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MODELLI TRATTAMENTALI DELLA GIUSTIZIA MINORILE: UNO SCHEMA CONCETTUALE

Giovani adulti nell'anno

MODELLI TRATTAMENTALI DELLA GIUSTIZIA MINORILE: UNO SCHEMA CONCETTUALE

Nello schema che segue si cerca di dare conto dell’evoluzione delle modalità operative della Giustizia minorile, che seppure sempre tesa ad operare nel segno del miglior interesse del minore, è stata sottoposta a continua revisione, sia per i modelli teorici che per le pratiche di intervento. In tal senso è importante rilevare come il sistema della Giustizia minorile oggi tenda all’attuazione dei principi propri della giustizia riparativa, con rimando ai concetti di responsabilità e responsabilizzazione, superamento del conflitto, valenza educativa dell’esperienza del reato e minima intrusività del sistema giudiziario, avvalendosi, per quel che riguarda il suo operato, di tecniche di intervento, quali la mediazione o i lavori socialmente utili, che esemplificano al meglio il passaggio dal sistema penale retributivo al sistema di giustizia riparativa. Ecco quindi che dal primo approccio, tutto centrato sul concetto di reato e di responsabilità, si è passati ad una progressiva considerazione di tutti gli attori e di tutti i ruoli del sistema della Giustizia minorile: i giovani autori di reato, la vittima, la famiglia, la rete degli operatori sociali, nel tentativo di garantire non solo l’equità della misura trattamentale, ma anche l’efficacia e la tenuta dell’inserimento sociale del giovane reo (Ministero della Giustizia 2015b).

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Figura n. 1.1 - Modelli trattamentali della giustizia minorile: uno schema concettuale

Fonte: Ministero della Giustizia 2015b

IV LIVELLO

MODELLO DELLA SICUREZZA DINAMICA

La sicurezza è condizione per la

realizzazione di qualsiasi progetto educativo che riguarda il minore. Il modello si fonda su un concetto di responsabilità intesa come

complessiva e pluridimensionale, non esclusiva né delegabile e limitata a una specifica funzione, bensì integrata ovvero condivisa

con tutti gli attori del sistema.

III LIVELLO

MODELLO RIPARATIVO

Il modello si evolve estendendo le due funzioni precedenti e l’intervento tende a considerare anche la vittima e a prevedere

una finalità di tipo (ri)educativo.

II LIVELLO

MODELLO RIABILITATIVO – TRATTAMENTALE

L’intervento è interno al Dipartimento della Giustizia Minorile ma è al contempo presente una prima proiezione esterna; la pena viene

interpretata in maniera riabilitativa.

I LIVELLO

MODELLO RETRIBUTIVO

Il Dipartimento della Giustizia Minorile lavora principalmente sul reato e l’intervento si conclude con l’esecuzione

della pena.

- reato

responsabilità individuale del reo - punire

imposizione di un processo e di una pena giusta e sicura

- accertamento

responsabilità a favore della ricostruzione di un equilibrio interrotto

- autore del reato

Patologia fisica, sociale o antropologica - rieducazione del reo

normalizzare, correggere, reimpostazione dei bisogni e risocializzazione del reo - equipe interdisciplinari

cura/trattamento scientifico e individualizzato del reo

- danni e relazione tra reo/vittima mediazione del conflitto

- responsabilità e responsabilizzazione valenza educativa dell’esperienza reato - costruzione consenso tra reo/vittima gestione del conflitto attraverso il coinvolgimento attivo delle parti

- persona e società, contesto

psico-socio economico

individuazione di politiche globali e integrate - costruzione di rete di

partner istituzionali e non

scelte strategiche orientate alla prevenzione e al reinserimento sociale - promozione del benessere

individuale e sociale

coinvolgimento di famiglia e attori interni /esterni al DGM

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Il modello retributivo

La Scuola Classica, diffusasi nel periodo illuminista, come reazione a un sistema penale caratterizzato dall’uso della tortura e dalla ferocia delle pene, permise di superare le crudeltà dell’Ancièn Regime, rivendicando un diritto penale garantista dei diritti dell’uomo e introducendo dei principi che sono ancora oggi la base del diritto penale moderno. Essa affidò alla pena una funzione etico-retributiva, partendo dall’assunto che il reato non è altro che una violazione dell’ordine sociale, attuato da un soggetto capace di fare liberamente le proprie scelte e che per questo motivo merita una giusta e sicura punizione. Questa Scuola introdusse principi fondamentali, quali legalità, imputabilità, offensività, materialità del reato, personalità della pena e colpevolezza. La pena secondo la Scuola Classica doveva essere afflittiva, determinata, inderogabile e proporzionata alla gravità del reato. Solamente in questo modo il diritto penale poteva conseguire un effetto deterrente sul comportamento criminale futuro, orientando il comportamento dei consociati. Infatti, per evitare che il criminale ripetesse l’azione delittuosa o che altri potessero imitarne l’atto criminale, le pene dovevano manifestare lo svantaggio in cui sarebbe incorso il criminale rispetto al vantaggio che il compimento del delitto prometteva. “Un sistema penale così concepito doveva esercitare un’azione di prevenzione, generale e speciale, in quanto gli individui, messi di fronte a leggi giuste e chiare, essendo in grado di scegliere liberamente, più difficilmente avrebbero compiuto azioni criminose: il colpire il reo nei suoi diritti, tanto quanto il delitto da lui commesso ha colpito i diritti altrui, era necessario e sufficiente per trattenere i consociati dal delinquere, annullando qualunque vantaggio derivante dal reato” (Mantovani F. 1992, p. 560). L’idea di fondo di tale modello era quella per la quale il male costituito dal reato, veniva retribuito come il male penale.

Tuttavia, la minaccia del carcere non servì a ridurre il tasso di criminalità, che rimase invariato. I classici utilizzarono come unico strumento di prevenzione generale e speciale la pena, per il timore che l’introduzione di varianti personali nella responsabilità aprissero la strada all’arbitrio e all’incertezza. “Secondo tale indirizzo la pena, in quanto castigo per il male commesso, ha senso se l’uomo ha volontariamente e consapevolmente scelto la violazione della norma, pur avendo, invece, la possibilità di sceglierne l’osservanza” (Mantovani F. 1992, p. 560). Ne derivava che gli individui affetti da anomalie psichiche o comunque immaturi, non essendo liberi, perché privi della libertà di scelta fra il bene e il male, non potevano essere biasimati per il male commesso e quindi non potevano essere puniti. Così facendo, la Scuola Classica ignorò tutti quei fattori, esogeni ed endogeni, che potevano influenzare il comportamento umano, dando la sensazione di lasciare la società indifesa contro quei delinquenti che bisognavano di un trattamento penale adeguato alla loro personalità. Improntata a rivendicare e proteggere i diritti individuali contro gli abusi e i soprusi

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dell’autorità nell’amministrazione della giustizia penale, la Scuola Classica finì con il trascurare inevitabilmente la difesa sociale, cosicché, “per i soggetti moralmente non imputabili, abbandonati dalla giustizia penale anche se commettevano fatti di reato, non esistevano, al di fuori di essa, provvidenze sufficienti alla difesa della società” (Mantovani F. 1992, p. 560).

Il modello riabilitativo

In una situazione di sfiducia nei confronti del modello retributivo si afferma la Scuola Positiva, sviluppatasi nel XIX secolo, grazie all’affermarsi del metodo di indagine induttivo-sperimentale e alla inefficacia dell’allora vigente sistema penale riguardo la diminuzione del crimine e la difesa sociale.

Per la Scuola positiva il principio cardine in base al quale si dovevano spiegare tutti i fenomeni, fisici e psichici, individuali e sociali, era il principio di causalità. Sulla base di tale presupposto, per i positivisti, il delitto era il prodotto non di una scelta libera e responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali. Per la concezione positivista il reato non era un ente giuridico astratto staccato dall’agente, ma un fenomeno naturale e sociale, un fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. Ecco che l’attenzione del diritto penale si sposta dal fatto criminoso in astratto alla personalità del delinquente in concreto (considerato come l’unico oggetto suscettibile di conoscenza all’interno del processo penale), dalla colpevolezza per il reato alla pericolosità sociale dell’autore, intesa “come probabilità che il soggetto, per certe cause, fosse spinto a commettere fatti criminosi” (Mantovani F. 1992, p. 562). Ed ecco che il principio di responsabilità individuale viene sostituito dal principio di responsabilità sociale.

Sulla base di tali presupposti e della convinzione che il reato fosse conseguenza necessaria di certe cause naturalistiche non aveva più senso punire con la pena il reo perché questi non era libero di scegliere la propria condotta ma era spinto al crimine da un complesso di fattori antropologici e sociologici che agivano dentro e fuori di lui (Mantovani F. 1992). Non bisognava perciò reprimere, ma prevenire: i soggetti che delinquevano e rappresentavano un pericolo per la comunità dovevano essere sottoposti a misure di sicurezza volte a prevenire ulteriori manifestazioni criminose, mediante il loro allontanamento dalla società e, ove possibile, il loro reinserimento nella vita sociale. Con i postulati positivistici si prevedeva l’eliminazione di ogni differenza fra pena e misura di sicurezza: la pena retributiva veniva sostituita da un sistema di misure di sicurezza il cui scopo era la difesa sociale (Di Nuovo S., Grasso G. 2005). Tali misure non dovevano essere proporzionate alla gravità del fatto, ma alla pericolosità del reo e, nella loro applicazione, dovevano variare di forma per adattarsi alle diverse tipologie psichiche del delinquente, dovevano essere indeterminate

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nella durata, ossia applicate fin quando il delinquente non fosse ritenuto risocializzato e derogabili col cessare della pericolosità. Dal momento che anche i fatti psichici erano sottoposti al principio di causalità, il libero arbitrio, considerato un’illusione psicologica, non aveva più senso. Date queste premesse la Scuola Positiva arrivava inevitabilmente a negare la stessa categoria dell’imputabilità e la distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili. Se infatti, come si è detto, la sanzione penale serviva solo come strumento per impedire la commissione di crimini, non vi era motivo per escludere dalla sua applicazione gli autori di reato infermi di mente. La Scuola Positiva prendendo in prestito dalle scienze psico-sociali categorie metagiuridiche, quali personalità, devianza, società, si pose l’obiettivo di intervenire con una serie di trattamenti riabilitativi sulla personalità del reo e risolvere in questo modo il problema della recidiva (Mantovani F. 1992).

Il modello riabilitativo, che pretendeva di ridurre il crimine correggendo il comportamento del reo, passa storicamente attraverso il presupposto positivista dell’equazione personalità-devianza- pericolosità. Tale presupposto anticipa la possibilità di intervento diretto sul delinquente come processo parallelo a quello dell’accertamento della colpevolezza e della giusta punizione e mai completamente abbandonato sia nel contesto giudiziario italiano, sia in quello soprattutto dei Paesi anglo-sassoni: l’attuazione di tale principio si concretizza nel sistema italiano con il doppio binario (pene e misure di sicurezza) (Ciappi S., Coluccia A. 1997).

È con la Terza Scuola (la quale cercò la mediazione tra i vari elementi di utilità pratica emersi dalle opposte posizioni classiche e positiviste) che nacque il sistema del doppio binario, fondato sul dualismo responsabilità individuale-pena retributiva, da una parte, e pericolosità sociale-misura di sicurezza dall’altra. È con questo sistema che nascono, accanto alla pena, le misure di sicurezza quali sanzioni diverse dalla pena, poiché conseguenza non di responsabilità, ma di pericolosità sociale (Mantovani F. 1992).

Per quanto riguarda il fondamento del diritto di punire, questo indirizzo respinge il principio positivista della responsabilità sociale, e si avvicina alla concezione classica incentrando il diritto penale sulla responsabilità del fatto commesso con volontà colpevole e sull’imputabilità, ma fonda quest’ultima non sul postulato del libero arbitrio, bensì sui concetti di sanità mentale e di normalità. Superate le teorie lombrosiane del delinquente nato42 che influenzarono solo in un primo momento il modello riabilitativo, lo stesso si caratterizzerà quindi per una serie d’istituti miranti ad individuare pene individualizzate e alternative alla detenzione.

Questo clima di grande entusiasmo per gli strumenti rieducativi durerà poco, perché dagli anni ‘70 cominceranno a piovere sul modello riabilitativo dure critiche, alimentate dai dati sull’aumento

42 Tali teorie sono note per aver messo in evidenza una serie di fattori di natura psico-somatica utili a individuare la

figura del delinquente e consentire alla società, con un intervento di tipo preventivo e trattamentale di difendersi dalla criminalità.

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della criminalità e dagli alti costi di un sistema di esecuzione penale incentrato sulle pene individualizzate, segnando la crisi definitiva di questo modello. La ricerca empirica aveva messo in luce l’incapacità del modello riabilitativo di ridurre la recidiva, e l’inefficacia degli interventi trattamentali sulla personalità del reo (Di Nuovo S., Grasso G. 2005). La crisi che negli anni ‘80 colpisce il Welfare State travolse anche il modello riabilitativo che da esso dipendeva, la mancanza di risorse destinate al sociale limitava, infatti, la possibilità d’interventi riabilitativi da destinare ai fenomeni di devianza ed emarginazione. Inoltre, il grande problema delle carceri sovraffollate, insieme agli alti costi della giustizia fece emergere la necessità di pensare a modelli alternativi di giustizia. È in questo contesto che comincia a delinearsi un nuovo paradigma giuridico, noto con il termine inglese di restorative justice o giustizia riparativa (Ciappi S., Coluccia A. 1997).

Il modello riparativo

Questo nuovo paradigma giuridico, pur non avendo dei presupposti filosofici di riferimento, nasce negli ambienti della riabilitazione e dei movimenti abolizionisti o del riduzionismo penale, le cui tesi molto radicali non sono state accolte, ma hanno comunque influenzato i movimenti in favore delle vittime, diffusisi negli anni ‘70-’80. I movimenti abolizionisti al loro interno prevedevano due orientamenti, uno molto radicale che individuava nel sistema penale le cause della criminalità, e per questo motivo ne chiedeva l’eliminazione, l’altro invece che, pur non volendo rinunciare al sistema di giustizia penale, chiedeva l’abolizione di tutte le istituzioni totali. Da quest’ultimo orientamento prese ispirazione il modello riparativo (Scardaccione G. 1997). Ulteriore causa che ha portato a pensare a nuovi modelli di giustizia, è stata l’esigenza di affrontare il problema del sovraffollamento degli istituti di pena, e del carico eccessivo del sistema giudiziario, in questo modo “il modello riparativo di giustizia si è fatto portavoce di un atto di denuncia nei confronti di una situazione carceraria ormai divenuta intollerabile” (Ciappi S., Coluccia A. 1997, p.112).

Lo sviluppo di un modello di giustizia riparativa è individuabile quindi in fattori di natura storico sociale (quali la crisi del Welfare State e della modernità) ma soprattutto di natura giuridico criminologica (quali la crisi del diritto) incapaci di prevenire e risolvere i conflitti. Quali che siano le specifiche teorizzazioni che hanno portato alla costruzione di questa nuova visione, che variano del resto da paese a paese, alla sua base ci sono sicuramente: sia la crisi dei tradizionali modelli di giustizia, retributivo e riabilitativo, sia l’esigenza di considerare la vittima una parte importante e non marginale del reato commesso e del processo (Scardaccione G. 1997). Tale modello prende infatti in maggiore considerazione le esigenze delle vittime di reato che i sistemi tradizionali di giustizia avevano sempre trascurato, caratterizzandosi soprattutto per il mutamento del punto di osservazione del fenomeno criminale: questo va guardato non più, come nel sistema classico dei

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delitti e delle pene, dal punto di vista dell’autore del reato, ma da quello della vittima. In tale prospettiva, il reato perde la sua dimensione unilaterale e acquista una valenza relazionale che si basa sui principi della comunicazione e della comprensione (Manozzi G. 2003).

Il primo ordine di problemi, quello riguardante la convinzione dell’inefficacia dei sistemi di giustizia penali tradizionali, fondati su politiche di deterrenza o su programmi di riabilitazione, è sicuramente il motivo fondamentale che ha portato alla nascita del nuovo modello riparativo: il paradigma compensatorio intende opporsi da subito all’idea della sanzione come unica risposta possibile al fenomeno criminale e alla confusione operata dal modello riabilitativo tra prevenzione, rieducazione e repressione, proponendo quale obiettivo irrinunciabile dell’intervento penale la restaurazione del legame sociale (Vianello F. 1999). “Il modello riparativo, fa propria l’esigenza di sopperire ai difetti del modello retributivo, basato unicamente sulla sanzione come risposta statale al fenomeno della criminalità, e di quello riabilitativo, che spesso confonde le reali esigenze della prevenzione con quelle della repressione, le ragioni della scienza con le ragioni del potere, dimostratisi inefficaci” (Ciappi S., Coluccia A. 1997, pp.105-106). Secondo il criminologo Lode Walgrave, la giustizia riparativa è quel modello di giustizia, diverso dal paradigma retributivo e da quello rieducativo, orientato prevalentemente verso la riparazione delle sofferenze e dei danni provocati dall’evento criminoso (Walgrave L. 2008). A differenza della giustizia punitiva- retributiva, tipica dei sistemi penali classici, in cui l’attenzione è focalizzata sulla gravità dell’atto, più che sulle sue conseguenze, sull’autore più che sulla vittima, e al contrario della giustizia rieducativa, incentrata ancora una volta sul reo, ma più attenta ai suoi bisogni e alle esigenze preventive, la giustizia riparativa pone l’accento sul danno causato dal reato e sulla persona che l’ha subito. In altre parole: modello retributivo, riabilitativo e riparativo divergono dal punto di vista dell’oggetto, dei mezzi e degli obiettivi che l’azione giudiziaria impiega e si prefigge (Scardaccione G. 1997). Nella concezione retributiva è il reato l’oggetto, la finalità è l’accertamento della colpevolezza e la giusta punizione del colpevole, i mezzi l’applicazione della sanzione. Essa mette al centro dell’analisi il reato come male e concepisce la pena come un fine in se stessa, come cioè rispondente ad una esigenza di giustizia, senza scopi positivi o sociali. Nel modello riabilitativo l’attenzione è sulla persona autore di reato, l’obiettivo si allinea al reinserimento sociale, gli strumenti al trattamento socio-riabilitativo, quest’ultimo orientato verso la modifica del comportamento. In questa prospettiva assume grande rilievo il programma di osservazione e trattamento rieducativi. Il modello di giustizia riparativa, invece, si differenzia da entrambi i precedenti modelli in quanto ha come oggetto il conflitto e i danni provocati alla vittima, come obiettivo l’eliminazione di tali conseguenze e come mezzi le attività riparatorie del danno causato alla vittima e alla comunità sociale da parte del reo (Scardaccione G. 1997).

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Il presupposto da cui parte il modello riparativo è infatti la riconciliazione tra le parti e la riparazione del danno provocato dall’illecito, unico elemento certo nella dinamica processuale, che si intende neutralizzare mediante l’azione riparatrice dell’autore del reato. La relazione tra vittima e delinquente diviene in questo modello di giustizia elemento fondamentale. Con la sua affermazione, il reato è considerato non più come un’offesa allo Stato, ma come un’offesa alla persona, per questo motivo la giustizia riparativa affida alle parti principali la ricerca di un accordo di riparazione che sia soddisfacente per entrambe (Ciappi S., Coluccia A. 1997). La riparazione, in sostanza, si fonda su un paradigma diverso della gestione dei conflitti, offrendo agli autori la possibilità di riparare il danno e favorendo la loro reintegrazione nella comunità, attraverso un processo in cui l’obiettivo primario sarà la ricostituzione del legame sociale (Manozzi G. 2003).

Più specificatamente, i principali fini della giustizia riparativa consistono in:

1. restituire qualcosa alla vittima in riparazione del danno ad essa arrecato dal reato (riconoscimento della vittima, riconoscimento del valore della sua soggettività, delle esigenze conseguenti il danno subito dal reato);

2. ricostruire la frattura del legame sociale, di cui il reato costituisce l’emblema, tramite la riparazione del danno arrecato all’intera comunità, di cui fanno parte sia l’autore sia la vittima del reato medesimo (coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione, riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale);

3. sostituire, ove possibile, la riparazione concreta del danno causato dal reato (in termini materiali o simbolici) alla prescrizione della pena afflittiva nei confronti del reo, perché la prima opzione risulta più efficace sia per ricompensare la vittima, sia per responsabilizzare e reintegrare il reo, sia per promuovere la pace sociale all’interno della comunità (auto responsabilizzazione del reo);

4. ripristinare i livelli di comunicazione sociale, tra autore del reato, vittima del reato e comunità di appartenenza, che sono stati interrotti in conseguenza del reato medesimo (rafforzamento degli standards morali collettivi, contenimento dell’allarme sociale) (Ministero della Giustizia 2015b).

La giustizia riparativa può essere allora definita come un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo (Zehr H. J. 2002). È possibile identificare la

restorative justice in quel particolare processo che vede coinvolte tutte le parti interessate ad

affrontare gli effetti derivanti dal reato, per una gestione comune di tali conseguenze e delle loro implicazioni future. Gli effetti derivanti dal reato consistono tanto nel bisogno di riparazione

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materiale, quanto nella necessità di dare spazio ai valori e alle istanze emotive delle vittime (Marshall T. 1999).

Infatti, il secondo motivo che sta alla base della nascita del modello riparativo di giustizia è la riconsiderazione del ruolo delle vittime. Quest’osservazione nasce dalla constatazione del ruolo marginale della vittima, rimasta per molto tempo estranea agli interessi della dottrina penalistica, la