio, e perché l‟idea di un soggetto passi per i sessantotto dipartimenti specializzati che costituiscono l‟ossatura di una grande società cinematografica, prima di essere realizzata e finalmente proiettata sullo schermo di una sala pubblica!.».
102 A. Abruzzese, Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia, 1973, p. 95.
103 Per una dettagliata descrizione della storia del cinema italiano si veda G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, 4 voll., Editori Riuniti, Roma, 1993.
104 P. Bächlin, Il cinema come industria, Feltrinelli, Milano, 1958.
artistico-espressiva. Perde, inoltre, qualsiasi attitudine liberatoria e, svuotato com‟è di ogni contenuto, diviene strumento di divertimento, un loisir, utilizzato dal potere per manipolare le masse e ottenerne il consenso.
In quest‟ottica, molta letteratura critico-estetica ha interpretato buona parte del cinema classico e molta dell‟attuale produzione mainstream come una forma di “cinema spettacolo” produttivo solo di illusioni fantasmagoriche, ovvero un simulacro del reale che, grazie all‟effetto di realtà fornito, determina nello spettatore forme di identificazione passiva e di influenza ideologica. A questo tipo di spettacolo cinematografico si contrapporrebbe, invece, un cinema critico, che altro non è che il cinema moderno e quello indipendente, più intellettuale e capace di mettere in evidenza la natura artificiale del testo filmico e, grazie al proprio contenuto di verità, di stimolare le capacità riflessive del pubblico106.
Queste prospettive, assolutamente legittime e per certi versi utili a inquadrare meglio alcune problematiche, si limitano a sottolineare solamente una dimensione negativa del fenomeno cinematografico e lo esaminano da un‟unica prospettiva, ne osservano cioè solo gli aspetti industriali e ne intravedono alcune possibili implicazioni politiche, ma dimenticano di considerare l‟ambivalenza del cinema nel suo complesso e le sue multiformi ricadute sociali.
Se è vero che una produzione industriale impoverisce sul piano artistico-intellettuale certe opere, è altrettanto vero che la ricchezza di offerta è tale che alcuni film possono considerarsi veri e propri capolavori artistici. Inoltre, non tutta la produzione ordinaria deve considerarsi insulsa e poco importante, anzi in molti hanno rilevato che proprio questa risulta più interessante per lo studio delle rappresentazioni sociali. Se è vero, inoltre, che l‟industria culturale trasforma l‟individuo in consumatore e l‟opera d‟arte in merce, è altrettanto vero che a sua volta crea una serie di “anticorpi” che fanno saltare certi equilibri e mantengono una dimensione umana del lavoro creativo107.
Supposto che il cinema classico, per certi versi, appare come un insieme di testi che lasciano poco spazio a istanze emancipatrici e abbandona il proprio fruitore all‟illusione fantasmagorica, è altrettanto vero che molto cinema moderno ha portato alle estreme conseguenze qualche sua interessante intuizione, si è chiuso in forme esoteriche del linguaggio e ha perso gran parte della sua potenza liberatrice e del suo valore comunicativo. In entrambi i casi, comunque, assistiamo a testi audiovisivi che, se calati correttamente all‟interno del loro specifico contesto storico-sociale, si rivelano particolarmente utili allo studio delle società di riferimento.
Una prospettiva storico-sociologica, degna di questo nome, non può assolutamente fare a meno di considerare l‟ambiguità del cinematografo, il suo essere contemporaneamente arte e industria, e deve avvicinarsi allo studio dei testi audiovisivi, indipendentemente dalle loro caratterizzazioni formali, senza pregiudizi estetico-critici. Ogni tipologia di film, anche quello più commerciale o più intellettuale, può fornirci utili spunti di riflessione sulla realtà sociale in cui nasce. Tutto il cinema, quello delle origini così come quello d‟avanguardia, il cinema classico come quello moderno, la produzione documentaristica come quella di finzione, ci dice sempre qualcosa di interessante sull‟epoca in cui è stato prodotto.
Inoltre, molto cinema contemporaneo da tanti definito con l‟appellativo di postmoderno, frutto cioè della sintesi e dell‟unione di talune caratteristiche estetico-espressive appartenenti sia al cinema classico che a quello moderno, non si limita ad apparire come un collage, in cui i singoli elementi perdono la loro originaria funzione o il loro primario valore, ma merita di essere considerato il risultato di riflessioni teoriche e pratiche tecniche e artistiche capaci, ancora, di celebrare la vicinanza e la disponibilità delle cose - secondo l‟interpretazione che si è data nei paragrafi precedenti - in sintonia con l‟epoca che lo ha prodotto e, di conseguenza, di presentarsi come utile strumento per lo studio della società attraverso le proprie raffigurazioni. Questo cinema, insomma, ci mostra il visibile della nostra epoca e i suoi punti
106 M. Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna, 2010.
107 Si veda, ad esempio, A. Abbruzzese, L’immagine filmica, Bulzoni, Roma, 1974 o A. Abbruzzese, La grande scimmia, cit.
di rottura e di crisi, unisce la componente onirica a quella realista e non si limita ad un complesso di significanti vuoti, ma realizza sintesi altrettanto significative.
