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Il ruolo dei servizi sociali nell’ambito dell’esecuzione penale esterna

Fermo restando che tutte le riflessioni successive si svilupperanno a partire dalla considerazione secondo cui, il problema di fondo nel campo dell’esecuzione penale italiana sia proprio generato dalla sussistenza di una base culturale inappropriata e non adeguatamente informata, un altro aspetto meritevole di attenzione è dato dal ruolo giocato dai servizi sociali (UEPE).336

Lo scenario istituzionale di partenza in cui si contestualizza in generale l’operato dei servizi sociali, si è sviluppato a partire dall’approvazione della legge 328/2000337,

che si presenta come una novella di carattere generale, volta a colmare una carenza normativa molto prolungata, che aveva visto fino ad allora interventi sociali frammentati e disarticolati su tutto il territorio nazionale.

La nuova normativa pertanto consolida il carattere universalistico delle politiche assistenziali, ancorando quest’ultime all’esigenza di un’elargizione di prestazioni più ampie, volte ad una maggior promozione dell’autonomia e delle capacità individuali, nell’ambito di una prospettiva di monitoraggio e di programmazione.338

È proprio nell’ottica di una “mission” volta alla promozione di continui processi di “empowerment”, di accrescimento delle dotazioni personali individuali, di costruzione, di consolidamento e di mantenimento di un’adeguata rete di sostegno,

335 COLUCCIA A., FERRETTI F., LORENZI L., BURACCHI T., op. cit., in Rassegna italiana di

Criminologia n. 2/2008.

336 Per quanto riguarda l’articolazione, i compiti, i ruoli e le funzioni svolte dagli Uffici di Esecuzione

Penale Esterna, si rimanda al capitolo II della mia tesi, paragrafo 2.2.4.

337 Legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di

interventi e servizi sociali”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 265 del 13 novembre 2000 –

Supplemento ordinario n. 186.

338 RUGGERI F., Le tensioni del sistema delle politiche sociali e quelle del lavoro sociale, in

FACCHINI C. (a cura di), Tra impegno e professione. Gli assistenti sociali come soggetti del

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che dovrebbe incanalarsi il lavoro professionale dell’assistente sociale e ancor più l’attività di coloro che lavorano nell’ambito dell’esecuzione esterna delle pene.

L’assistente sociale dell’Uepe si trova a lavorare ogni giorno a stretto contatto con il mondo della marginalità, dell’esclusione e della deprivazione fisica e morale e il suo obiettivo professionale primario dovrebbe essere proprio quello di favorire una continua crescita personale del soggetto detenuto, accompagnato progressivamente nel suo percorso di reinserimento sociale e lavorativo, così come vuole la stessa Carta Costituzionale.

Ma è proprio questa la “cultura” del sociale presente ai giorni nostri?

È proprio vero che gli assistenti sociali si mobilitano adeguatamente per far sì che il soggetto possa essere recuperato?

Si è fermamente convinti della possibilità di redenzione dei soggetti detenuti? Molto spesso le carenti “culture” di servizio in merito all’interpretazione e realizzazione della “mission” sociale, si manifestano in dichiarazioni di disimpegno da parte di alcuni operatori, talvolta giustificate dalla progressiva diminuzione degli organici, dalle difficoltà di integrazione degli interventi o dalla difficoltà nell’individuazione di un “case manager” in grado di sostenere l’iter di approvazione e di realizzazione di progetti per i detenuti.339

Paiono sempre più degradanti le condizioni cui gli assistenti sociali sono chiamati ad operare: si tratta di contesti contrassegnati da un’eccessiva scarsità di risorse economiche, dalla mancanza di operatori sempre motivati o da processi di “burnout” dequalificanti per i professionisti stessi.

Ma allo stesso tempo si potrebbe anche sostenere che suddette condizioni, seppur vere, costituiscano talvolta delle scuse dietro alle quali si nascondono i professionisti per giustificare il loro scarso operato e coinvolgimento.

La realtà dei servizi italiani infatti, oltre ad essere contrassegnata da difficoltà tangibili riscontrabili nella prassi lavorativa, si sta imperniando sempre più attorno a pratiche autoreferenziali e burocratiche che non fanno altro che distogliere la mente

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degli operatori da quello che dovrebbe essere il focus del loro compito professionale: “aiutare la persona con il contributo della persona stessa”.

