Giovani adulti nell'anno
I PUNTI DI FORZA DELLA GIUSTIZIA MINORILE ODIERNA
Il sistema di giustizia minorile italiano è considerato, soprattutto per l’attenzione riservata al benessere del minore, da ormai più di venticinque anni fa, un sistema aperto o multi attore, sufficientemente dinamico per rispondere ai molteplici bisogni dell’utenza. Per il perseguimento di tale obiettivo è stato favorito il superamento delle classiche strutture di custodia minorili e promossa la condivisione della presa in carico dei minori e giovani-adulti, chiamando in causa nuove professionalità (psicologi, sociologi, educatori, pedagogisti), diversi soggetti (insegnanti, genitori, medici e formatori) e allo stesso tempo, sviluppando le condizioni per un più ampio coinvolgimento della società civile (Ministero della Giustizia 2015b).
Configurarsi quale sistema aperto, vuol dire sistema che, pur mantenendo la titolarità e la responsabilità dell’intervento sul minore, prevede nel suo operato il pieno coinvolgimento della famiglia e degli altri attori territoriali, i quali, ognuno secondo la propria competenza, concorrono al benessere del minore e del suo migliore interesse. Proprio per queste ragioni, e in piena coerenza con lo scopo rieducativo della pena, l’intervento della Giustizia minorile ha teso progressivamente a
39 È socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, che ha commesso un reato o un quasi-
reato, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati. La pericolosità è quindi una qualità del soggetto, da cui si deduce la probabilità che commetta nuovi reati. La pericolosità è il presupposto per l’applicazione delle misure di prevenzione post delictum, ma non solo, essa ha un ruolo decisivo anche in relazione agli istituti della sospensione condizionale della pena, del perdono giudiziale, della liberazione condizionale, come ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale e dell’ammissione al regime della semilibertà, dal momento che tutti questi istituti presuppongono la previsione da parte del giudice che il soggetto non commetterà altri reati (Baviera I. 1976).
40 Due le modalità di esecuzione della libertà vigilata: la misura deve essere eseguita nelle forme di specifiche
prescrizioni inerenti all’attività di studio, di lavoro e ad altre attività utili per la sua educazione oppure con l’imposizione dell’obbligo della permanenza in casa, che può assumere forme di diverso rigore, dalla possibilità di imporre limiti o divieti alla facoltà del minorenne di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, alla possibilità di consentire al minorenne di allontanarsi dall’abitazione in relazione alle esigenze inerenti le attività di studio, di lavoro ovvero ad altre attività utili per la sua educazione (Baviera I. 1976).
41 Il ricovero in un riformatorio giudiziario è la misura di sicurezza speciale per i minori, che “consiste nel togliere
costoro dal loro ambiente e nell’inserirli in una comunità di giovani regolata da norme di vita e di condotta tali da sottoporre a controllo continuo i ricoverati, in modo da rendere improbabile il compimento di loro atti di aggressione della società e dell’ordinamento giuridico. A questa forma di difesa si aggiunge un’opera pedagogica, con eventuale affiancamento di specifiche prescrizioni inerenti attività di studio o di lavoro ovvero attività utili per la sua educazione, destinata ad agire in profondità e a modificare in senso sociale personalità male strutturate” (Baviera I. 1976, p. 153).
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concentrarsi in ambito extra-murario, ovvero in quello spazio ove, una volta sanato il proprio conflitto con la Giustizia, il minore deve fare ritorno.
L’area penale esterna riguarda, infatti, tutti quei minori che scontano la propria pena al di fuori dei luoghi di detenzione, attraverso misure alternative e/o sostitutive. Tali misure (tra le quali rientrano, ad esempio, la semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali) hanno l’obiettivo di evitare la sottrazione del minore, entrato in conflitto con la Giustizia, alla società e di facilitare il suo reinserimento nel contesto sociale. Fine ultimo dell’intervento in area penale esterna è evitare i danni che possono scaturire dal contatto con l’ambiente penitenziario e dunque dalla condizione di privazione della libertà. In questo modo il minore ha la possibilità di mantenere il contatto con la comunità sociale, che contribuisce alla sua responsabilizzazione e alla sua crescita. L’esecuzione in area penale esterna, inoltre, rispecchia i principi di residualità della detenzione e di minima offensività del DPR 448/88, assicurando, per questa via, il rispetto della personalità e delle esigenze evolutive e sociali del minore stesso (Ministero della Giustizia 2015b).
