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Il DPR 448/88 è un testo ricco di contenuti che ha sollevato interpretazioni plurime e spesso contrastanti (Moro A.C. 2000).

Un rilievo problematico, sul quale si è soffermata la dottrina, ha riguardato l’impatto del nuovo processo penale minorile sul fenomeno di decarcerazione. Ci si è chiesti, nello specifico, se la riforma del processo penale minorile favorisse una riduzione delle presenze carcerarie dei minori in Italia. Il sistema della giustizia minorile, come evidenziato, era da tempo segnato da una tendenza riduzionistica, ancora più sorprendente ove si osservava che la decarcerazione aveva avuto modo di realizzarsi al di fuori di ogni riforma legislativa orientata a questo esito. Era quindi naturale che la riforma del procedimento penale minorile favorisse ulteriormente questa tendenza alla diminuzione, sia nel settore della custodia cautelare, sia in relazione al carcere come pena.

Tuttavia, secondo alcune linee di pensiero, questo obiettivo di un progressivo superamento dell’istituzione carcere e di ogni altra risposta custodialistica alla devianza giovanile, veniva perseguito con delle modalità sbagliate, attraverso un ampliamento del potere discrezionale in fase giudiziaria, compromettendo così la volontà a cui il riformato processo dichiarava di ispirarsi: “ciò che è alternativo al carcere può essere concesso, assai raramente deve” (Pavarini M. 1991, p. 133). In quest’ottica, si manifestava il timore che la potenzialità decarcerizzante insita nei percorsi alternativi alla detenzione previsti dalla nuova disciplina, non producesse nessuna ulteriore decarcerazione. Il rischio prospettato era, dunque, che si potesse non avere decarcerazione, o peggio ancora, che venisse estesa una penalità alternativa al carcere, ma pur sempre limitativa della libertà personale, con il probabile esito di ampliare l’indotto carcerario stesso quando questa si fosse dimostrata inefficace (Pavarini M. 1991, pp. 124-125).

Nonostante i timori espressi sull’effetto che le nuove norme avrebbero potuto produrre sui processi di decarcerazione, la conseguenza più evidente generata inizialmente dalla riforma fu una netta diminuzione dei minori detenuti.

Come è stato evidenziato, già prima dell’emanazione delle nuove disposizioni penali a carico di imputati minorenni, i dibattiti sulla de-istituzionalizzazione minorile iniziati negli anni ’70 avevano sottolineato la necessità di limitare le risposte di tipo segregativo alla devianza giovanile, che vedevano nelle istituzioni chiuse e coattive (riformatori, case di rieducazione, manicomi, ecc.)

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l’unica strada per il recupero e per la cura del comportamento deviante, e che avevano prodotto un’ideologia dell’adultizzazione del minore che delinque. Da questa maturazione di pensiero derivò la scelta compiuta da molti giudici minorili di condannare al carcere un numero sempre più esiguo di giovani, avviando un processo di de-carcerazione, attraverso il quale produrre quei cambiamenti culturali indispensabili per la formazione e lo sviluppo di soluzioni alternative alla prigione. Tale processo di trasformazione della cultura della punizione, soprattutto, fu il primo passo verso il superamento della logica punitivo-segregante che aveva dominato il processo penale, e della sua funzione rieducativa e di sostegno. A ciò era seguita una politica di deflazione carceraria, successivamente avallata, con l’ampliamento a due anni delle pene sostituibili con semidetenzione e libertà controllata, dalla nuova disciplina del riformatorio giudiziario e dalle nuove norme molto restrittive in tema di arresto in flagranza di reato, con cui si era ulteriormente ristretto l’accesso dei minori in carcere. Ancora prima che entrasse in vigore il DPR 448/88, quindi, si era potuto parlare di “tramonto del carcere” (Pazè P. 1989, p. 11) come di qualcosa che già si stava realizzando, tanto che si ipotizzava che le nuove disposizioni processuali avrebbero consentito il sostanziale svuotamento degli istituti penali minorili.

In effetti a partire dal 1989 i carceri minorili iniziarono a svuotarsi in modo molto evidente realizzando un risultato neanche pensabile fino a qualche anno prima (Ministero della Giustizia 1998). Se, tra il 1988 ed il 1989, le statistiche avevano evidenziato un elevato numero di ingressi mai inferiore alle 5500 unità, l’introduzione della nuova normativa determinò una drastica riduzione nel numero degli ingressi in carcere, che scesero a sole 782 unità. La previsione secondo la quale il carcere si sarebbe svuotato, sembrò dunque dimostrarsi esatta almeno in un primo momento (Pazè P. 1989). Il movimento di decarcerazione trovò quindi pieno riconoscimento nel DPR n. 448 del 1988, il quale, fissando quale principio fondamentale la residualità della detenzione, favorì di fatto un’ampia decarcerazione per tutto il 1990.