Un discorso simile, per certi versi, viene fatto da Rick Altman a proposito della genesi dei generi hollywoodiani. Lo studioso dell‟University of Iowa individua in letteratura due visioni contrastanti: da un lato l‟interpretazione ideologica, secondo cui i generi sono un veicolo a disposizione del potere politico per comunicare con cittadini/sudditi o dell‟industria culturale per rivolgersi ad un pubblico di clienti/consumatori. In entrambi i casi si sottolinea la potenza manipolativa e di condizionamento del sistema dei generi hollywoodiani, che inganna il pubblico e gli fa accettare soluzioni ingannevoli dei problemi reali, rispondendo così agli interessi governativi e industriali; dall‟altro l‟approccio rituale, secondo cui è il pubblico il vero creatore del sistema dei generi, la cui funzione è quella di giustificare e organizzare virtualmente la società. In altre parole, le situazioni narrative e le relazioni strutturali dei generi cinematografici offrono soluzioni immaginative ai problemi reali della società e aiutano così i singoli attori sociali ad orientarsi nella complessità del reale. Altman conclude il discorso affermando la validità di entrambe le posizioni e la consapevolezza che il multiforme e articolato sistema dei generi cinematografici svolge contemporaneamente entrambe le funzioni108.
Dunque qualsiasi analisi filmica che vuole inserirsi all‟interno della prospettiva storico- sociologica non può fare a meno di considerare a pieno la complessità del fenomeno cinematografico e la sua duplice natura.
In più, va sempre considerata la natura di medium del cinema che, come prodotto industriale, ha favorito il cambiamento della tradizionale concezione dell‟opera d‟arte. Questa, in epoca moderna, non viene più percepita come un produzione “elevata” (ovvero, soggetta alla comprensione dei soli strati acculturati della società), caratterizzata dalla sua irripetibilità tecnica e concessa alla fruizione individuale di tipo contemplativa, ma inizia ad essere considerata secondo i parametri della riproducibilità e della fruizione collettiva. Walter Benjamin ha scritto pagine illuminanti su questa trasformazione dell‟arte nell‟epoca della riproducibilità tecnica109. Nella modernità il comunicativo si sostituisce all‟estetico e quest‟ultimo, se vuole sopravvivere, o si rifugia altrove, per esempio là dove le forme, le figure o le idee che poi vengono impiegate nello scambio quotidiano trovano una loro prima e fondamentale formulazione, oppure si piega a sua volta sul comunicativo, assumendone le attitudini e i modi in maniera consenziente. In questo quadro, il ruolo del cinema diventa chiaro. Non più solo arte o semplice produzione in serie di tipo industriale, esso si scopre medium. Nell‟epoca della riproducibilità tecnica è giusto valorizzare i media come strumenti dalla rapida e ampia fruizione e capaci di favorire l‟esposizione e lo scambio di contenuti su un piano collettivo.
Nell‟ambito delle mutate condizioni dello scambio culturale e delle nuove relazioni sociali, il pubblico di massa diviene il committente collettivo della fruizione artistica, sostituendosi così ai tradizionali committenti dell‟arte, ma come questi ama vedersi rappresentato all‟interno dell‟opera. In tale contesto il cinema si offre come risposta alle nuove istanze del soggetto moderno. Nel mezzo cinematografico individuiamo i termini di una trasformazione che investe direttamente il sensorio: il soggetto moderno abita un universo fisico e linguistico che reclama competenze nuove, inedite operatività, differenti consapevolezze. Il cinema si impone come uno dei cardini di questa rifondazione delle dinamiche di socializzazione grazie alla sua identità tecnologica, che lo sistema accanto agli altri media che interagiscono efficacemente nelle strategie di un‟industria culturale ormai proiettata verso l‟apice della propria funzionalità sociale. Come sostiene Frezza:
L‟innesco delle relazioni tra innovazioni tecnologiche e sviluppi dell‟industria del cinema va individuato non solo per le dinamiche del profitto, che spingono verso la tenuta di mercati, vecchi e nuovi, dell‟immaginario. Il cinema è industria anche nel senso che le tecnologie segnano - talvolta aprendo, talvolta restringendo in una direzione piuttosto che in un‟altra - campi di possibilità
108 R. Altman, Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004.
espressive. L‟industria e la ricerca tecnologica del cinema promuovono trasformazioni della società, così come forniscono risposte ai cambiamenti reali della vita vissuta dai membri della collettività110.
In una rinnovata tensione socio-antropologica, che molto deve alla lezione di Morin, Frezza individua una sinergia tra apparati e pubblico che costruisce i termini di una grande esperienza collettiva, in cui lo scambio ha luogo in entrambe le direzioni: il cinema va incontro alla domanda di immaginario del pubblico ma, al contempo, è da questo nutrito di immagini e sogni. In quest‟ottica, il prodotto filmico non è soltanto spettacolo e divertimento: lo è insieme con una funzione che corrisponde a esigenze e bisogni effettivi della civiltà e delle società umane.
Oggi, inoltre, l‟originaria tecnologia ottico-meccanica del cinematografo si trasforma e si contamina in una relazione feconda con l‟innovazione informatica. Questo permette al cinema di occupare una posizione di assoluto rilievo nel quadro sistemico della multimedialità. La scienza semiotica111 è giunta alla conclusione che il cinema si presenta ai giorni nostri come un linguaggio spurio, il cui aspetto di maggiore interesse è quello di sistemarsi - sia pure dando vita a un‟estetica autonoma - in un punto di confluenza tra i codici che vengono messi in opera da altri mezzi comunicativi. La ricchezza del cinema, quindi, è nella sua ambiguità,