Specularmente l’area penale interna riguarda tutti i minori che scontano la propria pena in un contesto intramurario (IPM). È bene tuttavia sottolineare, come oggi, proprio in piena coerenza con un approccio del sistema della Giustizia minorile orientato a svolgere il proprio mandato con una molteplicità di attori differenti, i quali sono chiamati a compartecipare al progetto rieducativo del minore, la stessa organizzazione delle strutture detentive si è orientata a valorizzare l’importanza della relazione tra il minore entrato in conflitto con il circuito penale e l’ambiente sociale. Anche all’interno degli spazi intramurari, infatti, si realizzano collegamenti con strutture esterne che danno la possibilità ai minori di mantenere i legami con la società nel rispetto dei principi di risocializzazione, responsabilizzazione, nella garanzia della non interruzione dei processi educativi del minore, che costituiscono le finalità ultime cui tende l’intero sistema della Giustizia minorile (Ministero della Giustizia 2015b).
Un simile approccio rende possibile:
- la diffusione di modelli e di strumenti di intervento con le famiglie che progressivamente si affermano su pratiche in passato poco codificate;
- la riduzione del numero di minori sottoposti a misure restrittive della libertà mentre aumenta progressivamente il numero dei minori presi in carico in area penale esterna e sottoposti alla messa alla prova;
- la diffusione della mediazione penale minorile, la mediazione culturale e lo sviluppo di strumenti concettuali e operativi che hanno permesso agli attori della mediazione di riconoscersi come una comunità di pratica;
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- la sempre più frequente adozione, nell’ambito della giustizia riparativa, dello strumento del lavoro socialmente utile che mira a sanare la frattura sociale aperta dall’evento reato (Ministero della Giustizia 2015b).
Il lavoro con le famiglie
Il coinvolgimento della famiglia del minore autore di reato all’interno del programma trattamentale realizzato dal sistema della Giustizia Minorile ha rappresentato, in ragione della centralità dell’intervento sul minore sancita dall’ordinamento penale, un’area che presenta un’elevata complessità per questioni di ordine sia teorico sia procedurale-organizzativo.
Recentemente, tuttavia, il lavoro con le famiglie dei minori entrati in conflitto con la Giustizia è andato assumendo un’importanza sempre maggiore in ragione della necessità di rendere sempre più efficiente ed efficace il percorso educativo e di pieno reinserimento sociale del minore che commette un reato. In base, infatti, alla considerazione che il minore entrato in conflitto con la Giustizia, una volta espletata la misura disposta nei suoi confronti, tornerà comunque all’interno della sua famiglia (in un gran numero di casi ed ovviamente laddove la famiglia è presente), è importante garantire continuità agli interventi preventivi realizzati per non disperdere energie e risorse e, soprattutto, per non generare sentimenti di abbandono, frustrazione e ricadute trasgressive. Ma ben al di là di quest’ovvia finalità complessiva (comune all’intero operato della Giustizia Minorile) il lavoro con le famiglie dei minori sottoposti a provvedimento ha una finalità del tutto specifica: essa risiede nel rispondere, in maniera adeguata, ai bisogni e ad un’esigenza di ordine prevalentemente psicologico di queste famiglie, che sorge in seguito alla presa in carico del minore da parte degli operatori della Giustizia Minorile e di fronte alle conseguenti modifiche e sospensioni, ancorché parziali e temporanee, di quella funzione di responsabilità e tutela abitualmente svolta per l’appunto dai familiari (in particolare dai genitori) (Ministero della Giustizia 2015b).
Sono state così identificati metodologie e strumenti di lavoro specifici ed efficaci e sviluppate modalità cooperative con altri attori e agenzie territoriali. Inoltre, sempre al fine di valorizzare e incoraggiare il lavoro con le famiglie, sono stati attuati accordi di collaborazione tra il Dipartimento della Giustizia minorile e il Dipartimento per le Politiche della Famiglia (Ministero della Giustizia 2015).