La controriforma attuata con il D.Lgs. 14 gennaio 1991 n.12, segnò, però, l’inizio di un periodo diverso, contrassegnato da un’opposta tendenza. Il processo di deistituzionalizzazione fu bruscamente interrotto dall’emanazione del DPR n. 12 del 1991, per effetto del quale il numero dei minori presenti negli istituti penali iniziò nuovamente a crescere. Questo decreto, contenente le

disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate, apportò una serie di modifiche sia al DPR 448/88 che alle disposizioni di attuazione

(DPR 272/89). In particolare, esso portò ad un ampliamento della categoria dei delitti che consentivano l’applicazione della misura della custodia cautelare. Dall’inizio del 1991, dunque, gli ingressi negli istituti penitenziari iniziarono nuovamente a crescere, attestandosi intorno alle 2000

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unità annue, con una intensità che, seppure con qualche oscillazione, si è mantenuta costante fino al 1998 (Ministero della Giustizia 1998).

Per tentare un’esauriente spiegazione del calo o dell’incremento della popolazione delinquenziale minorile, così come appare dalle istituzioni penitenziarie, è necessario far riferimento agli atteggiamenti che l’opinione pubblica assume nei confronti di questi temi e del modo di affrontarli. Da sempre infatti il maggiore o minore ricorso a strumenti repressivi o a risposte di accettazione e comprensione è correlato con la reazione sociale al problema che con questi mezzi si vuole affrontare (Rugi C. 2000). Nonostante che i dati statistici indichino il contrario, l’opinione pubblica può essere convinta, che i fenomeni della delinquenza siano in crescente aumento e che le carceri minorili siano colme di criminali. Spesso anche un singolo episodio criminoso può suscitare grande clamore e generare un clima di paura collettiva. Può accadere che le norme restrittive con le quali il legislatore interviene in tali casi siano il frutto, piuttosto che di una coerente politica penale e penitenziaria, della necessità di contenere l’allarme sollevato nella società dal singolo fenomeno. A tal proposito, il decreto del 1991, a modifica del DPR 448/88 rappresentò proprio la risposta rassicurante del legislatore alla richiesta, da parte dell’opinione pubblica, di maggiore severità nei confronti della devianza giovanile e interruppe il processo di svuotamento del carcere cui aveva dato vita la normativa relativa al nuovo processo.

C’è da aggiungere inoltre che dal 1991 l’applicazione in concreto delle misure di decarcerazione, e i conseguenti diritti all’educazione e alla socializzazione garantiti ai minori che hanno commesso reati, sono stati spesso influenzati da variabili extragiudiziarie, ossia da dimensioni di tipo culturale, operativo e sociale, la cui importanza sulle scelte di politica giudiziaria non va sottovalutata: le diverse misure di decarcerazione non sono state sempre applicate in modo bilanciato e coerente a tutti i minori. I giudici hanno concesso tali misure tenendo conto dell’economicità del reinserimento in quanto, consapevoli della limitatezza delle risorse esistenti, hanno mirato ad escludere dai provvedimenti di decarcerazione quei soggetti più svantaggiati che potrebbero aumentare il rischio di fallimento (Rugi C. 2000).

Il dato di fatto di un persistente, seppur diminuito rispetto al passato, numero di ragazzi presenti in istituti penali minorili, ha posto, comunque, la necessità di occuparsi della struttura contenitiva. In particolare ci si è chiesti come sarebbe dovuto essere il carcere per i giovani che ancora lo popolavano, ipotizzando un carcere diverso ad iniziare dalle attività dei detenuti. Le esperienze alle quali è stato possibile fare riferimento possono “un po’ grossolanamente essere, divise in due filoni” (Pazè P. 1989, p. 23). Un primo gruppo di carceri minorili si raggruppa intorno alla comune caratteristica di essere indirizzati al migliorarsi all’interno. L’esempio più noto, ma non unico, è quello del progetto Ferrante Aporti di Torino (Pazè P. 1989), con il quale si è tentato di far

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diventare più umano il carcere minorile, permettendo l’ingresso in istituto di artigiani, associazioni sportive, gruppi volontari; cercando di “portare la città in carcere” (Pazè P. 1989, p. 23). Ma questo modello in realtà è stato superato da iniziative organizzate al di fuori delle mura carcerarie.