A tal proposito meriterebbe insistere su un aspetto particolarmente rilevante che è dato proprio dall’importanza della “centralità assunta degli operatori sociali”, i quali non solo devono saper lavorare a livello societario, ma anche connotarsi in termini di “aiuto degli attori” cosicché la loro finalità diventi quella di garantire, promuovere e sostenere la capacità di agire dei soggetti.340

Talvolta tuttavia gli operatori del sociale trascurano l’“anima” di questa professione, e tendono a trasformare le loro attività quotidiane in un agire eccessivamente razionalizzato e autoreferenziale.

Ciò che importa è svolgere correttamente l’iter burocratico richiesto per l’assolvimento di una pratica in modo tale che, nel momento in cui si opera bene e secondo gli standard imposti da protocolli razionali, il proprio compito non rischi di diventare sanzionabile.

In questo modo si evidenzia una serie di distorsioni del significato stesso della professione dell’assistente sociale che rappresenta una peculiarità tutta italiana e che rischia inoltre, se lasciata irrisolta, di compromettere l’efficacia di qualsiasi tipo di servizio sociale.

In primo luogo si osserva la sua “minorità” rispetto ad altre professioni di aiuto o di cura: l’agire dell’operatore sociale tende infatti a rimanere spesso appiattito su procedure o previsioni di altri servizi o di altre professionalità (psicologo, medico) che sono radicate nel tessuto sociale da molto più tempo.

Tuttavia se da un lato sono le altre professioni che manifestano in qualche modo la necessità di un maggior apporto di competenza sociale, dall’altro lato sono i portatori di queste stessa competenza che non sono pienamente consapevoli dell’importanza di un’ampia profusione di cultura sociale.341

340 RUGGERI F., Trasformazioni del welfare e ruolo del lavoro sociale, in CAMPANINI A. (a cura

di), Scenari di welfare e formazione al servizio sociale in un Europa che cambia, Edizioni Unicopli, 2010, pag. 141.

341 RUGGERI F., Trasformazioni del welfare e ruolo del lavoro sociale, in CAMPANINI A. (a cura

di), Scenari di welfare e formazione al servizio sociale in un Europa che cambia, Edizioni Unicopli, 2010, pag. 15.

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Questa situazione paradossale si associa alla seconda distorsione che, come affermato in precedenza, è proprio legata a un’interpretazione burocratizzata e razionale della professione.

Per quanto infatti il caso da affrontare possa essere difficile o emotivamente pesante da sostenere, non si può perdere di vista la situazione relazionale di fronte alla quale si trova l’operatore e all’interno della quale bisogna ricostruire la capacità del soggetto di esserne attore principale.

Una prestazione di tipo formale e burocratizzato rischia inoltre di deformare il rapporto del professionista con l’utente dove quest’ultimo non si sentirà adeguatamente compreso e non riuscirà a sfruttare le dotazioni di cui dispone per risolvere il proprio problema.

Nello specifico ambito della detenzione la situazione si aggrava ulteriormente se si considera che l’utente non è un semplice soggetto bisognoso, ma un individuo già etichettato e stigmatizzato che, nel percorso di reinserimento sociale da intraprendere, deve essere riaccettato in seno alla collettività, la quale riserva spesso molti dubbi circa la sua possibilità di redenzione.

Per questo stesso motivo il lavoro che l’assistente sociale è chiamato a svolgere è ancor più difficile, poiché lavorando a stretto contatto con “materiale umano” altamente fragile, il compito da assolvere richiede molta delicatezza e competenza.

Altra peculiarità tutta italiana è legata al fatto che l’organico degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna è costituito unicamente da assistenti sociali: questo aspetto denota una condizione di arretratezza rispetto agli altri Paesi europei i quali hanno intrapreso già da tempo la strada della multiprofessionalità.

La possibilità di confrontarsi e di lavorare in rete con altre professioni infatti consente, in un’ottica sistemica, un approccio di lavoro molto più ampio e completo permettendo a ciascuna professionalità di agire in base alle proprie competenze e in maniera più completa al fine di dare risposta alle diverse esigenze dell’utente in carico.

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