La messa alla prova: un aspetto giuridico innovativo del processo penale minorile
La sospensione del processo e messa alla prova costituisce l’istituto giuridico più innovativo del processo penale minorile (art. 28 DPR 448/88) (Presidenza della Repubblica 1988). In essa
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l’obiettivo del recupero prevale sulla pretesa statuale di processare e punire per un fatto costituente reato, a condizione che sussistano concreti elementi (caratteristiche e risorse personali del ragazzo o ambientali idonee) per ritenere che il minore abbia superato le proprie difficoltà o possa superarle.Il presupposto è che il recupero sociale del minore sia maggiormente probabile nell’ambiente abituale di vita; la detenzione, al contrario, isolerebbe il soggetto dal suo contesto sociale e familiare e comporterebbe la cristallizzazione del singolo atto trasgressivo (Giannino P. 1997). Tale misura si concretizza in una rinuncia temporanea dello Stato al giudizio per consentire un’effettiva attività di cambiamento del ragazzo, che potrà comportare, per esito positivo della prova, l’estinzione del reato. La sospensione del processo e messa alla prova prevede quindi la possibilità di sospendere l’iter processuale per un periodo non superiore ad un anno (fino a tre anni per i reati più gravi), qualora si ritiene di dover valutare la personalità del minore all’esito della prova. L’applicabilità della misura non è compromessa né dall’eventuale esistenza di precedenti giudiziari e penali, né da precedenti applicazioni, né dalla tipologia di reato. La sospensione può essere concessa quindi senza limiti oggettivi, applicandosi per tutti i tipi di reati a prescindere dalla loro gravità, e senza limiti soggettivi, essendo irrilevanti i trascorsi criminali del minore soggetto a prova, che può essere tanto un imputato incensurato che un recidivo: la decisione del giudice si fonda sul previo accertamento delle responsabilità dell’imputato e sulle potenziali risorse positive acquisite attraverso l’indagine socio-ambientale e della personalità (art. 9 DPR 448/88) (Giannino P. 1997). Il provvedimento che dispone la sospensione del processo con messa alla prova è un’ordinanza di natura complessa in quanto è: “definitoria relativamente all’accertamento del fatto, della responsabilità dell’imputato, della imputabilità; descrittiva con riguardo alla natura del progetto di intervento ed ai suoi contenuti; prescrittiva con riferimento alla riparazione-conciliazione; ordinatoria rispetto alla fissazione della nuova udienza” (Giannino P. 1997, p. 236).
Con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il ragazzo ai servizi della Giustizia minorile che, attraverso l’elaborazione di un progetto di intervento e in collaborazione con i servizi locali, svolgono attività di osservazione, trattamento e sostegno. I servizi, informano periodicamente il giudice dell’attività svolta e dell’evoluzione del caso, proponendo, dove lo ritengono necessario, modifiche al progetto, eventuali abbreviazioni di esso, ovvero, in caso di ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte (espressioni di una mancanza di volontà del minore di aderire al progetto), la revoca del provvedimento di sospensione. L’abbreviazione della messa alla prova, sarà chiesta quando l’impegno del minore e i risultati raggiunti sono tali da essere espressione di un processo di responsabilizzazione del minore, e tali che non necessitano un ulteriore proseguimento della prova.
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Si è detto che il giudice avvia le procedure per la messa alla prova, richiedendo al servizio sociale un progetto d’intervento. Tale richiesta è fatta ai servizi minorili (USSM) e prevede la collaborazione dei servizi socio-assistenziali degli Enti Locali. I contenuti del progetto di prova possono essere vari: è possibile alternare prescrizioni formali finalizzate ad esigenze di controllo sociale (ad esempio obblighi negativi quali il divieto di frequentare determinate persone o luoghi o di rientrare dopo un’ora stabilita); prescrizioni indirizzate alla conciliazione con la parte offesa o di natura riparatoria; prescrizioni curative, legate a patologie del minore, che prevedano la sottoposizione a trattamenti sanitari, psichiatrici o disintossicanti; prescrizioni positive riguardanti obblighi di studio o di lavoro (ad esempio la frequenza della scuola o di corsi di formazione professionale, attività di apprendistato o di lavoro). La redazione del progetto comporta il coinvolgimento del minore e la conseguente individuazione delle prescrizioni che egli accetta e s’impegna a rispettare, assumendo così natura pattizia e contrattuale. Il giudice non partecipa alla fase di elaborazione del progetto ma può suggerire modifiche e integrazioni (Giannino P. 1997). Il progetto predisposto deve essere: consensuale, adeguato, fattibile, flessibile.
