La libertà (o forse il combattere per essa) è un valore intoccabile, seppur dato spesso per scontato, come testimonia la cronaca recente. Ed è qui, se- condo me, che sta la forza della provocazione dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini. Ci ricorda qualcosa di cui, forse, ci siamo dimenticati, ovve- ro che per una partecipazione democratica e sentita è imprescindibile vivere in un contesto di libertà. Libertà intesa non solo come diritto, non solo come conquista, ma anche come costante ricerca di equilibrio tra le varie mani- festazioni dell’“io” e dell’“altro”, dove le differenze tra le diverse persone siano non solo bene accettate, ma anche supportate e valorizzate. Siamo chiamati ogni giorno a tutelare questa ricchezza e a nostra volta arricchirla con spirito critico e volontà di aiuto.
Credo che non ci sia nulla di più ebraico che portare avanti la difesa dei diritti umani e delle istanze sociali. I Maestri ci insegnano che non si può fare vita ebraica in solitaria, perché l’ebraismo pretende società. Una collet- tività di rispetto reciproco, come ricorda un famoso passo del Talmud Babi- lonese. Un uomo disse ad Hillel di voler imparare tutta la Torah nell’arco di tempo in cui riusciva a stare in equilibrio su di un piede solo, ed il maestro lo accontentò, rispondendogli: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te: ecco la Legge. Il resto non è che commento. Vai e studia”. Nella liturgia e tradizione ebraica sono innumerevoli gli esempi in cui viene sotto- lineata la massima di non opprimere lo straniero, perché anche noi fummo stranieri in terra d’Egitto. “Liberazione signifi ca investimento sul futuro del- le prossime generazioni” diceva Rav Giuseppe Larasz’tz’l (sia il ricordo
del Giusto di benedizione), parlando proprio di Pesach2. Ed infatti uno
1. Consigliera Comunità Ebraica di Milano, Assessore Giovani, già Presidente Unione dei Giovani Ebrei d’Italia (Ugei).
2. Pesach è la festività ebraica che ricorda la liberazione dalla schiavitù del popolo in Egitto e il suo esodo verso la terra promessa
degli insegnamenti ebraici che io trovo più importante è quello che prende il nome di Tikkun Olam che in ebraico signifi ca “riparare” o “perfezionare il mondo”. Qualsiasi azione che migliori il mondo, e che lo renda più vicino a quello stato armonioso tipico dell’inizio della creazione, è Tikkun Olam. Non è tutto prestabilito, e seppure l’opera di Dio è perfetta per defi nizione, per l’ebraismo c’è comunque spazio per l’azione dell’uomo per migliorare il creato. E anzi, ogni attività umana altro non è che un’opportunità per rag- giungere questa missione. È facile intuire quindi come il concetto del Tikkun
Olam descriva ottimamente tutti quegli atti di giustizia sociale. Siamo tutti
responsabili di correggere l’ingiustizia anzi «il silenzio», recita il Talmud, «è consenso». L’indifferenza è il male più grande in cui possiamo incorrere. C’è un altro aspetto, tipicamente ebraico, che credo sia bene menzionare quando si parla di solidarietà ed inclusione, che è la zedaqah. Questo termi- ne viene spesso usato per indicare la carità, ma non è propriamente corretto. La parola carità viene dal latino caritas, ovvero benevolenza; quindi faccio carità quando sento compassione per l’altro. La parola zedaqah invece viene dalla parola ebraica zedek, che signifi ca giustizia sociale. Per l’ebreo fare
zedaqah è quindi un obbligo morale verso il prossimo.
Viviamo in una società in cui l’informazione è viziata e monopolizzata dagli slogan e da chi urla più forte; per creare una corretta opinione, credo invece che questa debba essere, appunto, informata. Ed è per questo che nella mia attività di volontariato, in associazioni ebraiche e non, ma anche come privata cittadina nella vita di tutti i giorni, tendo a confrontarmi con chi è esperto dei vari settori che via via bisogna approfondire. Questo per non cadere nella retorica della paura, nel troppo facile “è colpa di altri”. Perché è assai più diffi cile prendere coscienza che ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte, in maniera attiva.
Milano in ambiente ebraico, ma non solo, è teatro di incredibili e lodevoli iniziative che ben mettono in pratica, secondo me, i principi di Zedaqah e
Tikkun Olam: la prima è Beteavòn, che in ebraico vuol dire buon appetito. Beteavòn è la prima ed unica cucina sociale kosher in Italia, che ha come
missione proprio quella di offrire pasti gratuiti a quanti si trovano in diffi col- tà momentanea o continuativa, grazie al lavoro di oltre 50 volontari, per tutti coloro che ne hanno bisogno. Una realtà sempre più in crescita, anche grazie al dialogo e collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio. E poi, il Me- moriale della Shoah al binario 21, che nel solo 2015 ha accolto oltre 4500 profughi e nel corso degli anni si è dimostrata parte attiva nell’accoglienza dei migranti, ed in generale, nella vita non solo della Comunità Ebraica, ma della comunità nel suo senso più ampio.
Nel 2009 l’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia, di cui ho avuto l’onore di fare la Presidente fi no allo scorso dicembre, vinceva l’Ambrogino d’oro, dando prova di essere parte integrante del tessuto sociale, e soprattutto di avere a cuore Milano e i suoi cittadini. Dieci anni dopo quella data mi è stato chiesto di rispondere in poche righe a grandi interrogativi. Non so se sono riuscita nell’intento di identifi care i bisogni della mia città. È un esercizio costante e giornaliero, che mi porta a confrontarmi e scontrarmi in nome del sentimento di solidarietà, di inclusione in quanto giovane, in quanto ebrea, in quanto milanese. In realtà questi tre aspetti non possono (e credo non deb- bano) essere scissi. Ognuno di noi ha la possibilità e il diritto di identifi carsi quale puzzle di identità. Anzi, credo fortemente che si debba invertire questa tendenza malsana a voler classifi care ed etichettare tutti in maniera specifi ca e univoca. La storia lo ha insegnato: è questo ciò che esclude, che allontana. Chissà che incontrandoci, sia fi sicamente che spiritualmente, e smettendo di vedere solo ciò che ci differenza avremo fi nalmente quegli strumenti cultu- rali ed umani che ci permetteranno di avere una Milano inclusiva, una Mi- lano accogliente, in ogni suo quartiere, in ogni sua via. Perché possa essere d’esempio e rendere tutti noi milanesi, orgogliosi di lei.