Altre esperienze, infatti sono sorte e si sono sviluppate nella direzione di un carcere minorile tendenzialmente aperto, da cui i ragazzi uscivano per andare a scuola, al lavoro, alle associazioni, a fare sport; utilizzando il carcere come luogo e momento da cui partire “per costruire all’esterno una rete di rapporti destinati a durare” (Pazè P. 1989, p.23). Si tratta, in questo caso di un “carcere aperto alla città”, che esprime “una nuova impostazione della pena”: “far servire quel tempo della pena a qualcosa, a costruire un’alternativa, alla vita libera rispetto ad una situazione di vita coatta” (Margara A. 1986, p. 545).

Il fallimento del sogno di liberarsi dal carcere per i minori - sogno intercorso tra l’entrata in vigore delle disposizioni sul processo penale minorile e la c.d. controriforma del D.L. 12/1991e coltivato per l’intero anno 1990 (quando il carcere minorile si era quasi del tutto svuotato) - ha indotto il dibattito intorno alle problematiche della devianza minorile a trascurare la questione carceraria; essa ha, col tempo, perso la centralità culturale che la tensione morale, nel decennio precedente, le aveva consentito di acquisire. Solo di recente si è riproposto tra gli operatori la necessità di stabilire quale sia l’atteggiamento culturale più corretto in ordine alla questione carceraria minorile; “se si debba, in sostanza, riprendere la precedente prospettiva ed insistere perché si giunga al superamento del carcere minorile oppure se si debba fare un discorso di realtà, prendendo piuttosto atto che non sussistono oggi concretamente le condizioni per riproporre una tale indicazione” (Mastropasqua I. 1997, pp. 8-9).

Sarebbe preferibile questa seconda strada, perché - se è vero che i ragazzi ad oggi detenuti negli istituti penali minorili sono solo poche centinaia, che tutto il sistema delle misure cautelari non detentive, delle sanzioni penali sostitutive e di quelle penitenziarie alternative per i minorenni si fonda sulla concreta previsione che, in caso di violazione delle prescrizioni di volta in volta negoziate o imposte, ciascuno degli interventi suddetti sarà modificato in pena detentiva - “eliminare il carcere minorile significherebbe eliminare il supporto su cui ci si regge tutto il sistema penal-penitenziario minorile e segnarne irrimediabilmente il crollo” (Mastropasqua I. 1997, p. 9). L’opposizione tra coloro che sostengono la necessità del carcere e coloro che ne negano ogni utilità si va ponendo negli ultimi tempi in una dimensione più sottile, meno netta, ma non per questo meno significativa. La posizione ormai nettamente prevalente sostiene che allo stato attuale il carcere minorile non possa scomparire; il problema che si pone è, quindi, quale carcere si debba ipotizzare: se cioè esso (e tutto il sistema della risposta penale) debba rimanere quale ora è nei fatti con i limiti e le violazioni dei diritti dei minori difficili, oppure se alla presa d’atto dell’attuale indispensabilità

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del carcere debba accompagnarsi un progetto diretto ad una rapida eliminazione delle carenze e delle inadeguatezze. È fin troppo facile rilevare che nessuno si sogna di sostenere esplicitamente la prima alternativa e che tutti si dichiarano a parole per la seconda. Ma poi emergono considerazioni che ripropongono la perifericità della condizione carceraria, la necessità di tempi troppo lunghi per risolvere i problemi, che sono di fatto favorevoli a perpetuare l’attuale negativa condizione carceraria minorile (Mastropasqua I. 1997).

Le misure di decarcerazione minorile

L’attuale quadro legislativo è fortemente influenzato da un operare del legislatore che ondeggia tra chiusure ed aperture del carcere, legate più alla contingenza che alla necessità di costruire una disciplina organica e razionale (De Leo G. 1981b). Del resto appare ormai assodato che la penalizzazione nei termini classici non è in grado di offrire al minore la possibilità di riconvertire se stesso attraverso la sperimentazione di regole ed obiettivi concreti. La carcerazione è considerata di per sé un fattore di desocializzazione e di emarginazione. A tal proposito si discute da tempo sulla necessità di decarcerizzare o comunque di non intervenire, nei confronti di chi è incappato nelle maglie della giustizia, attraverso sistemi puramente afflittivi (Di Nuovo S., Grasso G. 2005).