Consensuale: l’accettazione della misura da parte del ragazzo sono una premessa imprescindibile sul piano operativo e di condivisione. A tale fine, il consenso del minore al progetto deve essere pieno ed espressione di una totale partecipazione a esso, deve essere frutto di un’adesione spontanea e deve essere prestato solo dopo che egli sia stato informato delle conseguenze di un eventuale esito negativo della prova. Un’evidente problematicità del progetto è legata all’ipotesi di un consenso d’opportunità che può indurre il ragazzo ad aderirvi in vista della soluzione per lui vantaggiosa. Il consenso presuppone l’accertamento di responsabilità del soggetto. Si tratta di una condizione non prevista esplicitamente dalle norme ma ritenuta implicitamente elemento essenziale, poiché sarebbe contraddittorio disporre la messa alla prova nei confronti di chi si dichiara innocente, così come una dichiarazione esplicita di responsabilità avrebbe un effetto stigmatizzante a carico del minore che contrasterebbe con la finalità di recupero sociale che l’istituto in esame si propone (Di Nuovo S., Grasso G. 2005).
Adeguato: il contenuto del progetto deve corrispondere alla personalità del ragazzo, alle sue esigenze e capacità personali, sociali e culturali, al tipo di reato, all’entità della lesione del patto sociale su cui modulare l’attività di riparazione del danno ed eventualmente di riconciliazione con la vittima del reato, basarsi sull’ambiente in cui dovrà realizzarsi e sulle risorse che il territorio locale mette a disposizione per il minore (Mastropasqua I. 1997).
Fattibile: le ipotesi esplicative del disagio devono tradursi in operazioni concrete che evidenzino gli obiettivi da raggiungere, le modalità collaborative con cui si intendono raggiungere tali obiettivi, i tempi intermedi da rispettare, i soggetti che vi partecipano (Mastropasqua I. 1997). A tal proposito
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il progetto deve contenere modalità dirette al coinvolgimento, oltre che del minore anche della sua famiglia e del sistema di relazioni rendendoli partecipi del disagio che il minore ha manifestato con la commissione del reato, al fine di facilitare il rispetto degli impegni assunti e ricreare una rete di controllo sociale spontaneo.
Flessibile: il progetto per la sua natura processuale privilegia logiche circolari di definizione e ridefinizione di obiettivi, in base all’andamento delle azioni e delle verifiche intermedie. La flessibilità consente di adattare e rimodellare il progetto in corso d’opera se si verificano imprevisti, se cambiano le esigenze del ragazzo, se vengono meno delle risorse. Permette di non vivere la messa alla prova come contenitore rigido che una volta definito è impossibile modificare. Si tratta di un’attività volta, almeno nella fase preliminare dell’intervento, all’esplorazione su più fronti (la storia individuale del ragazzo; il contesto familiare; l’ambiente) per conoscerne le potenzialità e connetterle al progetto. Prevede, oltre la connessione con la rete dei servizi, la ricerca di risorse informali che possono garantire l’attuazione di parti del progetto quali l’inserimento lavorativo, l’attività di socializzazione, ecc. (Mastropasqua I. 1997).
Una condizione imprescindibile è l’effettiva praticabilità del progetto, data dalla presenza di quegli elementi necessari come il consenso del minore, la presenza di risorse, la partecipazione della famiglia, ecc. Una messa alla prova senza progetto, o con un progetto formale, aleatorio nei contenuti e nelle azioni non è proponibile: significa togliere significato sia da un punto di vista giuridico che pedagogico, ad un’esperienza che di contro può essere ricca di finalità educative. Altro elemento da considerare in merito è, pertanto, il potere di proposta del servizio sociale che presuppone uno stile dialogico nei rapporti (tra giudice e servizio sociale) orientato al reciproco riconoscimento. Diventa eticamente difficile pensare a situazioni dove l’assistente sociale esprime una non praticabilità della messa alla prova ed il giudice decide comunque per la misura. A tal proposito è evidente come dalla collaborazione dei servizi dipenda l’esito positivo della prova, e in particolare dalla capacità del servizio dell’ente locale di individuare tutta una serie di risorse che possono servire all’evoluzione sociale della personalità del minore (Mastropasqua I. 1997).
Decorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza, per la valutazione della prova, dove dichiara estinto il reato, se ritiene che la prova abbia avuto esito positivo. Altrimenti, provvede alla prosecuzione del processo penale (art.29 DPR 448/88) (Moro A.C. 2000). Lo stesso art.29 stabilisce che la valutazione positiva della prova dipende da due accertamenti: il primo riguarda la valutazione del comportamento del minore, e il secondo attiene alla evoluzione della sua personalità. Nel valutare il comportamento del minore bisogna fare riferimento all’impegno dimostrato nel corso della prova: sicuramente è un dato indicativo della buona riuscita della prova il fatto che il minore, nel corso della stessa, abbia mostrato costanza e impegno nel partecipare ai
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programmi educativi, alle attività e ai percorsi lavorativi predisposti dai servizi minorili (Di Nuovo S., Grasso G. 2005). Per quanto attiene alla valutazione dell’evoluzione della personalità del minore, essa dipende dalle caratteristiche del progetto d’intervento. Se il progetto è stato costruito in modo da essere praticabile e flessibile, e utilizzando tutte le risorse ambientali e familiari del minore, il suo esito si presume sia positivo. L’evoluzione della personalità del minore si ricava dal comportamento tenuto dal minore nel corso della prova, come la sua capacità di accettare i cambiamenti della sua personalità: quando avviene, ed è stata così verificata la capacità del minore non solo di non commettere più reati, ma di sapersi complessivamente adeguare a quel progetto di impegno cui ha dato il proprio assenso, allora si può dire che l’esito della prova è stato positivo (Di Nuovo S., Grasso G. 2005). “Se infatti il minore ha compreso le ragioni per le quali è stata disposta la sospensione, se vi ha risposto positivamente e se il consenso da lui mostrato all’atto della accettazione si è mantenuto costante allora è evidente che il periodo di sospensione ha in lui prodotto effetti positivi e cambiamenti che possono ritenersi stabili” (Giannino P. 1997 pp. 244 - 245)
Di recente, le indagini sullo stato di applicazione della messa alla prova hanno evidenziato come essa venga molto spesso applicata a minori nei quali si rilevano indici prognostici favorevoli, perché in possesso di migliori risorse familiari e sociali. In questo modo si vengono a creare delle disparità di trattamento nell’accesso a tale istituto (Palomba F. 2002). Dalle statistiche si ricava inoltre una preferenza da parte dei servizi, a inserire nei progetti di messa alla prova prescrizioni riguardanti soprattutto l’attività di volontariato, l’attività lavorativa e di studio come uniche attività che riescono ad assicurare le finalità risocializzanti dell’istituto, mentre si ricava un uso limitato delle prescrizioni riguardanti la conciliazione con la parte lesa (Ministero della Giustizia 2015a). In ogni caso, problematica di non poco conto è il rischio di confondere il successo processuale della prova con il successo di carattere sociale in termini di recupero del minore deviante. Da una parte il successo puramente formale della prova è quello che produce l’archiviazione del fascicolo processuale senza lasciare traccia, nel casellario giudiziale, del suo protagonista, dall’altra il successo sostanziale produce invece un effettivo mutamento nella condotta del reo, recuperandolo socialmente. Ai fini di questa distinzione andrebbe analizzato il fenomeno della recidiva, la cui presenza, riferita a soggetti già messi alla prova, dimostra che l’esito positivo di essa ha costituito un successo esclusivamente formale-processuale (Palomba F. 2002). A tal riguardo è stata sottolineata una correlazione positiva fra la scarsa offensività del reato e l’esito positivo della prova e fra esito negativo della prova e gravità del reato e recidività. Pertanto si può affermare che gli esiti delle prove sono più spesso negativi quando i minorenni sono recidivi, quando sono imputati per reati gravi e quando la durata della prova è lunga (Ministero della Giustizia 2015a).
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In conclusione, è però possibile affermare che nell’istituto di messa alla prova, con un’applicazione molto estesa negli ultimi anni, c’è la sintesi di tutte le idee-guida del processo minorile; esso aderisce perfettamente alla principale finalità del processo minorile che è quella del recupero del minore deviante, perseguita attraverso la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, nel rispetto dell’articolo 31 della Costituzione e senza, tuttavia trascurare l’esigenza di difesa sociale. Il