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Riattivare dinamiche partecipative nella città

La metropoli contemporanea, risultato di un’evoluzione non lineare, conserva tuttavia nella sua attuale confi gurazione i caratteri delle molteplici forme urbane dell’abitare umano che l’hanno preceduta nel tempo, siano esse la polis greca ovvero la civitas romana, la città medioevale, quella indu- striale della modernità ovvero post-fordista della contemporaneità. E se un tratto costante è dato ravvisare, è l’intensità dello sforzo che sempre è stato chiesto agli uomini per costruire le loro città7; sforzo ovviamente ben più intenso per edifi care comunità e organizzazione, che non per erigere edifi ci o bastioni.

Così intesa essa si rivela anzitutto, osserva Anna Lazzarini, come spazio confl ittuale, fi gura della complessità alla perenne ricerca di un ordine, unitas

multiplex8.

Su altro versante, la città è spazio ritagliato in un territorio, ma capace al tempo stesso di prescinderne per molti aspetti e funzioni, per effetto della tecnologia, e dunque, in defi nitiva, dal territorio stesso svincolata.

Un pensiero della città – genitivo che può intendersi qui come sogget- tivo e oggettivo – deve perciò corrispondere a un’elaborazione concettuale in grado di coglierne tutte le articolazioni, di leggere e interpretare tutte le sue plurime pratiche e manifestazioni: la città va dunque continuamente

6. R. Dodaro, I fondamenti teologici del pensiero politico agostiniano: le virtù teologali dello statista come ponte tra le due città, in “Etica & Politica”, IX, 2007, 2, pp. 42-43.

7. Osserva Massimo Cacciari: «costruire una città, fare città è un grande sforzo, una grande fatica, una grande responsabilità, non ci viene naturalmente dalla nostra natura, la nostra ani- malità non è naturalmente politica, è una costruzione culturale la polis, la città, che ci chiama ad essere perfettamente, pienamente responsabili» (cfr. Ivo Nardi, Intervista a Massimo Cac- ciari, accessibile via web a https://www.rifl essioni.it/senso-della-vita/massimo-cacciari.htm).

8. Cfr. A. Lazzarini, Polis in fabula. Metamorfosi della città contemporanea, Sellerio, Palermo, 2011, pp. 17-18.

ascoltata e non semplicemente sondata e tradotta in statistiche, per quanto comunque necessarie, più o meno connotate dall’attributo della scientifi cità.

Come ascoltare la città è questione troppo vasta per essere qui affronta- ta, o anche solo inquadrata, adeguatamente. Vi è però ragione di confi dare che un ascolto della città capace di articolare e mediare logiche e approcci contrastanti, come quelli che, da un lato, muovono da un approccio astrattiz- zante ed elitario (“dall’alto”, più modernamente top down), ovvero dal lato opposto, procedono dall’empirico sondaggio della realtà (“dal basso”, bot-

tom up), possa rappresentare un utile strumento di analisi e, al tempo, stesso,

di coinvolgimento di una pluralità di soggetti solitamente dimenticati. Detto altrimenti, prendendo ad esempio lo specifi co tema delle periferie: bisogna passare dalla semplice, per quanto reale, enfasi sulle “mancanze” che caratterizzano l’oggetto di indagine (le periferie, appunto) alla valoriz- zazione di tutti gli aspetti che ne determinano anche la vitalità o, se si pre- ferisce, la resilienza.

Insomma, un’etnografi a urbana più che mai necessaria allorquando la città

appare sempre più caratterizzata da contesti relazionali dentro i quali la diversità delle abitudini, dei punti di riferimento, dei linguaggi, degli interessi e dei simboli costituisce la norma piuttosto che un’esperienza isolata e isolabile. Non si tratta solo di sviluppare le rifl essioni teoriche sul rapporto tra Ville e Citè ma muovendo da queste applicare agli spazi pubblici della nostra città ricerche empiriche, progettare e svolgere forme di intervento per approfondire i legami con i “luoghi” che i diversi gruppi cittadini abitano e attraversano nella loro quotidianità, avanzare proposte per nuove forme di partecipazione alla loro gestione, individuare l’emergere di nuove forme di povertà e di esclusione sociale in fasce sociali che per i loro progetti di vita erano lontane, sino a qualche anno fa, da questo rischio, fare emergere questo “rischio” portandolo alla consapevolezza e alla responsabilità di tutti i gruppi che popolano il contesto urbano9.