Fatta salva l’applicazione degli istituti che, secondo il DPR n. 448/88, sono suscettibili di dar luogo al proscioglimento dell’imputato ancorché riconosciuto colpevole del reato ascritto (irrilevanza del fatto, esito positivo della prova, perdono giudiziale), il processo penale minorile può naturalmente concludersi con una sentenza di condanna alle pene previste dal nostro ordinamento penale (reclusione e multa per i delitti e arresto e ammenda per le contravvenzioni). Sono però ravvisabili, anche in questo caso, alcune distinzioni, riguardanti in particolare l’obbligatorio riconoscimento della diminuente dell’età (art. 98 c.p.) e la possibilità di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 163 c.p.) per le condanne fino al limite di tre anni di pena detentiva anziché i due stabiliti per i maggiorenni con età superiore ai 21 anni e i due anni e sei mesi per i maggiorenni di età compresa tra i 18 e i 21 anni (ovviamente in tutti i casi si fa riferimento all’età all’epoca del commesso reato). Trascorso il tempo di sospensione, se non subentrano nuove condanne la pena si estingue, in caso contrario va a sommarsi a quella nuova.

In tema di decarcerazione il nuovo processo penale minorile offre un ampio ventaglio di possibilità sia sostitutive sia alternative al carcere, in linea con l’evoluzione culturale della giustizia minorile in materia, con quanto previsto dai più recenti documenti internazionali e con la possibilità di concepire la sanzione penale al di fuori di istituzioni chiuse (Canepa M., Merlo S. 2002).

Tra le sanzioni sostitutive rientrano: - pena pecuniaria

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- semidetenzione - libertà controllata.

La pena pecuniaria è una prima modalità di sostituzione delle pene detentive brevi. Essa consiste nel pagamento allo Stato di una somma di denaro, subordinata a limiti soggettivi (quali la capacità e i motivi a delinquere, i precedenti penali e giudiziari, la condotta e le condizioni di vita del reo) e oggettivi (quali la gravità del reato) (Ministero della Giustizia 2015b).

Sempre per quanto riguarda le sanzioni sostitutive, qualora il giudice ritiene di dover applicare ad un minorenne una pena detentiva non superiore a due anni, può sostituirla con le sanzioni della semidetenzione o della libertà controllatatenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorennenonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali e in relazione alla necessità di non interrompere i processi educativi né i rapporti sociali (art. 30 DPR 448/88).

Con la sanzione sostitutiva della semidetenzione, al minore viene imposto di trascorrere una parte della giornata (almeno dieci ore) in un istituto di semilibertà, separato dal carcere, dal quale si può allontanare esclusivamente per esigenze di studio o di lavoro utili al suo reinserimento sociale (Ministero della Giustizia 2015b).

La libertà controllata è anch’essa una sanzione sostitutiva che viene inflitta quando il reato addebitato risulta essere di modesta entità; essa consiste nel sottoporre il ragazzo ad una serie di prescrizioni limitative a contenuto negativo (relative a ciò che non deve fare), ed a contenuto positivo (relative a ciò che deve fare) che siano funzionali alle sue esigenze educative (Ministero della Giustizia 2015b).

Prima dell’emanazione del DPR 448/88, tali sanzioni sostitutive erano disciplinate dalla legge n. 689 del 1981 che ne prevedeva una generale applicabilità ai minori, diversificandone sostanzialmente l’applicazione della disciplina tra adulti e minori. “Attualmente la norma configura un’azione a maglie larghe, da costruirsi nel progetto educativo che viene individuato insieme ai sevizi minorili, il minore e la sua famiglia” (Mastropasqua I. 1997, p.62).

All’insieme di norme con il quale il legislatore detta una disciplina specifica per i minori se ne affiancano altre, emanate per i soggetti adulti, che possono applicarsi comunque nei confronti dei minori. Tra queste norme rientrano quelle che prevedono le misure alternative alla detenzione. Delle misure alternative fanno parte:

- l’affidamento in prova ai servizi sociali - la semilibertà

- la detenzione domiciliare - la liberazione anticipata - la liberazione condizionale.

