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L’AFFERMAZIONE INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DEL MINORE

La previsione di una soglia minima di età, la differenziazione del trattamento nel processo e nel sistema sanzionatorio tra minori e adulti, nonché la specializzazione dell’organo giudicante costituiscono ormai punti fermi della cultura minorile, entrati a far parte anche della normativa internazionale.

Se il minore solo in epoca recente può essere considerato titolare di diritti propri, la condizione di minore, cioè di un soggetto bisognoso di protezione, è stata fatta oggetto di numerose convenzioni internazionali. Il processo culturale e giuridico verso il riconoscimento dello specifico minorile è

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stato influenzato dai principi formatisi nella Comunità Internazionale che, fin dai primi anni del secolo scorso, ha in vario modo sostenuto la necessità che ogni Stato si dotasse di strumenti idonei a garantire ai minori una protezione rispettosa della loro condizione ed attenta alle loro naturali potenzialità e particolari esigenze. Tale percorso non ha avuto un andamento omogeneo nelle varie società occidentali anche per la diversità di percezione del fatto reato, oltre che del minore stesso che commette il reato, propria di ciascun ordinamento. È indubbio che in molti Stati spesso hanno convissuto e si sono alternati interventi caratterizzati da eccessiva durezza nella punizione della condotta deviante e modalità di trattamento incentrate sul recupero e sulla socializzazione del minore autore di reati (De Leo G. 1981). Tale diversità e la progressiva introduzione di forme giurisdizionali specializzate nei vari ordinamenti ha impegnato la Comunità Internazionale a identificare principi e regole di condotta comuni in materia di giustizia penale minorile che fossero generalmente riconosciute negli ordinamenti del più ampio numero di Paesi facenti parte di essa (Di Nuovo S., Grasso G. 2005).

Appare opportuno considerare gli atti internazionali più significativi soffermandosi su quelli che maggiormente hanno contribuito a determinare l’attuale sistema della Giustizia Minorile. Nello stesso tempo, occorre tener presente che i primi interventi a favore del minore hanno riguardato inizialmente il profilo della sua soggettività giuridica come destinatario di diritti mentre l’enunciazione di principi riguardanti la sfera del trattamento e del processo penale a carico di imputati minorenni avverrà soltanto successivamente.

Le principali fonti sovranazionali come presupposti del nuovo processo penale minorile

Il lungo processo di affermazione dei diritti dei minori ha seguito lo sviluppo dei diritti dell’uomo e si è snodato, non a caso, in concomitanza con l’evolversi dei diritti della donna e dei soggetti marginali. All’interno di questa categoria generale si viene delineando la categoria particolare dei minori, alla quale si ricollegano poco a poco, a partire dai primi anni del ‘900, specifici diritti e peculiari esigenze di tutela.

I primi passi a livello internazionale verso un nuovo modo di concepire il minore come soggetto di diritti sono stati mossi nel 1912, con l’approvazione di una Convenzione sulla tutela del minore, e nel 1913, anno in cui una Conferenza internazionale per la protezione dell’infanzia promosse la cooperazione internazionale in questo settore. La prima guerra mondiale interruppe, però, questo processo di rinnovamento in campo minorile, che fu ripreso alla fine della guerra soprattutto grazie all’intervento dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), fissando, nel 1919, l’età minima per accedere al lavoro nelle industrie a 14 anni e vietando il lavoro notturno per i minori di 18 anni (Cendon P. 1991).

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Ma il documento che rappresentò “la chiave di volta che rovesciò completamente la vecchia logica che aveva finora costituito la base dei precedenti ordinamenti giuridici” (Milani L. 1995, p.167) è stato, senza dubbio, la Dichiarazione dei diritti del fanciullo (detta anche Dichiarazione di

Ginevra), approvata dalla Società delle Nazioni il 24 settembre 1924. Con essa venivano per la

prima volta affermati alcuni fondamentali ed irrinunciabili principi, tra cui quello di avere un processo formativo che mettesse il fanciullo nelle condizioni di poter sviluppare a pieno le sue potenzialità. In generale, veniva riconosciuto il diritto del fanciullo ad una normale crescita psicofisica e spirituale e ad una protezione speciale che gli consentisse di ricevere un’educazione e gli garantisse un futuro (Di Nuovo S., Grasso G. 2005). Con tale documento, fondativo di tutti i successivi atti aventi ad oggetto la difesa dei diritti dei fanciulli, il minore viene considerato soggetto di diritti e assume la dignità di cittadino.

