Se la nuova dislocazione geo-economica e sociale di quest’ultima lascia aperti i problemi di governance e di protezione sociale, la ridefi nizione della cittadinanza è il percorso forse più utile per affrontare questi problemi.
È intuitivo che una convivenza civile non può essere sostenuta da una de- fi nizione della cittadinanza senza base normativa. Ma già sull’idea di nazio- ne, in tutt’altro contesto storico, un autore come Renan, sottolineava come questa idea si alimentasse di un «plebiscito quotidiano»11.
A maggior ragione questo stesso plebiscito è necessario alla società co- smopolita che non può essere garantita nel suo ordine sociale da uno status defi nito nei termini di un nazionalismo metodologico. È infatti questo status non regge alla stessa ampia defi nizione di cittadinanza cui solitamente ci riferiamo, quella marshalliana, dove sono garantiti, accanto ai diritti indi- viduali e politici, quelli sociali, con un paradosso: è facile che almeno una quota di accessi alle politiche sociali sia assicurata anche ai non cittadini per ragioni umanitarie e insieme per controllare una segregazione rischiosa per lo stesso ordine pubblico, mentre nel medesimo tempo la libertà di circo- lazione viene limitata e la partecipazione alla gestione della cosa pubblica negata in un circolo vizioso che toglie respiro alla prospettiva cosmopolita.
È evidente che su questi temi, la discussione sulla cittadinanza può essere “eversiva”, come avvenne per le Città Stato medievali verso gli ordinamenti di regime feudale del loro tempo, poiché ad essere problematizzati sono i criteri su cui si è costruito il concetto di cittadinanza, i criteri propri del nazionalismo metodologico12, appena ricordato: diritti e doveri defi niti rigi- damente rispetto a un confi ne nazionale. Ma siamo in una fase di transizione non breve, con la presenza di troppe linee di forze divergenti per immagina- re qualunque esito alla discussione in atto e le spinte verso un ritorno a forti nazionalismi sarebbero con ogni probabilità di diffi cile contrasto, anche se con effetti negativi, anche inintenzionali, sulla crescita delle metropoli.
Milano poi, lo si è rilevato, sembra avere nella politica e nella forma isti- tuzionale della città metropolitana qualche elemento di debolezza. Al tempo stesso il suo essere “città-madre”, città di città, potrebbe aprirsi ad uno spe- rimentalismo democratico non tanto verso esperienze di cittadinanza parzia-
11. E. Renan, Che cos’è una nazione?, Donzelli, Roma, 2004.
12. Tra tutti si vedano i diversi contributi di Laura Zanfrini, in particolare Cittadinanze. Appartenenza e diritti nella società dell’immigrazione, Laterza, Roma-Bari, 2007; Id., a cura di, Costruire cittadinanza per promuovere convivenza, Atti della III edizione della summer school “Mobilità umana e giustizia globale”, in “Studi Emigrazione/International Journal of Migration Studies”, L, 2013, n. 189.
le, per livelli amministrativi, dagli effetti ritenuti discutibili, quali possono essere determinati status di denizen, di semplici residenti, bensì verso una legittimazione alla partecipazione, alla istituzione e gestione di determinati beni pubblici, o tra pubblico e privato, secondo un percorso progressivo di acquisizione della cittadinanza piena. Un riferimento utile può essere quello ai beni comuni, ma diverse tra le esperienze di democrazia deliberativa pos- sono far parte di questo percorso.
È un’ipotesi che vale per tutti, cittadini già tali e non, se riteniamo che quanto più esteso e senza confi ni (culturali e sociali) è il cosmopolitismo, tanto più vanno messi in campo strumenti di appartenenza ai luoghi della propria vita e di consapevole messa alla prova della propria capacità di re- sponsabilità, dunque di cittadinanza attiva. Questa considerazione acquista maggiore valore se è vero che le città si autodefi niscono in termini di funzio- ni economiche altamente innovative mentre continuano a trovarsi di fronte ai bisogni sociali emersi nelle diverse tappe di decostruzione e ricostruzione di cui hanno fatto già esperienza, senza però aver saputo avviare un eguale processo di adeguamento delle politiche sociali. Il welfare state, tanto più se universalistico, si reggeva su un patto distributivo della ricchezza anche sotto forma di servizi alla persona. Ma questo patto cade di fronte all’au- mento delle distanze sociali, che nelle metropoli, anche quelle di successo, diventano ancora più visibili, e di fronte alla crisi fi scale dello stato e delle istituzioni locali.
Da qui la necessità di un nuovo paradigma di sviluppo e di governo, che contempli non solo le risorse, umane e fi nanziarie, e gli infi niti progressi tec- nologici, ma anche la cura: la cura di sé e dell’altro, l’arte, l’ambiente, tutto quello che può dare la misura della qualità e della bellezza di dove viviamo. Si tratta di obiettivi, tutti, che presuppongono una responsabilità diffusa tra le stesse imprese, un “capitalismo benefi t”, senza fi ni di lucro (nel nostro paese le tradizioni dell’economia civile e del non profi t), una propensione (volontà) di sostegno a una vita buona per tutti.
C’è un pre-requisito da riaffermare: proprio perché è determinante, più che in passato, la dimensione delle relazioni intersoggettive, rileva come non mai la presenza di una cultura che valorizzi “l’altro da me”, ne faccia una ragione di senso in nome di una amicizia tra pari. Gli esiti di una città metropolitana come la si è tratteggiata sono quelli di una società che va ol- tre se stessa verso un futuro inedito, non tanto multiculturale o interetnico, legato all’immigrazione, sopra chiarito.
Piuttosto va detto che già una cittadinanza europea implica un confronto e una convergenza di esperienze e di orientamenti diversi, in un contesto
di popoli che abitano in uno stesso continente e hanno una lunga storia di rapporti e contatti. Non si tratta di un futuro di per sé ineluttabile (nulla può essere dato per scontato, vale la pena ricordarlo) ma è qualcosa di certo atte- so nella città cosmopolita e che in ogni caso non potrà dispiegarsi al di fuori di alcuni capisaldi fondamentali, quali il valore della persona, la sua libertà, pari opportunità effettive, il rispetto come consapevolezza di una reciproca inter-dipendenza, in grado di portarci ad un nuovo incontro con l’Uomo, una svolta antropologica, potremmo dire con Benedetto XVI.
L’incontro con l’altro è prefi gurato come decisivo anche da un altro papa, l’attuale Francesco quando parlando della amata, ma diffi cile, Buenos Aires, suggerisce uno stile di presenza come quello di Zaccheo: quando apprende che Gesù è in città, Zaccheo esce di casa per vederlo, si arrampica su un sicomoro, riceverà con gioia nella sua casa Gesù stesso, che a sua volta si comprometterà con un pubblicano considerato peccatore13.
Non è dunque, quello proposto, un uscire senza meta, un vagare tra cul- ture diverse. Ma non è neppure un obiettivo predeterminato da imporre. Agli abitanti della città immersa nello “shaker dell’ibridazione culturale” (così si esprime papa Francesco), viene proposto di incontrare, accompagnare ed es- sere fermento. Un metodo, dunque, che presuppone una “ipotesi” valoriale, da offrire come progetto per costruire la “polis”.
Fuori da ogni determinismo, che sembra talvolta una suggestiva tentazio- ne dettata da proprie personali escatologie, sarà in ogni caso necessario un enorme sforzo educativo e di immaginazione sociale, a partire da noi stessi, perché ciò che appare per più aspetti un groviglio di vincoli, possa tradursi in una opportunità condivisa.