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IL LAVORO NEI LUOGHI DI PRIVAZIONE DELLA LIBERTÀ: DOVERE O DIRITTO? La prestazione di un’attività lavorativa è strumento saliente per il reinserimento del detenuto entro

Giovani adulti nell'anno

IL LAVORO NEI LUOGHI DI PRIVAZIONE DELLA LIBERTÀ: DOVERE O DIRITTO? La prestazione di un’attività lavorativa è strumento saliente per il reinserimento del detenuto entro

la società libera, in quanto se il detenuto al momento della riacquisita libertà non sarà in condizione di intraprendere un’attività lavorativa verrà inevitabilmente risospinto a delinquere (Associazione

70 Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o

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Antigone 2015b). A partire da questo presupposto, il legislatore ha previsto che l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario debbano riflettere quelli del libero circuito produttivo in modo da far acquisire al detenuto capacità e competenze professionali adeguate alle normali condizioni lavorative, dunque facilmente spendibili sul mercato del lavoro libero e in grado di favorirne il reinserimento sociale (art. 20, comma 5 ord. pen., art. 72 reg. min. Onu, art. 73 reg. penit. eur. R(87)3) (Fiorentin F., Marcheselli A. 2005). Qualora esistessero notevoli e irragionevoli disparità di trattamento fra lavoratori detenuti e lavoratori liberi, se ne dovrebbe concludere che il lavoro penitenziario è altro rispetto al lavoro libero in punto di significato e considerazione sociale dello stesso, cosicché verrebbe confermata l’idea di un lavoro penitenziario quale effetto penale della condanna, riportando in auge la teoria retributiva a carattere fortemente repressivo del lavoro forzato. Al riguardo, E. Goffman nel saggio Asylums del 1961 sostiene che l’attività lavorativa svolta in un’ “istituzione totale, quale il carcere, non assume mai il significato strutturale che ha nel mondo esterno, dal momento che sussistono motivazioni diverse e diversi modi di considerarla” (Goffman E. 1968, p. 39). Infatti il lavoro svolto entro le istituzioni totali “viene ufficialmente conosciuto come terapia industriale o ergoterapia; i pazienti (i detenuti nel nostro caso) devono svolgere attività, di solito, molto umili, come rastrellare foglie, servire a tavola, lavorare in lavanderia o pulire i pavimenti. Sebbene la natura di questi compiti derivi dalle necessità dell’istituto, la spiegazione abitualmente data al paziente è che queste attività lo aiuteranno a reinserirsi nella società e che la capacità e la buona volontà che dimostrerà, saranno prese come evidenza diagnostica del suo miglioramento. Il paziente stesso può vedere il lavoro sotto questa luce” (Goffman E. 1968, p. 41). Il lavoro diventa secondo Goffman una delle pratiche utilizzate dal penitenziario per ottenere l’adattamento della popolazione detenuta alla vita dell’istituzione totale. Questo a sua volta comporta che l’istituzione totale finisca col diventare “un luogo deputato a produrre giudizi sull’identità di chi vi partecipa, così che impegnarsi in un tipo particolare di attività nel modo in cui viene imposta, significa accettare di essere un tipo particolare di persona, che vive in un mondo particolare” (Goffman E. 1968, p. 40).

È evidente che quello del lavoro carcerario è uno dei temi che meglio mette in evidenza le contraddizioni e le ambiguità che circondano, nelle nostre società, la funzione della pena, il ruolo del carcere e lo status dei detenuti (Caputo G. 2015). La pena detentiva deve mirare a punire e segregare, rendendo inoffensivo, il condannato? Oppure deve tendere al suo reinserimento sociale? Il condannato è un rifiuto della società, che ha dimostrato di non meritare alcun diritto e non deve più costituire assolutamente un peso, neppure economico, per la società oppure un soggetto titolare di tutti i diritti che non sono strettamente incompatibili con la limitazione della libertà personale? A questi quesiti sul senso e lo scopo della detenzione e quindi del lavoro svolto nel suo corso, si deve