Il secondo conflitto mondiale rallentò il processo di rinnovamento in campo minorile ma, nello stesso tempo, portando all’esasperazione i già gravi problemi della condizione minorile, fu la ragione di un mutato interesse nei confronti del minore.

Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, le Nazioni Unite specificarono taluni diritti del fanciullo in quanto tale, prima nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 e, più specificamente nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 20 novembre 1959 e, poi, nei

Patti internazionali del 16 dicembre 1966 (Patti sui diritti economici sociali e culturali e Patti

relativi ai diritti civili e politici).

La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 ha segnato una tappa imprescindibile verso l’affermazione, a livello internazionale, della dignità della persona: con essa i diritti umani sono diventati definitivamente oggetto di tutela internazionale, ponendosi come diritti positivi universali. La Dichiarazione Universale, riconoscendo nuovi diritti quali, ad esempio, quelli al lavoro, alla salute e al riposo, non dedicò molta attenzione ai minori; tuttavia stabilì, alcuni principi collegati in modo diretto con la materia minorile e che hanno costituito la base delle successive dichiarazioni, carte o convenzioni sui fanciulli. In particolare: l’uguaglianza e la libertà degli esseri umani, a prescindere dall’età; i diritti e i divieti in ordine alla salvaguardia della persona e della sua libertà; infine, il diritto all’istruzione come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana, quindi, rivolto in modo specifico al minore.Altre disposizioni della Dichiarazione hanno consentito di incidere sul piano più strettamente processuale là dove, ponendo particolare attenzione alla persona sottoposta a procedimento penale, si vietavano la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumane o degradanti e si riconosceva il diritto di ricorrere ai competenti tribunali nazionali

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contro atti che violassero le libertà fondamentali degli individui riconosciuti dalla stessa Dichiarazione21.

Un rilievo non trascurabile va riconosciuto, a livello europeo, alla Convenzione Europea per la

Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, approvata a Roma nel 1950, ed al

protocollo addizionale di Parigi del 1952 che hanno recepito ed elaborato i principi sanciti dalla Dichiarazione Universale. Esse, nonostante la mancanza di specifici richiami alla materia minorile, sono divenute (in particolare la prima) parametro di riferimento e di indirizzo in sede di elaborazione giurisprudenziale e legislativa nel nostro Paese.

La materia minorile è stata, invece, l’oggetto specifico della nuova Dichiarazione dei diritti del

fanciullo del 1959, un vero e proprio codice di riferimento per tutti gli ordinamenti sociali e civili

delle nazioni. I due presupposti fondamentali alla base dei principi enunciati in questo documento, sono stati: la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, e la convinzione che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica ed intellettuale, necessiti di una particolare protezione giuridica, adeguata alla sua condizione e di cure speciali, sia prima che dopo la nascita. Veniva, perciò, affermato un diritto non più sui minori, ma per i minori. Nel documento si metteva in rilievo che costantemente deve essere tenuto presente il superiore interesse del fanciullo, cioè il godimento dei diritti e delle libertà deve costituire un interesse primario per l’intera società e non solo per il ragazzo. Veniva affermato, inoltre, il diritto a un’educazione che, almeno a livello elementare, deve essere gratuita e obbligatoria (Rugi C. 2000).

Si cominciava così a parlare di attività promozionale dei diritti del minore. Con tale termine si intendeva il dovere della società, e per essa degli organi cui la legge attribuiva una funzione precisa in tal senso, di individuare quali fossero gli interessi e i bisogni vitali del minore in quanto tale e di ricercare e di ottenere i mezzi per la loro realizzazione concreta nei confronti degli adulti e della società stessa. Emerge pertanto come a partire dalla fine degli anni ‘50 si facesse progressivamente strada l’esigenza di guardare ai minori sia come i titolari delle posizioni giuridiche soggettive generalmente attribuite a tutti i cittadini (a prescindere dall’età), sia come i destinatari di ulteriori ed autonomi diritti inerenti in modo specifico la loro propria qualità. E si realizzava la progressiva ed irreversibile acquisizione che la tutela delle peculiarità minorili costituisse un interesse superiore e che la possibilità da parte dei più giovani di vivere secondo le regole della convivenza civile dipendesse dalla capacità degli Stati di assicurare loro adeguate condizioni di vita.

