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CHE COSA SIGNIFICA RIEDUCAZIONE E RIABILITAZIONE SOCIALE

Giovani adulti nell'anno

CHE COSA SIGNIFICA RIEDUCAZIONE E RIABILITAZIONE SOCIALE

“Isole nelle città” (Mancuso R. 2001, p. 133): con questa definizione si può sintetizzare e descrivere l’impermeabilità e la distanza che separa due mondi, quello dei liberi e quello dei reclusi. Ognuno con il proprio sistema di regole, con i rispettivi linguaggi, riferimenti, codici di riconoscimento, universi simbolici. L’immagine è ancor più espressiva se riferita alle strutture carcerarie di costruzione non recente, che rappresentano poi la maggior parte dell’attuale patrimonio edilizio in uso all’amministrazione penitenziaria (Mancuso R. 2001)44

. La rottura della separazione tra il carcere e la città, tra i reclusi e il resto della società è stata, al tempo stesso, il presupposto e la finalità della riforma carceraria e, più in generale, di tutti quei processi sociali, culturali, politici e normativi volti alla umanizzazione della pena detentiva, conformi all’art. 27 della Costituzione secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, comma 3, Cost.)45

(Governo Italiano 2015). Il presupposto della riforma carceraria è che ci sia un riconoscimento di dignità sociale e di cittadinanza dei detenuti, di loro appartenenza alla polis prima, durante e dopo la pena: dunque fisicamente ristretti, ma pur sempre cittadini, ovvero abilitati all’esercizio di diritti e doveri. La finalità della riforma carceraria concerne la filosofia rieducativa e le opportunità di reinserimento sociale che richiedono uno scambio, laddove scambio significa contaminazione e reciprocità, tra interno-esterno (e viceversa), tra carcere e società, limitato ma perlomeno costante nel tempo (Mancuso R. 2001).

Punto di partenza di un moderno trattamento è la convinzione che la pena debba essere umanizzata al fine di permettere la neutralizzazione dei danni, inerenti la situazione di detenzione, e di facilitare il reinserimento dei reclusi nella società. È perciò necessario che quest’ultimi non si riducano a subire passivamente la pena, ma in qualche modo, riescano a finalizzarla al loro reinserimento. Nell’ordine di tale finalizzazione è innanzitutto necessaria quella proporzionalità tra fatto

44 Quasi i due terzi dei complessi penitenziari italiani sono stati realizzati prima del 1977, oltre un terzo risale addirittura

ai secoli scorsi (Marcetti C., Solimano N. 1997).

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La nostra Costituzione con l’art. 27 comma 3, affermando i fondamentali principi di umanità e funzione rieducativa della pena, ha superato, pur non rinnegandola, la funzione punitivo-retributiva della pena, secondo cui il reo ha un debito con la società, determinato dalla violazione della legge, e in quanto tale deve essere pagato. Da questa norma costituzionale si desumono principi fondamentali per il sistema sanzionatorio, come quello del divieto di fare uso della tortura, contraria certamente al senso di umanità.

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commesso e sanzione irrogata che già Beccaria, pur muovendo da una prospettiva meramente utilitaristica, individuava nel suo celeberrimo “Dei delitti e delle pene” come necessaria (Beccaria C. 1993). Oggi, secondo una prospettiva più moderna, si giustifica l’esigenza di rispettare questo vincolo di proporzione commisurato non più né tanto alla colpa ma con riferimento alle possibilità di recupero, come cura rieducativa, come rimozione delle cause che hanno portato all’errore e quindi come risocializzazione. Possibilità di reinserimento che dipende dalla capacità che il soggetto manifesta durante la detenzione. Si afferma infatti che il reo sarà ben disposto verso il percorso di (ri-)acquisizione dei valori violati se, e solo se, sentirà la pena come giusta per sé (idea di una sanzione che si modella sulla persona del reo). In secondo luogo, la pena deve tendere e non imporsi a rieducare il condannato. Egli deve infatti disporsi favorevolmente verso questa prospettiva e nulla deve essergli imposto, salvo vanificare il senso stesso del processo di risocializzazione e minare le fondamenta di un ordinamento pienamente democratico, che non ha e non deve avere lo scopo di imporre il proprio punto di vista etico al reo, ma il quale ha comunque tutto l’interesse a che egli non ricada nuovamente nel reato dopo aver sperimentato la sanzione (Castaldo M. 2001).

Che cosa si intende allora nello specifico per rieducazione46? Sulla base di un’interpretazione di ampio respiro delle norme costituzionali nel loro complesso, dottrina e giurisprudenza evincono oggi pacificamente che per rieducazione debba intendersi più propriamente risocializzazione, ossia un percorso educativo volto al recupero e al reinserimento del reo nella società; un processo, quindi, di rieducazione del deviante a comportamenti socialmente accettabili e accettati e di accompagnamento verso la (ri-)acquisizione della consapevolezza dell’importanza e del dovere di rispettare quei valori e interessi superiori che egli ha calpestato con la sua condotta (Castaldo M. 2001)47.

All’amministrazione penitenziaria è assegnato il mandato istituzionale di promuovere interventi “che devono tendere al reinserimento sociale” dei detenuti e degli internati (art. 1, legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario) (Presidenza della repubblica 1975) e avviare “un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale” (art. 1, comma 2, regolamento di esecuzione, D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230) (Presidenza della Repubblica 2000). Il

46 Rieducare: educare di nuovo e meglio, colmando le lacune e correggendo le storture della prima educazione.

47 Valori e interessi che debbono necessariamente essere condivisi dalla grande maggioranza della popolazione, onde si

correrebbe il rischio di cadere nel concetto di emenda (tipicamente vetero-cristiano), dove lo Stato (non laico) impone ai suoi cittadini (in questo caso ai detenuti) una determinata prospettiva valoriale, senza curarsi che essa sia o meno accolta e diffusa tra i più: un’imposizione che anch’essa può però assumere le vesti di una rieducazione se quest’ultima non viene connotata di socialità e quindi tradotta in risocializzazione, in coerenza con la prospettiva costituzionale (Pinatel 1971).

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complesso di attività, misure ed interventi che concorrono a conseguire l’obiettivo della risocializzazione della persona detenuta prende il nome di trattamento rieducativo.

Il trattamento rieducativo costituisce una parte del trattamento penitenziario48, in quanto nel quadro generale e nei principi di gestione che regolano le modalità di privazione della libertà personale, si inserisce il dovere dello Stato di attuare l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza in modo tale da tendere alla rieducazione del soggetto ed abbattere il tasso di recidiva di chi viene rimesso in libertà dopo aver scontato la pena. Il principio di fondo è che il detenuto non è il reato che ha commesso, ma è molto più di questo: è un individuo complesso, fatto di contraddizioni come chiunque altro, e dotato di un patrimonio emotivo, cognitivo e comportamentale che esula dagli angusti confini del delitto commesso. La rieducazione tende a valorizzare le abilità e la capacità di relazionarsi agli altri che caratterizza in ogni caso l’essere umano. Essa, tesa a modificare quegli atteggiamenti del condannato e dell’internato che sono stati la causa della sua mancata integrazione sociale, consiste nel dare al detenuto nuovi stimoli, nuove motivazioni per rifarsi una vita e reinserirsi nella società in modo costruttivo e integrato. Il trattamento rieducativo, concerne quindi il mettere in atto un sistema di cure psico-sociali per i detenuti, aventi l’obiettivo di rimodellare il loro sistema di valori e di aumentare le loro possibilità di adattamento sociale (Castaldo M. 2001). Nella predisposizione degli interventi istituzionali relativi alla devianza minorile è necessario tenere conto di ulteriori questioni inerenti i principi base delle politiche istituzionali. C’è innanzitutto da considerare che la distinzione tra il piano punitivo-sanzionatorio (che rappresenta l’idea guida per la soluzione del disagio giovanile ed è il cuore della legge del 1934) ed il piano educativo, fondato sul consenso (che oggi emerge dalle recenti innovazioni legislative del DPR 448/88), affonda la sua ragione d’essere sia negli insuccessi della rieducazione tentata fino agli anni ‘70 in Italia, sia nell’ambiguità concettuale del termine stesso. Parlare infatti di rieducazione in ambito minorile quasi non ha senso, dal momento che questo termine fa riferimento alla modificazione di comportamenti che già si possiedono, mentre il minore, per definizione, è un individuo in fase di formazione e di apprendimento, che, di conseguenza, non ha comportamenti da modificare, perché li sta ancora acquisendo, e quindi non deve essere rieducato, ma educato. L’idea di rieducazione emergente negli ultimi anni consiste, dunque, nell’associare una realtà di internato con una azione

48 In Italia, il trattamento penitenziario è un complesso di pratiche che si pongono in essere nei confronti dei detenuti,

con lo scopo di rieducare i soggetti e restituirli alla società emendati del carattere di devianza e nella prospettiva della reintegrazione sociale. Con l’espressione trattamento penitenziario viene quindi considerata una serie articolata di interventi attuati nel rigoroso rispetto dei principi costituzionali (quali i diritti inviolabili dell’uomo, l’uguaglianza dei cittadini, l’umanità della pena e la presunzione di non colpevolezza di ciascun individuo) e tesi a contrastare gli effetti negativi della detenzione e dell’internamento (Grevi V. 1981). Nello specifico, il trattamento penitenziario, che ai sensi dell’art. 13 ord. pen., deve essere individualizzato, deve porre in essere interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali del detenuto, ossia offrire al detenuto opportunità volte a favorirne la reintegrazione sociale (art. 1, comma 1, D.P.R. n. 230/2000 e D.P.R. n. 431/1976).

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trasformatrice della personalità dell’adolescente, basata non certo sull’esperienza dura del carcere, ma piuttosto su un nuovo rapporto adulto-adolescente aperto alla relazione, attraverso il quale fornire al minore gli strumenti necessari per creare migliori rapporti con gli altri e con la società (Mancuso R. 2001).

In secondo luogo, il principio del rispetto dell’esigenza educativa del minore è, soprattutto, un diritto che al soggetto non può venire negato nel corso del processo penale; anzi, il processo educativo, per avere una valenza formativa, non deve essere coatto, ma fondato sul consenso, sull’approvazione, da parte del minore stesso, dei progetti di aiuto e sostegno offerti (Mancuso R. 2001).

Infine, c’è da considerare il periodo molto delicato che soprattutto i giovani neo maggiorenni in uscita dalla presa in carico dai servizi educativi residenziali, quali IPM o comunità, intraprendono verso l’autonomia. Una fase di passaggio dal contesto protetto, in cui si è vissuti per un tempo più o meno lungo, a nuove forme di relazioni e di autonomia da scoprire e sperimentare. Questo passaggio non è un compito facile per nessun giovane, neppure per coloro che possiedono delle risorse familiari e personali stabili. Sicuramente si tratta di un compito ancora più arduo per quei giovani che si confrontano con il disagio che deriva dalla presenza di condizioni svantaggiate sul piano personale, materiale, sociale e relazionale e che hanno alle spalle una famiglia carente, vulnerabile o maltrattante. Giovani che, per questi motivi, hanno trascorso parte della loro adolescenza (e magari anche dell’infanzia) all’interno di un percorso di tutela, di una comunità alloggio per minori, di un IPM accompagnati da figure educative. In questi casi, il ponte diventa difficile da attraversare senza una rete di sostegno e di supporto, in quanto si rischia di cadere e di perdere le sicurezze acquisite con una variazione negativa del percorso di vita. Diventa allora importante esplorare ed indagare quali sono gli strumenti e i modelli operativi che consentono di costruire un ponte solido e stabile, che questi giovani non debbano percorrere da soli, ma con qualcuno che li accompagni e li affianchi durante il cammino, consentendo di crescere, di completare la fase di transizione verso la piena integrazione sociale o il percorso scolastico e formativo, di sperimentarsi e di acquisire competenze e abilità da spendere efficacemente nel mercato del lavoro (Pandolfi L. 2013).

L’idea di educare i detenuti a vivere la vita che si troveranno una volta scontata la pena, presuppone un sistema sociale e carcerario basato sul rispetto della dignità della persona e allo stesso tempo capace di considerare il pregiudicato come una risorsa, umana ed economica, da recuperare e reinserire socialmente, in modo tale da poter essere utile alla comunità, una volta uscito di galera (Nilsen A.K 2013). La vera giustizia deve puntare a rispettare i detenuti per insegnare loro a

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rispettare gli altri (Nilsen A.K 2013)49. Sorvegliare e punire può mortificare l’individuo piuttosto che renderlo consapevole del danno arrecato alla società (Foucault M. 1975): enfatizzare caratteristiche quali disciplina e controllo, piuttosto che incoraggiare la crescita e lo sviluppo umano, contribuisce ad accentuare gli aspetti negativi del sistema carcerario e risulta essere un atteggiamento che perpetua l’immagine del carcere solo ed esclusivamente come istituzione totale ed espressione di controllo sociale (Pinatel 1971). Invece, nel momento in cui l’attenzione si incentra sui bisogni individuali e il detenuto è percepito come una persona da avviare alla risocializzazione in maniera professionale, egli cessa di essere solamente un oggetto del controllo (Nilsen A.K 2013). L’obiettivo della rieducazione non viene quindi perseguito attraverso la somministrazione della pena ma conformandola alle effettive esigenze della personalità del condannato che emergono dalla sua osservazione durante il periodo di reclusione (art. 1 legge 354/1975). Una prospettiva questa che vede il carcere non luogo di segregazione e di allontanamento dalla società ma momento di attivazione del processo di riabilitazione in proiezione del reinserimento nella società (Cost. art. 27, comma 3).

Il problema della rieducazione si pone allora all’interno dell’istituzione carceraria anche con riferimento a quelle finalità fondamentali rappresentate dalla sincronizzazione e dalle dinamiche comunicative fra le istituzioni e i sotto-sistemi implicati nel settore penitenziario, al fine di evitare sterili e latenti incomprensioni che pregiudicano l’efficacia complessiva degli interventi trattamentali (Mancuso R. 2001). È indispensabile che il recluso conservi il legame con la realtà esterna, intesa sia come ambito familiare e di amicizie, sia come ambito societario più ampio a sostegno di un suo graduale ma efficace reinserimento sociale e lavorativo. Intensificare e migliorare i rapporti tra il carcere e la società esterna rende meno traumatico e rischioso il ritorno nella società per quei soggetti coattivamente allontanati da questa (Associazione Antigone 2000). D’altronde, lo scopo del trattamento è proprio quello di preparare e mantenere il detenuto in contatto con la comunità esterna, annientando il più possibile la caratteristica, comune a tutti gli istituti di reclusione, di separare dal mondo (Associazione Antigone 2000). A tal fine è prioritario l’obbiettivo di riuscire ad aprire il carcere, restituendo a questo luogo l’identità di parte della società, con il contributo fondamentale riconosciuto alla partecipazione della comunità esterna all’azione di reinserimento dei detenuti. Mantenere un rapporto il più continuo possibile con il

49 A tal riguardo, nelle carceri norvegesi, dove nessuna finestra è sbarrata e dove lungo le mura non ci sono guardie

armate a pattugliare, tanto che viste da fuori potrebbero sembrare un campus universitario o un ospedale, l’idea è di educare i detenuti a vivere la vita che si troveranno una volta scontata la pena. Il sistema, basato sul rispetto della dignità della persona, sembra funzionare perché la Norvegia batte tutti i paesi dell’Europa per efficacia del recupero sociale: il tasso dei suicidi tra i detenuti è praticamente nullo e la ricaduta nella delinquenza è minore del 30% contro una media europea del 75%. Questo potrebbe farci sperare sulla possibilità che un giorno anche l’Italia potrà modificare il proprio sistema carcerario e vedere il pregiudicato come una risorsa, umana ed economica, da recuperare e reinserire socialmente, in modo tale da poter essere utile alla comunità, una volta uscito di galera (Nilsen A.K 2013).

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sistema sociale può aiutare a costruire percorsi di professionalità educativa e non più di sola e semplice rieducazione sociale (Mancuso R. 2001). A tale scopo un ruolo fondamentale è svolto dalle misure alternative alla detenzione, di cui si avverte sempre di più la necessità di ampliarne l’ambito di applicazione e l’effettivo utilizzo, in considerazione del loro cospicuo contributo al progressivo reinserimento sociale dei soggetti reclusi. Inoltre, affinché possa essere sollecitata e rafforzata l’iniziativa dell’individuo recluso nell’ambito della comunità carceraria ed extra carceraria, è fondamentale che esso sia messo in grado di reagire alle influenze dannose50 del carcere e che venga corroborato nella sua capacità di autodeterminazione, che venga stimolato a prepararsi al reinserimento. Un correttivo all’influsso negativo, che il carcere può esercitare, e un aiuto per i fondamentali obiettivi di rieducazione, si possono trovare nelle attività culturali, ricreative e sportive, le quali in un contesto rigido qual è il carcere favoriscono l’autodeterminazione dei reclusi e il loro contatto con il mondo esterno attuando un trattamento maggiormente efficace (Maggiolini A., et al. 2009)51. Ma soprattutto per realizzare il processo di rieducazione e di risocializzazione di chi ha commesso un reato, l’ordinamento penitenziario assegna un ruolo fondamentale all’istruzione, alla formazione professionale e al lavoro al fine di consentire ai detenuti, una volta concluso il periodo di detenzione, il reinserimento sociale e lavorativo. L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario configura infatti l’istruzione (diritto costituzionalmente protetto) come fondamentale elemento di risocializzazione, inserendo la stessa, assieme al lavoro, alle attività culturali, ricreative e sportive, fra gli interventi attraverso i quali in via primaria si attua il trattamento rieducativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria privativi o limitativi della libertà personale (Legge n. 354 del 26 luglio 1975). L’istruzione all’interno del carcere non si pone come unico obiettivo la formazione scolastica o professionale dei soggetti reclusi, ma mira a creare un’atmosfera di valori e rapporti umani capace di incidere sulla ri-educazione del reo: essa, favorendo il processo di inclusione sociale e l’adozione di modelli di vita socialmente accettabili, svolge un ruolo primario nel percorso di reinserimento alla vita sociale dei detenuti e può essere considerato un fattore significativo in ordine alla riduzione della recidiva, in grado di svolgere una funzione preventiva nei confronti del condannato (Ministero della Giustizia 2015b).

50 La riflessione sul carcere come ambiente sociale chiuso appare chiaramente con una serie di aspetti negativi quali la

solitudine e l’ozio, la compagnia casuale ed eterogenea, il ritmo di vita monotono e coercitivo. La pericolosità sociale del carcere è connessa alla concentrazione di tempo ed interessi dei suoi membri in limiti spaziali ben definiti e in una prevalente visione sociale deviante (Mancuso R. 2001).

51 I benefici pedagogici che se ne possono ricavare sono molteplici: tali attività sviluppano le qualità intellettuali e la

creatività, liberando dalla monotonia e dalla apatia e permettendo di scaricare l’aggressività, favoriscono l’associazione e i rapporti interpersonali, favoriscono l’osservazione e la correzione del proprio carattere al fine di meglio personalizzare il trattamento, spesso sono un’occasione preziosa per la formazione scolastico-professionale e quella culturale, mettono in grado di conservare i legami con la società esterna, di seguirne gli sviluppi, di coltivare gli interessi (Maggiolini A., et al. 2009).

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Allo stesso modo, in una prospettiva di risocializzazione, il lavoro carcerario è da considerarsi una componente fondamentale del processo di rieducazione, a sua volta parte integrante del processo di riabilitazione. L’idea di pensare al lavoro come strumento principale per raggiungere il fine riabilitativo costituisce il punto di forza delle iniziative europee dirette a promuovere il reinserimento e l’inclusione sociale dei detenuti e dei minori detenuti (Parlamento Europeo 2011). Tra le condizioni sociali e personali che ostacolano la costruttiva partecipazione dei detenuti e che rendono difficile il loro positivo reinserimento sociale e lavorativo alla fine della pena vi è infatti una serie di handicap di base che segna le caratteristiche della popolazione detenuta in Italia, tra cui la bassa scolarità della grande maggioranza dei detenuti e il cattivo rapporto con il mondo del lavoro (Antigone 2015b). Punto di forza, sicuramente è l’impegno sul percorso scolastico e formativo fatto all’interno delle comunità o degli IPM, che mira ad offrire degli strumenti concreti ai ragazzi dimessi dalle strutture educative residenziali, utili ad affrontare gradualmente la fase di transizione verso l’autonomia e favorire il loro reinserimento sociale. Tuttavia, la criticità maggiore riguarda la sfera lavorativa: per i molti ragazzi che hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro sarebbe necessario un maggiore sostegno in ambito professionale (Pandolfi L. 2013).

Figura n. 2.1 - Rieducazione e riabilitazione sociale

Fonte: ISFOL 2009

Per riabilitazione che cosa si intende? La riabilitazione52 a sua volta costituisce la fine di un percorso lungo e complesso definito per tappe, prima fra tutte la fase della rieducazione. Solo a conclusione del percorso si può parlare di recuperata libertà, di cittadinanza sociale intesa come diritti e doveri attraverso l’eliminazione di tutte le limitazioni derivanti dalla condanna e quindi di reintegrazione sociale. Al di là della riabilitazione penale che nell’ordinamento giuridico italiano indica le attività che consentono al ristretto di ottenere l’estinzione degli effetti penali della condanna e di riacquistare le capacità eventualmente perdute (art. 178 del Codice Penale)53 (Senato

52 Riabilitare: rendere di nuovo abile; recupero della fama, dell’onore, della stima, reintegrazione ecc.

53 L’art. 178 del Codice Penale recita: “la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della

condanna, salvo che la Legge disponga altrimenti” (Senato della Repubblica 2015).

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della Repubblica 2015), l’effettiva riabilitazione e integrazione sociale dei detenuti è un impegno che deve partire dall’interno del carcere e accompagnare il detenuto fino al momento in cui culmina