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aggiungere la considerazione che il lavoro carcerario, non si è mai potuto configurare come un lavoro in concorrenza con quello dei cittadini liberi: i lavoratori liberi si sono sempre opposti all’idea che potessero far loro concorrenza dei detenuti lavoranti, con l’inevitabile dumping sociale che questo avrebbe comportato: “cosa volete, bisogna aver ucciso o rubato per attirare compassione ed interesse” (Foucault M. 1975, p. 263). Allo stesso tempo si è cercato di difendere il lavoro penale dall’accusa di esser causa della disoccupazione, con l’argomentazione che “ il lavoro penale deve essere concepito come se fosse un meccanismo che trasforma il detenuto violento, agitato, irriflessivo in un elemento che gioca il suo ruolo con perfetta regolarità” (Foucault M. 1975, p. 263). La configurazione del lavoro carcerario cambia quindi notevolmente a seconda di come si risponde alle domande sul suo senso e scopo, risentendo delle condizioni economiche esterne e delle difficoltà organizzative interne all’istituzione carcere. Qualsiasi fosse la valenza attribuita al lavoro, punitiva o risocializzante, qualsiasi fosse la sua configurazione, dovere o diritto, fin dall’Ottocento esso è stato più un tema retorico che una realtà (Caputo G. 2015). E soprattutto lo status del lavoro penitenziario nell’ordinamento italiano è ancora oggi contradditorio: da un lato, esso risente dell’impostazione del Codice Penale del 1930 che considera il lavoro uno strumento sanzionatorio con valenza punitiva e dovere del detenuto che non può pretendere di essere mantenuto dallo Stato; dall’altro, risente dell’ordinamento penitenziario del 1975, ispirato alla retorica ottocentesca, che vede nel detenuto un minorato morale e sociale, che non trova in se stesso motivazioni ed abilità per mantenersi nella società con il proprio lavoro onesto ed eleva, per questo, il lavoro, a primo strumento di reinserimento sociale che per poter svolgere questa funzione deve combattere la tendenza all’ozio, dare competenze spendibili dopo la carcerazione ed abituare ai metodi e ai ritmi produttivi della società libera (Caputo G. 2015).

Le norme adottate dall’ONU nel 1955 (Standard Minimun Rules for the Treatment of Prisoners)

segnano un primo importante passo in favore di una concezione paternalista che considera il lavoro come strumento di riabilitazione e reinserimento sociale. Tali norme sanciscono che il lavoro carcerario non deve avere natura afflittiva, nondimeno deve essere obbligatorio e al contempo volto alla risocializzazione: il lavoro deve essere tale da preservare o accrescere la capacità dei detenuti di guadagnarsi da vivere in modo onesto dopo la scarcerazione; i detenuti devono potersi scegliere, nei limiti del possibile, un lavoro conforme alla loro vocazione e alle loro attitudini (possibilità che deve essere garantita in particolare ai giovani detenuti) ed è vietato che il mancato rispetto di attitudine e vocazione possa derivare da ragioni di profitto dell’imprenditore (Caputo G. 2015). “La retorica ottocentesca contro l’ozio e i suoi effetti alienanti, aleggia anche dietro la previsione secondo cui il lavoro deve tenere occupato il detenuto per il normale orario di lavoro, ma va detto che questa norma sembra parimenti volta a rafforzare l’idea secondo cui i carichi del lavoro

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carcerario devono essere non afflittivi e simili a quelli del lavoro esterno” (Re L. 2002, p. 31). In conformità con la finalità rieducativa della detenzione, deve essere lasciato il tempo ai lavoratori di svolgere le altre attività rieducative e trattamentali. Il lavoro deve avere prima di tutto una finalità risocializzante, i suoi metodi, i suoi tempi e la sua organizzazione devono essere più simili possibili a quelli del lavoro esterno, in modo da preparare i reclusi alle condizioni della normale vita lavorativa (Caputo G. 2015).

Eppure, l’ordinamento penitenziario del 1975 è fortemente condizionato dall’ambiguità delle norme dell’ONU che nonostante sembrino voler finalmente sgomberare l’orizzonte dall’impostazione dell’epoca fascista, presentano ancora in parte la concezione del lavoro carcerario come strumento afflittivo e come dovere dei detenuti, riproponendo così il lungo dibattito dottrinale riguardo alla configurabilità del lavoro penitenziario come diritto o piuttosto come obbligo gravante sul detenuto (Cappelletto M., Lombroso A. 1976)71. La legge n. 354/1975, a differenza dei precedenti ordinamenti che rispecchiavano la concezione prettamente affittiva del lavoro penitenziario, per un verso sembra confermare l’obbligo del lavoro durante l’esecuzione della pena detentiva (art. 20 comma 3); allo stesso tempo, però, in altre disposizioni contraddice l’imperatività di tale obbligo laddove prevede che “negli istituti penitenziari deve essere favorita ad ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro” (art. 20, comma 1) e che “ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro” (art. 15, comma 2), principale strumento di reinserimento sociale (l’obbligatorietà trova quindi la propria giustificazione nell’art. 27, comma 3, della Costituzione). Da queste ultime disposizioni sembrerebbe a prima vista che il legislatore abbia previsto solo in maniera tendenziale l’obbligo del lavoro, come una sorta di direttiva rivolta più che altro all’amministrazione penitenziaria, la quale deve favorire e assicurare il lavoro alla popolazione penitenziaria, con la conseguenza che in capo ai detenuti sarebbe configurabile un vero e proprio diritto ad ottenere un’attività lavorativa, in considerazione del fatto che il lavoro è strumento principale del trattamento rieducativo e appiglio efficace e sicuro di reinserimento sociale (Furfaro V. 2008).

Parte della dottrina ha sostenuto fermamente che l’ordinamento penitenziario del 1975 abbia semplicemente confermato l’obbligo del lavoro per il detenuto, partendo dal presupposto che è elemento saliente del trattamento, pertanto la previsione di un obbligo ribadirebbe “il profondo

71 La concezione del lavoro come dovere del detenuto che aveva lo scopo, da un lato, di assicurarne la punizione-

redenzione e, dall’altro, di minimizzare i costi della detenzione ricadenti sulla collettività, fu sancita dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 che all’art. 4, ammette, come eccezione al divieto generale di lavoro forzato, il lavoro obbligatorio per i reclusi, purché la loro detenzione sia legittima ai sensi del successivo art. 5, comma 1. Il che vuol dire che il lavoro obbligatorio può esse imposto, in astratto, anche alle persone in custodia cautelare, al minore anche se la detenzione non trae origine da un provvedimento di un giudice ma è stata decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione; agli alienati, agli alcolizzati, ai tossicomani o ai vagabondi; e infine agli stranieri detenuti.

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valore rieducativo del lavoro penitenziario, tale da qualificarlo come indispensabile e di conseguenza doveroso per il condannato ad una pena detentiva” (Vitali M. 2001, p.21).

Altra parte della dottrina ha invece interpretato in maniera fortemente innovativa la riforma del 1975, proponendo la qualificazione del lavoro carcerario come vero e proprio diritto per il detenuto. L’argomentazione principale a sostegno di questa tesi è rinvenuta nello stesso dettato normativo laddove si dice che ai detenuti è assicurato il lavoro (art. 15 legge 354/1975); da tale previsione si ricaverebbe la possibilità per il detenuto di vantare una pretesa nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. Pertanto, la mancata assegnazione di un’attività lavorativa sarebbe “fatto generatore di responsabilità risarcitoria nei confronti dell’amministrazione penitenziaria” (Vitali M. 2001, p. 21) per danni quali la perdita della capacità e qualificazione professionale. È evidente però come una siffatta interpretazione conduca molto lontano rispetto a quanto previsto dal dettato legislativo: basta considerare soltanto che l’amministrazione penitenziaria può esimersi dall’obbligo di fornire un’attività lavorativa al detenuto adducendo un caso di impossibilità (art. 15, comma 2, legge 354/1975), formula piuttosto ampia che consente un impiego discrezionale e tuttavia legittimo (Vitali M. 2001).

L’interpretazione più plausibile e conforme allo spirito della legge sull’ordinamento penitenziario sembra essere piuttosto quella di considerare il lavoro penitenziario parimenti come diritto ed obbligo per il detenuto con enfasi su quello che è l’aspetto rieducativo (Grevi V. 1981): “il lavoro è obbligatorio” (art. 20, comma 3, legge 354/1975) e allo stesso tempo deve essere “assicurato” ai condannati e agli internati (art. 15, comma 2, legge 354/1975) annoverandosi così tra i quattro elementi cardine del trattamento penitenziario (gli altri tre sono l’istruzione, la religione e le attività culturali, ricreative e sportive). Ne consegue, in primo luogo che alla luce della carta costituzionale, secondo la quale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, comma 3, Cost.), il lavoro penitenziario così come inteso dall’attuale ordinamento penitenziario, ha perso ogni connotato di afflittività per divenire strumento principale del trattamento rieducativo. L’obbligatorietà è giustificata partendo dal presupposto che lo svolgimento di un’attività lavorativa è parte integrante e saliente del percorso riabilitativo, e non più pena accessoria alla detenzione, quindi l’amministrazione penitenziaria ha l’onere di adoperarsi per assicurare a ciascun detenuto tale chance di reintegrazione sociale72. Emblematico è sotto questo aspetto il comma 5 dell’art. 20

72 Tale interpretazione può essere ulteriormente sostenuta citando l’art. 4 della Convenzione europea per la salvaguardia

dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (Ministero della Giustizia 2014), che proibisce qualsiasi forma di schiavitù e lavoro forzato. Sul punto si è espressa anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 24 giugno 1982 (Ministero della Giustizia 2014), che ha sostenuto la legittimità e la conformità alla Convenzione europea di cui sopra, delle disposizioni degli ordinamenti interni che prevedano come obbligatorio il lavoro penitenziario purché sussista la condizione che il lavoro penitenziario non debba presentare alcuna similitudine con le passate e disumanizzanti forme di lavori forzati, pertanto deve perseguire come unico fine, quello della rieducazione e della risocializzazione del detenuto.

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della legge 354/1975 che, richiamando ancora una volta le Standard Minimun Rules dell’ONU, sancisce che “l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale” (Presidenza della Repubblica 1975). L’idea del lavoro come strumento principe di qualificazione professionale e di reinserimento sociale è ribadita da almeno un’altra disposizione dello stesso articolo 20 legge 354/1975. In particolare, quella al comma 6, secondo cui nell’assegnazione dei soggetti al lavoro si deve tener conto “della professionalità, nonché delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui essi potranno dedicarsi dopo la dimissione” (Presidenza della repubblica 1975).

Infine, alcuni autori, a fondamento di questa interpretazione, hanno sostenuto che l’ordinamento penitenziario qualificando il lavoro svolto durante l’esecuzione pena come diritto e nello stesso tempo obbligo per il condannato, avrebbe dato piena attuazione all’art. 4 della Costituzione che parimenti prevede il diritto al lavoro e il dovere per ogni cittadino di svolgere “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (A. Raciti 2001, p. 274). Una volta ammessa la duplice configurazione del lavoro penitenziario, occorre stabilire quali sono le conseguenze della previsione dello stesso come obbligo, e quali i vantaggi che derivano dalla sua qualificazione come diritto73.

Dalla previsione del lavoro penitenziario come obbligatorio consegue che il detenuto, una volta ammesso al lavoro, deve svolgere l’attività assegnatagli, nonostante possa non corrispondere alle proprie attitudini o preferenze. Ne consegue che il volontario inadempimento degli obblighi lavorativi integra un’ipotesi di infrazione disciplinare, la quale a sua volta è presupposto per l’applicazione di una sanzione disciplinare, rilevante ai fini della valutazione dell’andamento del percorso riabilitativo, ovviamente in senso negativo, potendo pregiudicare l’accesso ai benefici, quali il permesso premio e la liberazione anticipata, nonché la successiva eventuale ammissione ad una delle misure alternative (Furfaro V. 2008).

Configurando invece il lavoro penitenziario come diritto, alla luce dell’art. 4 della carta costituzionale, ne consegue che il detenuto vanta una pretesa nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, alla quale corrisponde il dovere di reperire un’attività lavorativa, fatta salva soltanto la possibilità di addurre la sussistenza di un caso di impossibilità (facendo riferimento a ipotesi di difficoltà oggettive ed insormontabili) se si tratta di un condannato o internato, ovvero un giustificato motivo se si tratta di un imputato (art. 15 ord. pen.). In entrambi i casi, si tratta di

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Si deve ribadire che l’obbligo del lavoro grava solo sui detenuti condannati, e non anche sugli imputati. La fondamentale differenza fra condannati ed imputati per quanto riguarda il lavoro penitenziario è che questi ultimi non essendo e non dovendo essere sottoposti al trattamento rieducativo di cui all’art. 13 ord. pen., possono essere ammessi a lavorare solo su espressa richiesta, e salvo che non sussistano contrarie disposizioni da parte dell’autorità giudiziaria o giustificati motivi addotti dall’amministrazione penitenziaria.

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clausole piuttosto ampie da consentire una certa libertà di movimento nelle giustificazioni adducibili. Cosicché la mancata effettività della previsione secondo cui ai detenuti deve essere assicurato il lavoro porta con sé il rischio di ridurre anche l’effettività del disposto costituzionale per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Questa è sicuramente la più importante discrasia fra il dover essere della norma e la sua applicazione pratica (Furfaro V. 2008). La ricomposizione tra vecchia e nuova concezione (tra dimensione sanzionatoria e dimensione trattamentale) del lavoro penitenziario è più apparente che sostanziale (Grevi V. 1981). Il lavoro, infatti, resta, in forza delle previsione del codice penale, obbligatorio e quindi parte imprescindibile di ogni pena detentiva (articoli 22, 23 e 25 Codice Penale), nonostante il primo comma dell’articolo 1 del Regolamento di esecuzione penitenziaria (sia nella formulazione del 1976 che in quella del 2000) precisa che il trattamento si basa sulla volontaria partecipazione dei detenuti74 (Caputo G. 2015).

