Il racconto dell’esperienza sino ad oggi vissuta nella Pubblica Ammini- strazione (prima come Presidente del Consiglio di Zona 6, ora Municipio, e poi come Assessore ai Lavori Pubblici e alla Casa del Comune di Milano) necessita di qualche passaggio introduttivo.
Sono entrato nell’Amministrazione perché mi è stato chiesto. E alle ri- chieste ho risposto dando la mia disponibilità ma, pur avendo avuto sempre una certa passione per la vita pubblica e per la città, ho coltivato i miei inte- ressi nell’attività professionale e nell’impegno volontario.
Non avevo mai pensato prima di ritrovarmi così vicino alla politica (in generale) e all’azione amministrativa (in particolare). Non so ancora se que- sta condizione di “appartenenza debole”, di parziale distacco, possa essere o meno di aiuto ma credo che rappresenti la possibilità di una lettura più laica, disinteressata, ad una diversa distanza.
Premetto che non è stato facile aver trovato il tempo per pensare (e quin- di per scrivere) e per scrivere (e quindi per pensare). Pur “autorizzati”, ri- prendendo l’invito e l’esortazione dell’ultimo Discorso alla città del nostro Arcivescovo, per un amministratore pubblico, impegnato in una città come Milano, non è facile farlo. Certo dipende da come interpretiamo il ruolo che rivestiamo e quindi da quali compiti ci sentiamo addosso ma a me manca il tempo per staccare la testa dalle attività ordinarie che premono sulla gior- nata di lavoro, dal necessario supporto che sento di dover dare ai percorsi di risoluzione delle richieste che vengono avanzate dai cittadini, dalle urgenze che colpiscono a ritmo sostenuto i nostri uffi ci, dalla pesante eredità delle
risposte non date e delle questioni non risolte che inevitabilmente ti trovi nei cassetti e nei faldoni chiusi dentro gli armadi (eredità che, in parte, lascerò anche al mio successore). Tutto questo pesa, condiziona il pensiero costrin- gendolo a concentrarsi sulla risposta al “guasto su chiamata” rendendo per contro complicato trovare le occasioni per alzare la testa e lo sguardo e pen- sare a qualche cosa di nuovo, a qualche diversa strategia di azione, a qualche misura preventiva, ad un orizzonte differente per la città.
Io personalmente ho avvertito come più urgente e necessario il bisogno di fare in modo che la macchina non smettesse di rispondere, trovasse nuovi stimoli e ragioni per fare e per fare possibilmente meglio e di più. Ho rinun- ciato ad avviare una strada mai percorsa, sconvolgente, forse necessaria ed ho preferito spostamenti marginali e cambiamenti incrementali, forse non soddisfacenti. Ho assunto una interpretazione più tecnica ed operativa del compito di amministratore che ha tolto spazio all’interpretazione più politi- ca, orientata alla ricerca delle ragioni e del senso dell’azione o, meglio an- cora, delle prospettive di azione. Interpretazione (più) politica che peraltro, già negli ultimi decenni del secolo precedente e non solo a Milano, aveva cominciato a dare segni evidenti di crisi con riferimento alla questione del “pensiero”. Certo è diffi cile assumere una posizione netta (e probabilmente neanche serve nella pratica) ma a livello analitico e teorico va utilmente ri- conosciuto che se oggi, nell’amministrazione locale, una linea di forza tende ad emergere e ad avere il sopravvento questa è quella che spinge verso la di- rezione dell’operatività, del fare, della traduzione tecnico-operativa, deside- rosa di dare risposte e di produrre fatti. Questo scredita, almeno in parte, la politica o forse il modo in cui essa ultimamente ha interpretato il suo ruolo.
Un secondo aspetto, che costituisce parte di questa lunga premessa, met- te in luce come l’istituzione pubblica ci precede ed esiste, per molti aspetti, a prescindere da noi. Elabora risposte, macina atti amministrativi, mette in fi la (a volte in ordine) azioni nei campi più disparati occupati oggi dall’interven- to pubblico e per farlo senza troppi dubbi e ripensamenti tende ad affi darsi alle procedure che determinano (nel bene e nel male) standardizzazione e automatismo. Nel rapporto tra effi cienza ed effi cacia esce vincente la pri- ma e questo meccanismo (orientato alla “produzione” della risposta, anche quando non risponde più alla domanda) continua a riproporsi fi no a quando la risposta risulta totalmente insoddisfacente. Fino a quel momento si tende ad andare avanti e non viene inserito nessun pensiero perché il pensiero suona come “disturbo”, impedimento, operazione che introduce comunque una pausa (di rifl essione), una discontinuità, una interruzione, un fermo tem- poraneo sulla linea produttiva. Anche per questo pensare, nella pubblica am- ministrazione, può risultare pericoloso. Sicuramente è azione temuta dalla
macchina amministrativa poiché rischia di compromettere quanto si è fatto fi no a ieri, introduce un tema di responsabilità e conseguente giudizio (chi decide di fermare tutto, di sospendere qualche cosa che comunque funziona- va, anche se non perfettamente, per introdurre una novità che, pur legittima, potrebbe rischiare di impallare tutto?).
Molto altro potrebbe concorrere a limitare lo spazio e il tempo del pen- siero ma credo che quanto detto renda conto della diffi coltà di cui ho parlato in apertura, nonostante quello spazio e quel tempo vengano avvertiti come necessari.
Rispetto alla mia “vita precedente”, quello spazio e quel tempo, dedicato al pensiero sul futuro, al come rendere il domani migliore, mi manca e di- venta tanto più urgente quanto più cresce la responsabilità pubblica e quan- to, per contro, le condizioni al contorno lo rendano diffi cile ed impraticabile.