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Per quanto concerne questo tipo di misure è importante ricordare una delle numerose modifiche alle norme dell’ordinamento penitenziario30

(in attesa di una disciplina specifica applicabile anche ai minori), rappresentata dalla legge n. 165 del 1998 (Legge Simeone) che si inserisce nel solco della Legge Gozzini (n. 663 del 1986) sulla via della riduzione e della depenalizzazione dell’area carceraria. La Legge Simeone ha introdotto ipotesi in cui è possibile usufruire delle misure alternative senza transitare dal carcere ed ha esteso i presupposti per l’applicazione di tali misure, ovvero ne ha amplificato la sfera di applicazione31. Le ragioni di fondo della riforma dell’ordinamento penitenziario sono riconducibili all’idea di una esecuzione penale utile al reinserimento sociale e al recupero del detenuto che può realizzarsi compiutamente solo attraverso contatti con il mondo esterno. Si propone un sistema nel quale il carcere non rappresenta più l’unica strada per espiare una condanna ma anzi è solo il punto di partenza di un percorso controllato ed assistito che si apre a sempre maggiori spazi di libertà e contatti frequenti con la società libera. Con la previsione delle misure alternative lo stato rinuncia ad esigere una parte della pena detentiva a fronte dell’impegno del condannato a utilizzare le occasioni di socializzazione che gli vengono offerte.

La misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dall’art. 47 dell’ordinamento penitenziario e successive modifiche, è considerata la misura alternativa per eccellenza per quanto riguarda il cosiddetto riduzionismo carcerario in quanto si svolge totalmente fuori dell’istituto di pena. La misura comporta l’affidamento al servizio sociale per un periodo uguale a quello della pena da scontare o della pena residua in stato di libertà assistita e controllata, con l’obbligo di osservare le prescrizioni stabilite dal tribunale di sorveglianza. Le finalità dell’istituto dell’affidamento in prova, in particolare, sono riconducibili essenzialmente alla volontà di evitare il più possibile i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà, a favorire la rieducazione ed il reinserimento sociale del condannato in vista dell’approssimarsi della scadenza della pena (Canepa M., Merlo S. 2002).

La concessione dell’affidamento in prova è vincolata alla presenza di alcuni requisiti riconducibili al tipo di pena che il condannato deve espiare, all’entità della pena da scontare, alla non

30 Si tratta della legge n. 354 del 1975, modificata, però, dalle già richiamate norme di depenalizzazione e di riduzione

dell’area carceraria della Legge Gozzini (n. 663 del 1986), nonché dal D.L. 13 maggio 1991 n. 152 (successivamente convertito nella Legge 12 luglio 1991 n. 203) e dai Decreti Legge 8 giugno 1992 n. 306 e 14 giugno 1993 n. 187 (poi convertiti nella Legge 7 agosto 1992 n. 356) che hanno a loro volta rappresentato una sostanziale abrogazione della Legge Gozzini per particolari categorie di condannati. Infine, l’ultima modifica all’ordinamento penitenziario è stata apportata dalla legge Simeone (n. 165 del 1998).

31 La prospettiva è sempre quella della decarcerizzazione e va ad incrementare la divaricazione a forbice tra esecuzione

penale ed esecuzione penitenziaria, produttiva della c.d. area penale esterna. È opportuno infatti sottolineare come ci si trovi di fronte ad una delle fasi alterne che hanno da sempre caratterizzato la materia penitenziaria, nel senso che la Simeone si pone in contrasto, quanto a finalità, con la legislazione immediatamente precedente. Ma come è stato evidenziato l’emanazione di leggi ispirate a principi contrari le une successive alle altre, non rappresenta un fenomeno nuovo per la materia penitenziaria (Basaglia F. et al. 1975).

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sottoposizione del condannato alla misura cautelare della custodia in carcere, alla assenza di recidiva del condannato, alla disponibilità di un domicilio (è necessario e sufficiente che il soggetto abbia una dimora effettiva che lo renda reperibile, condizione indispensabile per un corretto svolgimento della misura perché consente la valutazione circa il comportamento tenuto e l’osservanza delle prescrizioni)32

, ed infine, alla cosiddetta prognosi di rieducabilità del condannato. Presupposto per l’applicazione della misura è che la pena definitiva, inflitta ai condannati a pena detentiva, senza distinzioni di età, non superi tre anni anche se costituente residuo di maggior pena. Un secondo caso, oggi utilizzato in via prioritaria, introdotto a seguito delle modifiche apportate al testo originario della riforma del 1975, prevede che l’istanza possa essere attivata a favore dei condannati in stato di libertà, al fine di evitare, a determinate condizioni, la detenzione carceraria. La concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale è infine subordinato ad un presupposto di tipo soggettivo. Il comportamento del condannato (nello status di detenzione o di libertà) infatti deve essere tale da far ritenere che la concessione della misura, anche attraverso le prescrizioni che ne conseguono, contribuisca al suo reinserimento sociale ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati (art. 47, comma 2, ord. pen.) (Presidenza della Repubblica 1975). Il provvedimento può essere adottato quindi, sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità