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L’obiettivo principale della pena detentiva dovrebbe essere quello di far sì che, durante la carcerazione, e in ragione a questa, il detenuto “impari” e non sia più messo nelle condizioni di delinquere. La presenza di un lavoro congiunto tra l’autore del reato e i professionisti coinvolti nell’ambiente carcerario (psicologi, assistenti sociali, educatori) dovrebbe portare il detenuto, una volta scontata la pena, ad avere un differente tipo di consapevolezza che lo possa condurre a vivere una vita entro i limiti della legalità.

Alla luce dei numerosi dibattiti che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni tuttavia, sono sempre più frequenti le posizioni di esperti e studiosi che condividono l’idea secondo il cui il carcere moderno non rappresenti più il tradizionale istituto di tipo correttivo e rieducativo per il soggetto deviante.

Si sta affermando la considerazione secondo cui quando i detenuti, a fronte di una condanna detentiva, vengono incarcerati, si ritrovano relegati in uno spazio disumano, controllato e sorvegliato, all’interno del quale si attuano continui meccanismi di stigmatizzazione e di etichettamento, che conducono ad una progressiva perdita di autonomia e di capacità gestionale della loro vita.244

Per poter adeguatamente comprendere questo aspetto occorre operare in primis un’analisi della condizione sociale della popolazione detenuta, al fine di verificare quali siano stati quei percorsi che hanno portato il soggetto stesso ad essere recluso.

Bisogna cioè ricostruire l’iter che la persona ha intrapreso verso il luogo dell’esclusione, il carcere appunto, allontanandola dal “normale” contesto di vita sociale.

Esiste una linea molto sottile tra il mondo della marginalità e quello dell’esclusione: in genere il detenuto è un soggetto che ha vissuto per molto tempo nel mondo della marginalità sia fisica che sociale e che, tramite la sua condotta inappropriata, viene condannato a scontare una pena intramuraria.

Tuttavia occorre chiarire che il carcere rappresenta pur sempre l’estrema ratio, ovvero la tappa finale, ma non obbligatoria, potenzialmente raggiungibile dal

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soggetto marginale il quale, però, può continuare a vivere in una condizione di deprivazione sociale senza essere necessariamente recluso a causa di azioni immorali o contrarie alla legge.245

La marginalità rappresenta ancora un mondo in cui è possibile offrire al soggetto un’occasione che lo aiuti, se sostenuto correttamente dalla società o dalle istituzioni presenti sul territorio, a costituirsi come nuova risorsa per la comunità; al contrario il processo di esclusione che individua nel carcere la sua forma più evoluta, segna un punto di frattura incolmabile fra l’individuo e la società stessa, rottura che rappresenta un punto di non ritorno dal quale risulta difficile, se non impossibile, uscirne.246

Opinioni sempre più diffuse247 concordano inoltre nel ritenere che il carcere possa essere definito una vera e propria “scuola del crimine” all’interno della quale il soggetto recluso invece che intraprendere, come dovrebbe prevedere la tradizionale prassi, un percorso riabilitativo e di reinserimento sociale, in assenza di un’adeguata rete di sostegno, affina ulteriormente le proprie tecniche delinquenziali che sarà portato a sperimentare una volta scontata la propria pena.

In questo modo il rischio di recidiva per il detenuto non solo non si stabilizza entro limiti moralmente o legalmente accettabili, ma anzi aumenta drasticamente.

Spesso gli istituti di pena non dissuadono nessuno dal commettere ulteriori crimini, rieducano raramente, e rovinano molto spesso le vite di quei soggetti che si trovano in bilico tra marginalità ed illegalità.248

A ulteriore sostegno di queste tesi occorre inoltre considerare le condizioni disumane e immorali in cui il detenuto è costretto a vivere all’interno delle mura carcerarie.

Nel nostro paese, costituito da 60 milioni di persone, se ne contano almeno 65.000 in stato di detenzione; questo dato significativo non solo deve imporre una presa di

245 VIVIANI E., op. cit., pag. 91. 246 Ibidem.

247 Tra coloro che sostengono questa tesi occorre ricordare Massimo De Pascalis, Direttore Generale

dell’Istituto degli Studi Penitenziari.

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coscienza del fenomeno dell’incarcerazione, ma deve anche stimolarne una conoscenza più approfondita.

La sensazione che si percepisce visitando in carcere, è quella di entrare in contatto con una città dentro la città, un luogo estraneo e sconosciuto, ma allo stesso tempo presente all’interno del tessuto sociale di cui viviamo.249

Il perimetro delle mura carcerarie delimita il rapporto con lo spazio cittadino: chi è recluso e deve stare dietro le sbarre viene etichettato come “carcerato”, come “diverso” rispetto a chi, non avendo deviato, è un cittadino “normale”.250

Questa dicotomia “normale-detenuto” “cittadino-carcerato” si riproduce anche fisicamente, dato che il reo è costretto a vivere all’interno di un luogo “altro”, estraneo alla comunità ma insediato all’interno della stessa.

Questa situazione paradossale risulta degradante a livello psicologico per molti detenuti, la maggior parte dei quali fa uso di farmaci, ansiolitici e antidepressivi (che non assumevano prima della detenzione); inoltre tanto maggiore è il tempo di permanenza all’interno delle mura carcerarie, tanto più risulteranno incapaci a gestire se stessi, la propria vita, le proprie ansie e la propria salute una volta reinseriti in società.251

All’interno del carcere il tempo sembra fermarsi e non passare mai e, dalle testimonianze delle persone che vi hanno vissuto252, la sola speranza per il detenuto è quello di essere impiegato in attività di cura della struttura.

A questo si aggiungono altri fattori altrettanto significativi tra cui: condizioni di vita inadeguate, carenze strutturali, mancanza di operatori qualificati o di attività

249 VIVIANI E., op. cit., pag. 92.

250 GOFFMAN E., Identità negata, Giuffrè Editore, Milano, 1983. Faccio qui riferimento al processo

di “stigmatizzazione” analizzato dall’autore in questo libro. Suddetto processo è un fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa a un membro o un gruppo della comunità in modo da declassarlo a un livello inferiore. Viene a tal proposito usato per identificare i soggetti devianti i quali, a fronte di questo stigma, continueranno a mettere in atto condotte compatibili e consone a questa etichetta loro attribuita, per non deludere le aspettative della comunità stessa.

251 VIVIANI E., op. cit., pag. 95.

252 Faccio qui riferimento a una serie di testimonianze da me raccolte durante la mia personale

esperienza di tirocinio presso la ONLUS “Araba Fenice” di Viareggio che verrà ulteriormente approfondita nei prossimi capitoli.

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risocializzanti fino ad arrivare all’assenza di una contestuale presa in carico del detenuto da parte dei servizi sociali territoriali competenti una volta scarcerato253.

Di conseguenza chi entra in carcere, nessuno escluso, viene omologato ad un regime generale di anonimato mortificante.

I rei vengono “maltrattati “quanto basta perché avvertano l’inospitalità del luogo e la sua funzione punitiva e ciò li porta ad essere colpiti nel vivo dei loro diritti personali e nella loro dignità.

2.1 L’altro carcere

Lo stesso sistema carcerario, seppur percepito come luogo dell’esclusione e della privazione di autonomia e libertà può, al contempo, celare al proprio interno una serie di dinamiche relazionali positive per chi lo abita.

Ciò che è importante sottolineare è proprio la forza delle relazioni umane che si possono instaurare sia tra i detenuti che tra gli questi ultimi e gli operatori.

I passati e i vissuti di ciascun soggetto si intrecciano significativamente e questo non può che generare rapporti di mutuo-aiuto e di supporto reciproco tra gli abitanti del carcere.

Queste stesse dinamiche possono talvolta assolvere una funzione “psicoterapeutica”: un profondo confronto tra detenuti e compagni di cella permette di esprimere le sensazioni più profonde, uno sfogo di rabbia e di dolore.254

Le reti di sostegno che si vengono a generare sono solide, durature, e destinate a sopravvivere anche fuori dalle mura detentive; essendosi create in maniera spontanea, esse sono in grado di sprigionare l’umanità più bella che ognuno ha dentro di sé.

Sono questi stessi rapporti che danno forza ai soggetti reclusi i quali trovano, nei propri “simili”, un supporto cui ancorarsi nei momenti di difficoltà e di incertezza.

253 MANCONI L., ANASTASIA S., CALDERONE V., RESTA F., op. cit., pag. 30. 254 VIVIANI E., op. cit., pag. 96.

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Accanto a queste relazioni più informali, anche le dinamiche generatesi tra i detenuti e gli operatori possono produrre ottimi vantaggi ai fini di un maggior sostegno del soggetto che può trovare un supporto psicologico o un aiuto anche una volta uscito dall’istituto di pena.