Purché, occorre aggiungere, tutto questo sia accompagnato da qualche modalità che conferisca concretezza ai risultati delle rifl essioni: senza ne- cessariamente tradursi nel potere di assumere decisioni vincolanti per l’in-

9. Cfr. M. Callari Galli, Partecipazione, spazi pubblici e processi identitari. La città contemporanea come luogo dello scontro tra poteri globali e identità tenacemente locali. (https://storicamente.org/quadterr2/callariGalli.pdf).

Di grande interesse, nel quadro qui delineato, il programma City School: un’iniziati- va triennale di collaborazione tra il Comune di Milano e sei atenei milanesi (Università di Milano-Bicocca, Università Cattolica del Sacro Cuore, Università Bocconi, Politecnico di Milano, Università Iulm, Università degli Studi di Milano), per confrontarsi sui fenomeni sociali, economici e urbanistici in atto in città e su sfi de e opportunità di cambiamento.

tera collettività, essendo, prioritariamente, necessario riaprire i canali di co- municazione per effetto dei quali una molteplicità di soggetti diviene una collettività, capace di riconoscere bisogni e obiettivi comuni e di condivide- re lo sforzo per la loro realizzazione.

In secondo luogo è necessaria una disponibilità dei decisori (in primis quelli politici) a reinterpretare il loro ruolo nell’indicata prospettiva.

In absentia, per tornare alle parole dell’autrice, «tutte le forme di parte-

cipazione si prestano oggi ad essere sottoposte ad aspre critiche e comun- que incontrano grandi diffi coltà a soddisfare la necessità del coinvolgimento attivo di ampi gruppi di cittadini […] laddove la chiamata “a partecipare” diventi soprattutto una occasione per convalidare decisioni già prese o sem- plice strumento di legittimazione del consenso politico»10.

Riattivare dinamiche partecipative, attorno alla fondamentale premessa costituita dal riconoscimento della necessità di riportare l’attenzione a ciò che è bene comune, esige, ovviamente, un corrispondente sviluppo cultura- le, i cui caratteri sono peraltro assoggettati ad un profondo processo di mu- tamento – e anche di potenziale esclusione – dalla presenza onnipervasiva di una tecnologia della comunicazione e dell’informazione la cui evoluzione procede a velocità superiore alla capacità di gran parte della popolazione di impadronirsene.

Problema – quello della tecnopolitica – da affrontarsi al di fuori di ogni astratta contrapposizione tra apocalittici e integrati, da un lato; tra democra- zia rappresentativa e democrazia diretta, dall’altro11.

Resta in ogni caso imprescindibile che il riconoscimento «dell’accesso non può divenire una chiave che apre una stanza vuota: da qui la necessità di considerare la conoscenza come bene pubblico globale, non solo rivedendo categorie tradizionali come quelle del brevetto e del diritto d’autore, ma evitando fenomeni di chiusura rispetto a questo common, che caratterizza appunto la nostra società come quella della conoscenza, trasformando in risorsa scarsa un bene suscettibile della più larga utilizzabilità»12.

10. Ivi., in riferimento, particolarmente, alle ricerche di Jacques Donzelot e di Luigi Bobbio.

11. Si veda W.M. Daley, Falling through the net: defi ning the digital divide, National Telecommunications and Information Administration – U.S. Department of Commerce. In: http://www.ntia.doc.gov/ntiahome/digitaldivide; S. Rodotà, Tecnopolitica. Le democrazie e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Bari, 1997.

12. Cfr. S. Rodotà, Una costituzione per internet, in Pol. dir., 2010, p. 351. Sul concetto di conoscenza come bene comune e di sapere come risorsa condivisa si rinvia a C. Hess, E. Ostrom, a cura di, La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, Milano, 2009.

Produrre beni comuni: la terza missione culturale e sociale