Inoltre, malgrado l’accuratezza con cui il legislatore ha disciplinato il lavoro penitenziario dal punto di vista della sua qualificazione come diritto ed obbligo per il detenuto, nella realtà della vita carceraria, questi è inteso piuttosto come un privilegio vista la scarsità delle opportunità lavorative offerte alla popolazione dei reclusi (Associazione Antigone 2015a). Non è un caso che nella maggior parte degli istituti vengano impiegati meccanismi di rotazione, in modo da impiegare ciascun detenuto limitatamente ad un certo periodo di tempo e consentire l’alternanza ciclica alla stessa attività lavorativa del maggior numero possibile di detenuti (Raciti A. 2001). In definitiva, pertanto non si pone il problema della coercizione al lavoro, dal momento che nella stragrande maggioranza dei casi i detenuti e gli internati sono desiderosi di essere impiegati in un’attività lavorativa, se non altro per rompere la monotonia della vita carceraria (Associazione Antigone 2015a).

Un’ultima considerazione sulla natura trattamentale del lavoro penitenziario, riguarda la sua connotazione di strumento per combattere la supposta tendenza all’ozio dei condannati, che rende adatto allo scopo qualsiasi tipo di lavoro venga offerto al detenuto (Caputo G. 2015). La configurazione trattamentale del lavoro imporrebbe, al contrario, come sancito dalle Regole dell’ONU e dallo stesso art. 20 dell’ordinamento penitenziario, che il lavoro carcerario sia tale da fornire al detenuto qualifiche utili da spendere per trovare un’occupazione al momento dell’uscita dal carcere. La relativizzazione dell’obbligo per l’amministrazione di offrire lavoro qualificato al fine di un futuro reinserimento nella società, ha finito per consentire il perpetuarsi ancora oggi nei penitenziari italiani di lavori come “scopino”, “piantone”, “porta vitto” che certo non forniscono

74 “Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a

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nessuna abilità da spendere sul mercato libero del lavoro (Associazione Antigone 2015a). Questi lavori possono essere richiesti ai detenuti in virtù dell’art. 50 del DPR 230/2000 (identico all’art. 48 del Regolamento del 1976) il quale stabilisce che “i condannati per i quali non sia disponibile un lavoro rispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell’articolo 20 della legge, sono tenuti a svolgere un’altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell’istituto” (Presidenza della repubblica 1976). È evidente che una norma di questo genere, per quanto dettata da una visione realistica delle possibilità dell’amministrazione penitenziaria, risponde più alle logiche punitive degli anni ’30 del secolo scorso che a quelle trattamentali. E ci sarebbe da domandarsi se una norma regolamentare può derogare all’ordinamento penitenziario su un aspetto fondamentale quale il principale elemento del trattamento penitenziario (Caputo G. 2015). La fotografia realista (necessaria per dare concretezza ai problemi normativi, considerati i pochi, parziali e a volte ingannevoli dati ufficiali) che emerge riguardo al lavoro nei penitenziari italiani è che esistono un numero esiguo di posti di lavoro, con un contenuto risocializzante pressoché nullo, dato che nella stragrande maggioranze dei casi si tratta di lavori umili e pagati molto al di sotto dei limiti imposti per legge (Caputo G. 2015). In tal modo, il lavoro si concretizza in attività del tutto peculiari dell’istituto di pena, di carattere elementare e totalmente prive di qualsiasi valenza formativa tale da impedire una preparazione adeguata al libero mercato del lavoro, con notevole pregiudizio, di nuovo, per il reinserimento socio-lavorativo del detenuto.Questo a sua volta fa dubitare dell’effettività della previsione secondo cui l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario debbano riflettere quelli del lavoro all’esterno, perché se così fosse dovrebbero essere presenti negli istituiti carcerari attività lavorative che rispecchiano le corrispondenti attività del mondo produttivo libero con maggiore significato in termini di preparazione professionale (Associazione Antigone 2013).Esistono almeno due ragioni salienti che sminuiscono la fattibilità di tale idea: innanzitutto la stessa organizzazione interna della vita carceraria, scandita e sorvegliata in ogni momento, nonché le esigenze di ordine e sicurezza che caratterizzano un’istituzione totale quale quella penitenziaria, sono entrambi incompatibili con i