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La Dichiarazione di Ginevra del 1924 e la Dichiarazione Universale del 1948, pur non comportando sul piano strettamente giuridico l’attribuzione di veri e propri diritti soggettivi, hanno senza dubbio consentito la piena presa di coscienza, a livello del diritto e della politica internazionali, della necessità di affermare l’area dei diritti fondamentali riconoscibili agli individui e pertanto di adottare ogni soluzione idonea ad eliminare gli ostacoli normativi e di fatto frapposti al loro effettivo esercizio.

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Un ulteriore passo rivolto ad operare un’impostazione giuridica ben precisa del problema minorile è stato segnato dai Patti internazionali del 16 dicembre 1966 (Patti sui diritti economici, sociali e culturali e Patti relativi ai diritti civili e politici, entrati in vigore dal 1976), che imponevano obblighi giuridici per gli Stati contraenti tenuti ad un adeguamento della loro legislazione. In virtù di tali strumenti, il fanciullo ha diritto a misure protettive da parte della famiglia, della società, dello Stato. Nell’ambito della tutela penale, oltre alla interdizione della pena di morte per i minori degli anni 18, sono state previste specifiche garanzie in campo processuale penale e di rieducazione sociale.

In seguito, altri documenti (alcuni specifici ed altri no) hanno contribuito a rafforzare e a consolidare la cultura dei diritti dell’uomo e del minore.

Ma nell’ambito specifico della devianza minorile e dell’amministrazione della giustizia minorile, un’importanza fondamentale rivestono le Regole minime per l’amministrazione della giustizia

minorile (Regole di Pechino), approvate nel novembre del 1985 dal VI Congresso delle Nazioni

Unite. Tali regole hanno costituito la prima compiuta enunciazione internazionale di principi concernenti il diritto e la procedura penale minorile alla quale si sono ispirati i più recenti codici minorili (tra cui il Nuovo Codice di procedura penale minorile D.P.R. n. 448 del 1988) (Presidenza della Repubblica 1988). Esse hanno rappresentato una serie di regole minime standard relative alla tutela dei diritti del minore che entri in rapporto con la giustizia minorile, per ottenerne l’applicazione imparziale nel più vasto numero di paesi. Il documento si articola in cinque parti.

- Nella prima parte viene affermato che l’obiettivo centrale della giustizia minorile è la tutela del giovane anche in sede penale, evidenziando che la protezione dei minori può essere garantita efficacemente solo attraverso un’opera di prevenzione sociale; in tale direzione si sottolinea la necessità di mobilitare tutte le risorse familiari, sociali ed istituzionali al fine di ridurre al minimo l’intervento giudiziarioe comunque adottare trattamenti efficaci ed umani nei confronti dei minori che vengano a trovarsi in situazioni di conflitto con la legge. Viene marcata la specificità dell’intervento penale nei confronti dei minori e la necessità di tener conto delle esigenze particolari di questi soggetti, assicurando alcune garanzie procedimentali (tra cui il diritto alla tutela della privacy ed il divieto di ogni forma di pubblicità del processo che porti ad etichettamento deviante).

- La seconda parte riguarda la fase istruttoria del processo e vi si enunciano le garanzie che devono essere assicurate al minore allorquando entri in contatto con il sistema giudiziario. Viene fra l’altro raccomandato di fare ricorso, nel trattamento della devianza minorile, soprattutto a misure extra-giudiziarie, individuate e attivate nello stesso ambiente sociale in sede penale.

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- La terza parte riguarda il giudizio e il processo. Si afferma il principio del giusto processo e la necessità che il giudizio sia configurato e si svolga in un clima di comprensione. L’esigenza di tutela del minore comporta la possibilità di usare lo strumento detentivo solo come ultimo mezzo e il divieto della pena capitale o di pene corporali. Il giudizio dovrà concludersi con possibilità di ricorrere a misure il più possibile diversificate e flessibili, alcune delle quali da combinarsi utilmente quali il collocamento in comunità, la mediazione penale, le sanzioni sostitutive, le pene pecuniarie, l’affidamento familiare ecc. Infine, in materia di trattamento dei detenuti, viene sancito che i minori dovranno essere tenuti separati da istituti dove siano detenuti anche adulti, considerando che il fondamentale principio di protezione del minore non può che tradursi in doverose esigenze di differenziazione per sottrarlo dallo stesso circuito penale.

- Nella quarta parte viene esaminato il trattamento in libertà. Si assicura ai minori, in ogni fase del procedimento, un’assistenza, soprattutto a livello educativo, che favorisca il reinserimento del minore nella società e si raccomanda che ciò avvenga attraverso la mobilitazione di volontari, di privati, di istituzioni locali ed altri servizi comunitari.

- L’ultima parte è dedicata al trattamento in istituzione. Si stabilisce che la formazione e il trattamento dei minori collocati in istituzione hanno l’obiettivo di assicurare loro assistenza, protezione, educazione e competenza professionale affinché siano posti in grado di avere un ruolo costruttivo e produttivo nella società. Infine, si raccomanda che siano compiuti sforzi per lo studio e la ricerca delle tendenze, delle cause e dei problemi relativi alla delinquenza minorile e ai bisogni dei minori detenuti (Rugi C. 2000).

Le Regole di Pechino sono il frutto di un compromesso tra varie filosofie di intervento penale sul minore deviante, esistenti nel panorama mondiale. In particolare, il documento risente di almeno tre diversi modelli di giustizia minorile:

1. un modello fondato sulla garanzia giurisprudenziale, che ponga il minore sotto la protezione di norme legali e su garanzie nei confronti del minore coinvolto in una procedura giudiziaria;

2. un modello protettivo, fondato sul principio parens patriae, volto ad assicurare al minore in contatto con la giustizia la giusta protezione sociale ed economica;

3. un modello cosiddetto partecipativo, secondo il quale la giustizia per i minori esige la partecipazione attiva della collettività per limitare il disadattamento minorile; tale modello prevede l’inserimento dei giovani emarginati o delinquenti nella società e la riduzione al minimo dell’intervento formale del giudiziario nei confronti del minore (Scardaccione G. 1986).

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Le Regole di Pechino risultano essere quindi un documento dai contenuti molto ampi poiché si basano sui vari modelli sperimentali praticati dalla giustizia minorile, e a volte risultati inadeguati, sul piano applicativo, per la complessa realtà della delinquenza minorile. Soprattutto la dichiarazione, vuole essere il tentativo di eliminare quelle condizioni che negli anni ‘70 e ‘80 causarono il fallimento della rieducazione in Italia, superando non solo i criteri guida della legge minorile allora vigente (T.M. 1934), ma, in particolare, incidendo sull’organizzazione degli istituti preposti al trattamento dei giovani che hanno commesso unreato (Mancuso R. 2001).

Bisogna riconoscere che, le Convenzioni a carattere mondiale, come quelle promosse nell’ambito delle Nazioni Unite, pur rivestendo un ruolo fondamentale nel porre sul piano internazionale problemi di grande rilevanza, trovano nella stessa sfera di applicazione, così vasta, il loro limite: i problemi presi in considerazione, sono soltanto quelli di principio che possono trovare soluzione in tutti i sistemi giuridici quale che sia la loro tradizione storica, culturale e giuridica. Nell’ambito di Comunità più ristrette ed omogenee, invece, è più facile che avvenga il trapasso dalle enunciazioni di diritti a forme di tutela più concreta.

In ambito comunitario è necessario fare cenno anche alla Raccomandazione n. 87/20 redatta dal Consiglio d’Europa nel 1987 e relativa alle risposte sociali alla delinquenza minorile. Essa è volta, tra l’altro, all’attuazione di politiche globali finalizzate alla prevenzione del disadattamento e della delinquenza giovanile, all’uscita dal percorso giudiziario, allo sviluppo di procedure di degiurisdizionalizzazione (c.d. diversion), nonché alla creazione di un sistema di giustizia minorile adeguato alle esigenze dei giovani coinvolti nel circuito penale (Giorgis A. 2000). Secondo tale documento, il sistema penale dei minori deve caratterizzarsi per il suo obiettivo di educazione e di re-inserimento sociale e deve tendere, quanto più possibile, alla soppressione della carcerazione dei minori, adottando la pena detentiva come extrema ratio. Nei casi in cui, le leggi nazionali, non prevedano la possibilità di evitare pene che comportino la privazione della libertà personale, o considerino inevitabile l’applicazione di una pena limitativa della libertà personale è necessario: prevedere una gamma di pene adatte ai minori e stabilire delle modalità di esecuzione e di applicazione più favorevoli di quelle previste per gli adulti; esigere la motivazione delle pene limitative della libertà da parte del giudice; evitare la carcerazione dei minori insieme con gli adulti; assicurare la formazione sia scolastica che professionale dei minori durante la detenzione, preferibilmente in collegamento con la comunità, o ogni altra misura che favorisca il reinserimento sociale; assicurare un sostegno educativo dopo la fine delle carcerazione e, eventualmente, un appoggio al reinserimento sociale del minore (Ministero della Giustizia 2015b).

Ulteriore contributo a livello internazionale per la tutela e la promozione del minore, è rappresentato dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 approvata dall’assemblea

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Generale delle Nazioni Unite e con valore vincolante per gli stati che l’hanno ratificata. Fino a tale data non esisteva una Convenzione internazionale riguardante i minori che potesse imporre un’autorità sopranazionale sui singoli ordinamenti interni. L’aspetto fondamentale della Convenzione è stato quello di aver riconsiderato in modo globale i diritti facenti capo al minore, come titolare di situazioni giuridiche soggettive, munendoli di corrente efficacia.

La Convenzione è tesa a tutelare tutti i profili inerenti l’infanzia e in particolare i diritti dei soggetti in età evolutiva fino al diciottesimo anno di età, che per questo impegnano a diversi livelli di responsabilità: in primo luogo i genitori e la famiglia, in secondo luogo lo Stato, in terzo luogo la Comunità internazionale, attraverso un sistema di protezione ed un meccanismo di controllo (Moro A.C. 2000). In relazione alle disposizioni che si riferiscono all’intervento penale, si è stabilito che il minore non può essere soggetto a tortura, a pene capitali, né all’ergastolo, inoltre la detenzione preventiva deve essere usata come misura estrema e per il più breve tempo possibile. Viene sostenuta la necessità di evitare privazioni di libertà arbitrarie o illegali. Nel caso in cui si debba giungere, comunque, alla privazione della libertà, si impone un trattamento umanitario, nel rispetto della dignità del minore e secondo modalità adeguate alla sua condizione di soggetto in età evolutiva che, pertanto, deve essere tenuto separato dagli adulti. Il minore, seppure ristretto, deve poter mantenere i contatti con il proprio ambiente familiare e deve poter disporre di un’adeguata assistenza legale. Si sottolinea, inoltre, che l’obiettivo principale nei confronti del minore deve essere quello dell’educazione tesa alla promozione della sua persona e del senso della sua dignità e del suo valore. Vi è poi l’obbligo degli Stati di promuovere leggi, procedure e istituzioni specificamente applicabili ai minori accusati o riconosciuti colpevoli di aver violato la legge penale nonché di adoperarsi per adottare misure nei confronti dei minori senza ricorrere a procedimenti giudiziari e facilitare così il riadattamento fisico e psichico, nonché il reinserimento sociale in condizioni che favoriscano la salute, il rispetto di sé e la dignità. Infine, viene precisato che nessuna delle disposizioni della Convenzione può pregiudicare disposizioni più favorevoli all’attuazione dei diritti del fanciullo già ricomprese nel diritto interno di uno Stato parte (Milani L. 1995).

La stessa Convenzione, infine, istituisce un organismo di controllo, con il compito di vigilare affinché siano rispettati i diritti dei bambini e che, quindi, non solo ha il compito di individuare questi diritti in modo compiuto, ma possiede gli strumenti per tutelarli e promuoverli, indicando precisi impegni da parte degli Stati.

Per completare il quadro, i due più recenti contributi in materia di prevenzione del crimine, di trattamento dei delinquenti e di protezione del minore, sono stati approvati durante il VII Congresso ONU del 27 agosto 1990: le Direttive delle Nazioni Unite per la prevenzione della delinquenza

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privati della libertà.Entrambi i documenti si pongono in linea con quanto già espresso nelle Regole