• Non ci sono risultati.

La grande Milano, il buon governo e le lezioni della storia

Nonostante una tradizione di buon governo, almeno in termini compa- rativi con altre esperienze, la città ha più subito che determinato scelte di politica nazionale che ne condizionano tuttora la sua traiettoria.

La confi gurazione di una grande Milano istituzionalmente in grado di sostenere l’idea di “città di città” più coerente con la sua ritrovata identità, ovvero il varo della Città metropolitana, nel 2014, è stata giudicata debole: non sembra consentire una effettiva governance multilivello né un pluricen- trismo decisionale che possa dar luogo a una composizione sinfonica delle tante voci e dei tanti interessi coinvolti. E questo in ragione tra l’altro del meccanismo elettivo di secondo livello, del ruolo conseguente di coordina- mento più che di governo diretto del territorio, delle diffi coltà incontrate nell’agire in deroga pur ammesse dallo statuto5.

Siamo in presenza di una contraddizione rischiosa perché per altri versi lo spirito della città che sta emergendo avrebbe grande necessità di nuove forme di gestione degli straordinari cambiamenti che conosciamo.

Questo spirito tende ad essere cosmopolita, non però secondo le mo- dalità pur sperimentate dall’avvento industriale con l’arrivo di presenze e

4. Per tutte queste considerazioni si rimanda a M. Magatti, Novum Mediolanum, Logiche di sviluppo e di governo di un nodo globale, in Aa.Vv., Milano nodo della rete globale, cit., pp. 19-52.

5. Cfr. R. Lodigiani, Da Babele a città Madre in R. Lodigiani, a cura di, Rapporto sulla città. Milano 2015. La Città metropolitana. Sfi de, contraddizioni attese, Fondazione Ambro- sianeum, FrancoAngeli, Milano, 2015.

esperienze importate da ambienti più avanzati, ma confi nati tra élite ristret- te, le cui azioni seguivano percorsi evidentemente top down e inizialmente poco interessati alle ricadute sociali e politiche. Il cosmopolitismo di oggi è invece un fenomeno ben più ampio, riguarda l’affl usso di persone (non solo immigrati e comunque con un folto gruppo di immigrati di successo) ma riguarda soprattutto un punto di vista, un modo di pensare e interpretare la realtà che ci circonda. Non si tratta tanto di essere aperti al mondo ma di percepire la propria storia personale e collettiva in un contesto cui si è legati ma che si avverte come parte ormai del mondo stesso6.

È, come si intuisce, prima di tutto una “rivoluzione” culturale che si pre- sta ad essere confrontata con quello che Milano ha conosciuto in un suo passato che collochiamo in una storia lontana ma che si presta ad alcune considerazioni di attualità.

Le Città Stato italiane e europee medievali (e Milano tra esse) sono sta- te considerate come principale spiegazione del divario tra storia europea e asiatica. Più precisamente nella lettura che ne fa Max Weber7 sono state ritenute materia prima di democrazia d’Europa e in questo modo eversive. Nel contrapporsi, a fasi alterne, all’Impero e al Papato, esse si sono proposte statutariamente in violazione dei diritti signorili, sostenendo la libertà di tutti coloro che entravano a farne parte anche in provenienza da un contado dove sopravvivevano strutture di autorità di carattere feudale.

Le Città Stato si ponevano come realtà cetuali, “affratellate” però da un comune sentire, dalla rilevanza data alle attività mercantili e artigianali (oggi potremmo dire dal valore politico assegnato al lavoro); fortifi cate e dotate di proprie milizie per affermare il diritto di appropriarsi delle potestà denomi- native, ovvero di affermare la propria autonomia istituzionale e perseguire un interesse comune: di trarre vantaggi dalla capacità di tutti e ognuno di trarre guadagno dalle proprie attività.

Nasce qui un’idea di bene comune affermata largamente attraverso l’as- segnazione, almeno per qualche tempo, delle cariche di governo attraverso procedure di tipo universalistico non imposte da autorità esterne. Può essere di interesse segnalare che nella loro maturità (in verità non priva di derive oligarchiche), le Città Stato appaiono fortemente preoccupate di due aspetti ritenuti precondizione per assicurare benessere e prosperità.

Forte era, dichiaratamente, la tensione morale espressa in virtù civiche che dovevano contrastare ogni rischio di confl itti di interesse e assicurare il

6. U. Beck, La società cosmopolita, il Mulino, Bologna, 2003.

7. Cfr. M. Weber, La città, Testo critico a cura di W. Nippel, Piccola Biblioteca Donzelli, Roma, 2016, pp. 3-218.

perseguimento di obiettivi di giustizia e solidarietà tra i cittadini8. Ne sono un manifesto pedagogico gli affreschi (1237-1239) di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena che hanno a tema il Buono e Cattivo governo e i loro effetti.

D’altro canto, l’idea di bene comune si esprimeva anche nella cura della città. Se Bonvesin de la Riva col suo De magnalibus urbis Mediolani certifi - cava con orgoglio la posizione di preminenza economica di una Milano del XIII secolo che contava trecento forni, mille botteghe, quattrocento macelli ma anche centoventi giuristi, per altro verso Le Goff9 ci ricorda che nello stesso arco di tempo le laudes civitatum celebravano come segno distintivo la gloria, la bellezza, le arti, i costumi (l’urbanità), mentre lo storico Cipol- la10 sottolinea a sua volta l’importanza data all’istruzione dei fanciulli e la presenza di università e collegi da cui veniva reclutato personale ammini- strativo anche di umili origini.

Ciò che però merita attenzione in questo recupero di storicità, lo sugge- riscono anche le cronache del tempo ovvero il fatto che è proprio delle città “far mestiere di vivere tra molti”, in una predisposizione all’accoglienza e all’eguaglianza che deriva, lo si è accennato, dalla rottura del rigido ordine feudale preesistente. È l’applicazione dell’affermazione di S. Agostino civi-

tas in civibus est nel suo De civitate Dei, il che porta a dar peso alla qualità

delle relazioni e al riconoscimento di ciò che sono le persone, non in ogni caso ad un ordine imposto come sovrastruttura.

La mediazione dello status, come l’appartenenza a una corporazione, gioca un ruolo più che signifi cativo ma comunque dentro uno spirito “re- pubblicano” di attenzione e difesa della cosa pubblica nella concretezza delle scelte quotidiane, secondo una convivenza civile che idealtipicamente si ridefi nisce rispetto ai luoghi, alle necessità, agli scopi. Nella Città Sta- to il coinvolgimento riguardava emblematicamente anche il tracciato delle strade, così come la costruzione degli edifi ci importanti e delle cattedrali, percepiti come beni condivisi ed espressioni della dignità e dell’importanza della città stessa.

Qui, se non altro per evocazione, nasce una connessione con il cosmopo- litismo diffuso e trasversale, “banale”, afferma Beck, della post-modernità e che già è stato richiamato come proprio di una metropoli post-moderna quale è Milano.

8. M. Ascheri, Le città stato, il Mulino, Bologna, 2006, pp. 93-146. 9. J. Le Goff, La città medievale, Giunti, Firenze, 2011.